sabato, aprile 30, 2005

Allarme! Emergenza!

Sono le parole, o meglio, i concetti preferiti dall’attuale televisione sovietica italiana. E’ sempre allarme, sempre emergenza: tutto viene drammatizzato, enfatizzato; vi è continuamente un pericolo che incombe, una minaccia per il moderato spettatore televisivo già angustiato dalla crisi economica, dalla mancanza di una prospettiva futura per i figli, condannati al precariato perenne. Poi arriva il Premier, che rassicura: va tutto bene, anzi, benissimo, l’economia tira, i conti pubblici sono in ordine, la maggioranza che lo sostiene è compatta, omogenea, non esistono contrasti. Il moderato telespettatore tira un sospiro di sollievo. Il governo lavora per noi, per la nostra tranquillità. Ed ecco che arriva di nuovo l’Allarme! Emergenza! E si ricomincia.
L’ultimo Allarme! Emergenza! della televisione sovietica italiana è quello delle scarpe cinesi. Concorrenza sleale, dicono, produzione in stato di dumping sociale e ambientale, bisogna fare qualcosa. Già, ma cosa? Per ora le misure protezionistiche sono vietatissime dall’Europa. Parla il patron Diego della Valle: bisogna “riqualificare”, è necessaria “una ricerca, per l’innovazione”. Quale innovazione? Il servizio ha appena svelato che le scarpe italiane sono all’avanguardia nel mondo, esportiamo ben l’ottanta per cento della produzione. Cosa c’è da innovare?
Allora ho fatto un giretto per negozi, tanto per rendermi conto dei prezzi dei nuovi arrivi. Scarpe da uomo, estive, vanno da 80 a 110 euro; dei sandalucci aperti da donna 100 euro (99, va be’). E quelle invernali vanno dai 100 ai 120. Prezzi medi intendiamoci, le “ciocce” superfirmate vanno ben oltre . Ecco quindi il problema, che la televisione sovietica italiana e Della Valle si guardano dal sottolineare: i prezzi. Gli industriali italiani, i “peggiori capitalisti d’Europa”, come li chiama qualcuno, piangono continuamente miseria, si lamentano, chiedono soldi, sempre più soldi, a scapito della cosa pubblica, che va rasa al suolo per pompare capitali a fondo perduto nelle loro casse senza fondo. Hanno profitti enormi, offensivi, mentre invocano abbassamenti del costo del lavoro (leggi: salari più bassi), e maggiore “flessibilità”, in un mercato del lavoro che è già uno dei più flessibili del mondo. Ma i prezzi non li abbassano, questo mai. E allora, che dire? Ma teniamoci le scarpe cinesi.

giovedì, aprile 28, 2005

racconto frigidairiano

Prosegue la pubblicazione dei racconti frigidairiani. A parte i nomi dei personaggi, sono storie vere, fatti realmente accaduti. Come ho già fatto presente, alcuni sono di taglio hard, quindi chi ha problemi con un certo linguaggio, non legga i racconti frigidairiani. Perché leggerli per forza?

Schiuma hard core

C’era un tipo – che chiamerò Benci - che conoscevo al paese, prima di emigrare a Roma per lavorare in redazione. Era un ragazzo di circa trent’anni, altissimo, sarà stato due metri e dieci, con una grande testa di capelli neri voluminosi e due mani enormi, due mazze che avrebbero atterrato un bue. Era un personaggio mitico (ora non è più tra noi, è morto di overdose), era stato sposato con una ragazza bellissima, molto alta anche lei (circa un metro e novanta), magra, nervosa, atletica. In un paese dove l’altezza media delle persone era di un metro e sessantacinque, loro due formavano una coppia che suscitava sconcerto, e, forse, ammirazione e invidia. Il matrimonio comunque durò meno di sei mesi, perché lei, un giorno, fu ricoverata in ospedale per le percosse ricevute. Almeno così si diceva, e la cosa mi stupì, perché ho sempre considerato Benci un bonaccione, un tipo generoso, sempre disponibile verso gli altri.
Con Benci talvolta andavo in una vecchia casa abbandonata sperduta nella campagna a sparare con una 44 Magnum, la gigantesca pistola dell’ispettore Callaghan. Non so dove avesse trovato quel cannone, né quale uso intendesse farne, a parte il tiro a segno con bottiglie, sagome di legno, angurie (che colpite dalle grosse pallottole blindate in rame esplodevano come bombe imbottite di semi e polpa rossa); chi non ha mai provato a impugnare e a premere il grilletto di un’arma simile non può neanche immaginare la potenza di quello sparo, e il rinculo che rischia di scaraventarti la pistola sul petto, se non viene stretta a due mani, con forza e concentrazione.
Poi mi trasferii a Roma e ne persi le tracce. Quando tornavo al paese però, circa una volta al mese, mi capitava di vederlo in giro per il viale alberato. O meglio, non in giro, ma sulle panchine, seduto con qualche altro perdigiorno come lui (era un operaio in cassa integrazione perenne), oppure sdraiato sulla panchina, troppo corta per lui, coi piedi fuori, addormentato, o svenuto, indicato a dito dai cittadini che dicevano che era diventato un drogato e uno spacciatore.
Un giorno che passeggiavo per il viale sentii il suo inconfondibile vocione che mi apostrofava. Mi girai e lo vidi, seduto a gambe larghe sul marciapiede che correva lungo il perimetro del palazzo della ferramenta. Mi chiamava agitando un braccio. Mi avvicinai, gli tesi la mano e mi sedetti accanto a lui.
“O’ sei te” disse, “è da un po’ che non ti si vede”.
“Già” dissi, e intanto scrutavo il suo volto: gli occhi erano infossati in due profonde occhiaie scure e la pelle era come incartapecorita. I capelli erano scarmigliati, in disordine sulla fronte lucida, e gli abiti sporchi e stazzonati. Sì, erano segni inequivocabili della deriva nell’eroina.
“Be’, dimmi una cosa, è vero che lavori là in quel giornale di scoppiati?”
Nella parola scoppiati c’era un che di ironico, dubito che avesse mai letto la rivista. Probabilmente ne sentiva parlare in giro. “Sì” confermai.
Seguì un silenzio. Ci guardavamo intorno con aria distratta, osservavamo i cittadini, sempre gli stessi da una vita intera, che transitavano sul viale, a piedi, in moto, in bicicletta, in auto.
“E tu?” domandai. “Spari ancora con quel pistolone?”.
Benci sospirò. “Uh. L’ho venduta”.
Aveva venduto la Magnum. Sull’uso del denaro ricavato non avevo dubbi.
“Oh” disse con tono spavaldo, “comunque adesso uso un altro pistolone, ah-ah”, e si portò la mano al cavallo dei pantaloni. Lo guardai con aria interrogativa. “Sì, questo pistolone qui” disse, toccandosi l’inguine.
“Buon per te” dissi.
“L’hai detto. Lo ficco tra le gambe delle azdore sposate”.
“Ah” dissi, sorpreso. Non avevo mai sentito Benci parlare di sesso. “Così hai delle amanti sposate?”
Scoppiò a ridere e si perse per qualche secondo in un accesso furioso di tosse. “Amanti?” disse, quando la tosse si fu calmata. “Diciamo pure amanti. Io me le sbatto mentre il marito è lì che guarda”:
“Ma no” dissi, sempre più sbalordito.
“Oi! Tu non immagini. C’è tutto un giro, a Lugo, a Ravenna, di coppie depravate che cercano degli stalloni che si sbattano le mogli. Poi ci sono alcuni mariti che lo vogliono prendere nel culo mentre pompano la moglie, ma io quella cosa lì non la faccio”.
La mia mente aveva già iniziato a lavorare alacremente. Ero sempre alla ricerca di spunti per qualche servizio, e già qualcosa si stava configurando. C’era una rubrica, inventata dal direttore, che si chiamava Schiuma. Era un contenitore onnivoro dove inserire qualunque storia strana, storie pesanti, storie perverse, ritratti di personaggi. La vicenda di Benci mi sembrava perfetta. Mi chiesi, ma una sola volta, senza angosciarmi, se era tutto vero. In realtà il problema non si poneva. In Schiuma i personaggi parlavano in prima persona, il giornalista non faceva che trascrivere il testo (era uno stile che in seguito venne copiato da alcuni grandi giornali per le interviste). Era dunque un racconto, e la responsabilità era tutta di chi raccontava. Non da un punto di vista giuridico, ovviamente, ma a noi non importava un fico secco dell’aspetto giuridico.
Gli chiesi di raccontarmi tutto, con dovizia di particolari. Benci, che sembrava non aspettare altro, si lanciò in una lunga storia che aveva come asse portante un sistema di annunci in codice coi quali le coppie comunicavano con gli “stalloni”. Si vedevano nelle case, parlavano, bevevano, alcuni avevano anche della coca; poi la moglie si spogliava, lentamente, e così via.
“Ma ti pagano?” chiesi.
Benci rovesciò indietro la testona, ma il gesto fu troppo brusco e sbatté violentemente contro il muro. Bestemmiò a lungo, massaggiandosi la nuca.
“Delle volte. Dipende. Se la moglie è buona lo faccio anche gratis, però voglio un po’ di roba”.
Non indagai sulla “roba”, se intendeva coca o ero. Comunque la storia era già scritta nella mia testa. Non ho mai registrato le interviste, perché non ero bravo a parlare, mi confondevo; però mi imprimevo a fondo nella mente il parlato del soggetto ed ero in grado di restituire con precisione le frasi. E poi in Schiuma c’era grande libertà di stile, se necessario si modificava, si riscriveva.
Stavo per proporgli l’idea dell’intervista, ma prima volevo parlarne col direttore, perché c’era un aspetto importante da chiarire.
“Benci, ti va una birra?” chiesi. “Vado al bar e ne prendo un paio.”
“Volentieri” disse.
“Allora aspettami qui. Non ti muovere, d’accordo?”
“E chi si muove?”
Attraversai il viale ed entrai nell’enorme bar della sezione del P.C.I., che a quell’ora di un pomeriggio feriale era semivuoto. C’erano solo un paio di tavolini occupati da pensionati che giocavano a carte. Andai verso la cabina del telefono e chiamai Vincenzo Sparagna. Per fortuna lo trovai in redazione. Quella storia andava definita subito, chissà che fine avrebbe fatto Benci l’indomani. Il direttore mi ascoltò attentamente, poi, a racconto ultimato, restò qualche secondo in silenzio a meditare. “Uhm, si può fare” disse.
“Però c’è un problema” dissi.
“Che problema?”
“La foto. Non credo che accetterà di farsi fotografare.”
Altro silenzio meditativo. “Be’, questo è vero. Allora perché non gli fotografi... vediamo... il bacino?”
Geniale! Non ci avevo pensato. Non mi sarebbe mai venuta un’idea simile. Era forte, mentre un ritratto del viso in fondo sarebbe stato banale. Dissi che ci avrei provato. Stabilimmo la lunghezza massima del testo, lo salutai e riattaccai. Poi comprai due lattine di birra e raggiunsi Benci, che intanto si era addormentato con la testa appoggiata al muro.
Stappammo le lattine e bevemmo una lunga sorsata. Quando la birra terminò Benci era un po’ rinvigorito. La birra è sempre stata la bevanda preferita dei tossici, perché “tira su” l’ero quando inizia il terribile calo che fa cadere le palpebre e ciondolare la testa. Allora gli proposi l’idea: un’intervista sulla sua storia, e una foto. “Ma non una foto non del viso, perché... non ti andrebbe, giusto?”
“Oh” disse, guardandomi con tanto d’occhi. “Guarda, non me ne fregherebbe proprio un cazzo. Che me ne frega di questi qua?” e indicò con una mano il viale. “Che me ne frega di questo branco di contadini sfigati pieni di soldi e di merda? Però c’è mia madre che... insomma diventerebbe matta.”
“Appunto” dissi. “Allora ho quest’idea: ti fotografo il pistolone”.
Glielo dissi con assoluta nonchalance, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. D’altro canto per noi tutto era normale, non esisteva nulla di troppo hard, nulla di sconveniente. Avevamo addirittura pubblicato un Manuale del killer professionista che insegnava come uccidere un uomo, un’iniziativa ironica e provocatoria che aveva provocato furiose polemiche e anche una denuncia con relativo sequestro delle copie.
Benci scoppiò a ridere. “Cosa? Vuoi dire che mi fotografi... l’uccello?”
“Proprio così”.
Continuò a ridere, ed io ero un po’ preoccupato, perché quell’eccessivo uso di energia della risata poteva accelerare un calo micidiale della droga e farlo crollare.
“O’, ma allora è vero, siete proprio una manica di scoppiati!”
“Scoppiatissimi” dissi.
Forse questa battuta gli piacque, oppure lo intrigava l’idea provocatoria, un sasso nello stagno culturale del paese. “Tanto lo sapranno tutti che sono io, ah-ah!” Accettò.
“Bene, allora andiamo. La facciamo a casa mia”.
“Ma come, adesso?”
“Certo. Perché rimandare? E poi domani devo tornare a Roma”. Era vero, ma il motivo era un altro: uno come Benci si sarebbe perso dopo poche ore, oberato dai problemi della roba, dall’astinenza eccetera. Impossibile stabilire un appuntamento per il giorno dopo. O subito o mai più.
Ci alzammo e andammo verso la mia vecchia Reanult 4.
“Hai ancora quella cinquecento?” chiesi. Lui, un gigante, affermava di trovarsi bene solo con la macchina più piccola del mondo.
“L’ho venduta” disse.
“Ah. E il vespino?” Era buffo Benci in sella a quel piccolo scooter, sembrava un enorme cavaliere mongolo in groppa a un pony.
“Ho venduto anche quello. Che me ne faccio? Abito a cento metri da qui, e non c’è nessun altro posto dove andare”.
Arrivammo alla mia casa semidiroccata, dove al piano terra, in una stanzona, viveva la mia vecchissima nonna. Salimmo al primo piano, nell’appartamento quasi privo di mobili dove avevo vissuto quando abitavo al paese, e lo feci piazzare di fianco alla finestra del piccolo soggiorno. Presi la Polaroid SX 70, una macchina di gran moda a quei tempi (tutti gli artisti di tendenza si esaltavano e scattavano centinaia di foto con la SX 70) e mi piazzai a circa due metri da lui, in ginocchio. “Ok” dissi. “Allora giù i pantaloni e le mutande”.
Forse ebbe un breve attimo di incertezza, ma se ciò avvenne lo dissimulò perfettamente. Invece lanciò un’occhiata preoccupata alla finestra e disse: “tira ben giù la tapparella, che se ci vedono ci prendono per due culattoni”.
Ecco un pensiero che non avrebbe mai attraversato la mia mente. Ero unicamente concentrato sulla foto. Finché la polaroid non usciva dal carrello della macchina il servizio sarebbe stato inutile.
“Dai, sono pronto” dissi quando ebbi abbassato la tapparella e inserito i piccoli flash a torcia sulla SX 70. Allora Benci, con gesto deciso, si calò i pantaloni e le mutande e rimase col batacchio che dondolava tra le cosce pelose. E qui, mentre inquadravo il suo organo genitale, fui assalito da una tremenda, irresistibile crisi di riso. Vidi me stesso chino con una macchina fotografica di fronte a un gigante tossico coi pantaloni calati e mi venne in mente la sua frase: “siete proprio una manica di scoppiati”. Chi era più scoppiato, io o lui? Nascondendomi dietro la macchina riuscii a non esplodere in una risata che sarebbe stata molto imbarazzante, perché l’avrebbe fatto sentire ridicolo, preso in giro; in realtà non volevo affatto prenderlo in giro, mi stava semplicemente offrendo una storia strana, un storia forte, estrema, che era ciò che cercavo. Però vedevo la scena da fuori, come se fossi un insetto che volava nella stanza: io inginocchiato, lui col batacchio a penzoloni, era impossibile resistere. Scattai quattro foto tutte uguali, con l’unico scopo di ripararmi dietro la macchina e reprimere la risata che mi toglieva il respiro.
Alla fine riuscii a calmarmi e guardammo le foto. Erano abbastanza inquietanti. Perfette.
“Certo che se era un po’ duro era meglio” disse Benci prendendosi in mano l’arnese e squadrandolo con aria critica. “Solo che qui... non ce la faccio mica a indurirlo. Non ce l’hai un giornale porno?”
Dissi che non l’avevo. C’era qualche numero del Frigido con immagini pornografiche, ma non l’avevo con me. “Vanno bene così” dissi.
“Se lo dici te” disse.
Ci sedemmo al vecchio tavolo rotondo, che proveniva dalla sede della radio libera che avevamo fondato cinque anni prima, e rollai una canna. Benci fece un paio di tiri, ma senza entusiasmo. I tossici sono indifferenti al fumo. Erba ed eroina appartengono a razze diverse, non hanno nessuna interazione. Un tossico neanche la sente l’erba. L’eroina richiede l’alcool, che è una droga del tutto simile, un parente stretto che la rinvigorisce quando perde potenza.
“Devo andare” disse Benci alzandosi. Ebbi la netta sensazione che stesse diventando nervoso. Probabilmente aveva bisogno della dose serale. “Devono passare a prendermi per andare a Ravenna per un certo businness”.
Riposi le polaroid in una busta e scendemmo le scale. Non staccai il contatore della luce. Quando tornavo al paese non dormivo nella mia casa, perché c’era polvere e abbandono, ma dai miei. Quella sera, però, volevo scrivere il testo dell’intervista, perché infuriava nella mia mente, e premeva per uscire.
Lo accompagnai sul viale, di fronte alla sua panchina preferita. Il tramonto si annunciava con la sua luce rossastra.
“Hai una sigaretta?” chiese, guardandosi intorno con insistenza.
“Aspetta qui” dissi. Andai alla tabaccheria, comprai una stecca di sigarette e gliele porsi.
“Vuoi che... stia con te?” chiesi, spinto da un improvviso senso di malinconia all’idea di mollarlo da solo su quel viale deserto.
“Che?” esclamò, guardandomi sorpreso. Gli occhi si erano arrossati, ed erano più stretti. La crisi iniziava a farsi sentire. “Ma no, tra un po’ arriva quel soggetto che mi porta a Ravenna. Be’, ti saluto” disse, e uscì di getto dalla macchina.
Lo guardai allontanarsi con passo frettoloso, la testa ciondolante sul grosso collo e la stecca di sigarette sotto il braccio. Dopo due secondi era sparito dalla mia vista. Chissà dov’era finito, in quel viale deserto privo di nascondigli.

mercoledì, aprile 27, 2005

Incrocio di stroncature sul libro di Piperno

E’ accaduto un fatto abbastanza inusuale, di questi tempi: uno scrittore famoso stronca un altro scrittore famoso: Aldo Nove su Liberazione smonta Con le peggiori intenzioni di Piperno e getta via i pezzi: noioso, scontato, furbino, reazionario (cliccare qui per leggere). A questo punto interviene un altro scrittore, Giuseppe Genna, che a suo tempo definì il libro un capolavoro, e stronca Aldo Nove per la sua stroncatura, allargando l’attacco anche alla persona di Aldo Nove e alla sua produzione letteraria (cliccare qui). A questo punto su Liberazione criticano aspramente Giuseppe Genna per i toni violenti che ha usato, e segue una nuova replica di Genna (cliccare qui).
I testi, le stroncature e le controstroncature, sono abbastanza virulenti, sopra le righe, rancorosi sul piano personale, indignati e tignosi. Mi sembrano decisamente esagerati, perché se uno pubblica un’opera letteraria si deve mettere in conto che seguano giudizi positivi o negativi, e non è il caso di sprizzare veleno se non si è d’accordo; eppure la vicenda è anche positiva, perché la critica letteraria sembra un genere ormai in estinzione. I giornali pubblicano delle fredde non-recensioni che sembrano le veline degli editori, si ha l’impressione che a nessuno interessi più la ricerca, l’indagine letteraria. Sono quasi scomparse le recensioni sincere, che esprimono amore verso un libro, o fastidio. Ben vengano quindi le polemiche se servono a facilitare il ritorno di una doverosa libertà di critica.

lunedì, aprile 25, 2005

Narr(ific)azione e narr(ific)atori

Il termine narrificazione è stato inventato da Tiziano Scarpa in una immaginaria conversazione con un amico filosofo (cliccare qui per leggere). Narrificazione è uno stile di scrittura finalizzato esclusivamente al racconto, a una storia. Tutti gli elementi, i luoghi, i personaggi, i dialoghi, rientrano in questa economia. Per semplificare diciamo che i narrificatori sono gli scrittori industriali americani, Tom Clancy, Stephen King eccetera. E’, quindi, una scrittura di genere, e le opere di narrificazione sono senza dubbio le prime assolute in termini di vendita. Forse perché sono sostanzialmente testi di evasione, e quindi particolarmente adeguati ai nostri giorni, dove il tempo libero è sempre più scarso, la mente è affaticata, confusa dalla televisione, che è l’Antimateria della letteratura, desiderosa di perdersi in una storia avvincente. La narrificazione si legge in autobus, in treno, in bagno, nei ritagli di tempo. I testi sono costruiti seguendo un “plot”, che l’autore adatta alla storia che vuole sviluppare. Solitamente non mancano mai gli elementi di base: amore e/o sesso, mistero, sospetto, violenza quando è necessaria. Naturalmente la narrificazione ha dei difetti che sono strutturali, costituzionali, perché interni al genere stesso: la noia, che è endemica, e la quantità varia a seconda del talento del narrificatore; lo scarso spessore psicologico dei personaggi, perché la ricerca psicologica non è funzionale al racconto; i dialoghi, che difficilmente sono verosimili, ma spesso vuoti e improbabili (anche qui la bravura del narrificatore è risolutiva); l’intreccio, che talvolta è troppo contorto, complicato; un eccessivo affollamento di personaggi; le esagerazioni per stupire il lettore (troppa violenza, troppo sesso, troppo mistero) e altro ancora.
Io sono un amante del genere, perché amo le letture leggere, i fumetti, le storielle (sono sempre storielle, anche le cosiddette storiacce, perché le opere più truculente, dove un serial killer commette omicidi efferati con dovizia di particolari macabri, sono “acquetta” a confronto coi grandi romanzi neri come I Demoni, o Giro di Vite o i racconti di Poe). Li divoro, con qualche sbadiglio, d’accordo, ma trascorro ore piacevoli di lettura. Ho un’autonomia di circa quattro, cinque libri. Poi avverto un senso di insoddisfazione, di inutilità, e devo leggere (o, più spesso, rileggere) un’opera di narrazione vera, un’opera dell’Ottocento, o del Novecento, un grande libro insomma, quelli che oggi sembrano estinti, che mi restituisce un po’ di energia e di entusiasmo.
Vorrei segnalare alcuni narrificatori particolarmente bravi che ammiro e invidio (che invidio, sì, perché sarebbe un mio sogno segreto appartenere a questa categoria), e i cui libri sono tra i più interessanti, avvincenti ed equilibrati che ho letto.

L’inglese Bernard Cornwell: ha scritto un’opera in quattro volumi dal titolo Excalibur, sul mito di Artù, Merlino ecc, e sta pubblicando una nuova serie ambientata durante la guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia (spesso i narrificatori procedono con ritmo seriale scrivendo libri con gli stessi personaggi che vivono diverse avventure); per ora due titoli: L’arciere del re e Il cavaliere nero. E’ uno storico, un grande esperto di guerre, i suoi libri sono delle ottime ricostruzioni di ambienti, tecniche militari, mentalità dell’epoca.

L’americano Michael Connelly: a mio avviso è il migliore nei neristi americani. Il poliziotto outsider Hieronymus Bosch naviga in una Los Angeles fangosa e dannata, tormentato da colleghi corrotti e dementi, risolvendo omicidi spietati. I suoi libri sono intercambiabili, tutti ottimi: Il Poeta, Il Ragno, Musica Dura, Debito di sangue (questo con un altro eroe, l’agente FBI Mc Calleb, che ha subìto un trapianto di cuore; Clint Eastwood ne ha tratto un bel film), La memoria del topo (scopiazzato da Frederick Forsyth per il suo Vendicatore).

Stephen King, il più famoso, un marchio di fabbrica certificato. Cuori in Atlantide è stupendo. Però non è da tutti affrontare l’incredibile, per certi aspetti mostruosa, dilatazione dei tempi e degli spazi dei suoi romanzi torrenziali. Non sbrodola mai, non si perde; riesce a espandere fino all’inverosimile un episodio, un personaggio senza cadere nel delirio narrativo. Seguirlo però non è un’impresa facile.

Il francese Christian Jacq, un altro storico, per la saga in quattro volumi di Ramses. Un affresco fascinoso, preciso e documentato sull’antico Egitto.

Valerio Evangelisti, per le saghe di Eymerich, Magus, Metallo Urlante. Però il genere gli va un po’ stretto. Ha forti contenuti politici, di denuncia sociale, fantascientifici. Diciamo che fa frequenti incursione nell’altro campo, quello della narrazione pura.

Una considerazione a parte va alla regina del dark-horror, l’inglese Anne Rice, autrice del celebre Intervista col vampiro. Le avventure del vampiro Louis attraversano un paio di secoli navigando in una decina di titoli, tutti di ottimo livello. Talvolta eccede un po’ con le atmosfere gotiche, col sangue e con la morte, ma le va perdonato tutto: per gli amanti del genere non ha rivali.

Altri narrificatori famosi a livello planetario, come quel sudafricano di razza bianca, cacciatore di leoni e di elefanti di nome Wilbur Smith, o Follett, benché abbiano alcuni buoni spunti, li lascio dove sono, sepolti dalle decine di milioni di copie vendute, perché leggendoli mi sono slogato le mascelle per gli sbadigli.

Ma il più grande di tutti, anche se per ora ho letto un solo libro (è una scoperta recente), il più perfetto, il più esaltante, è un italiano: Valerio Massimo Manfredi. L’Ultima Legione è un capolavoro di narrificazione storica. E’ ambientato nell’Anno Domini 476, quando l’Impero Romano d’Occidente aveva la capitale a Ravenna e in Italia comandava il re barbaro Odoacre. Guerre, avventure mozzafiato, viaggi attraverso l’Europa sconvolta dalle invasioni barbariche, un finale che fa battere il cuore. Se mi chiedessero: che libro avresti voluto scrivere? Io risponderei, senza esitare, L’Ultima Legione.


venerdì, aprile 22, 2005

Qualche emozione e considerazione sul nuovo papa

di Agostino

Parlare del papa, per un cattolico, è come parlare della mamma. Magari in casa si litiga, si fa fatica a sopportarla, mille cose ci infastidiscono. Ma non se ne vorrebbe mai parlare male in pubblico, e se qualcuno ce la offende gli saltiamo addosso. Chi ha pensato in questi giorni a spaccature, tensioni interne alla Chiesa, guerre fratricide per stabilire il successore di Wojtyla, dovrebbe capire questo. Altro che fronti contrapposti, conservatori e progressisti: non c'è mai stata una reale opposizione, non ci sono stati in conclave reali alternative. Chi poteva avere delle perplessità, non ha fatto fatica ad inchinarsi al prestigio, alla stima, all'affetto di cui godeva, e gode Joseph Ratzinger.
Il cardinale tedesco fino a ieri era il severo custode dell'ortodossia cattolica: era il ruolo che gli era stato assegnato. Prima di diventarlo però era stato uno dei teologi più avanzati e aperti, una delle menti da cui è scaturito il Concilio Vaticano II. E oggi, chi è? Prima di tutto è il papa, è quello vestito di bianco che benedice i bambini. Tra la folla in piazza San Pietro che aspettava la fumata ci saranno stati sicuramente tifosi dell'uno o dell'altro, ma la maggior parte della gente voleva avere di nuovo un papa, chiunque fosse. Che papa sarà? Credo che offrirà molte sorprese a chi lo definisce il "pastore tedesco", il "rottweiler della fede" (sono alcuni titoli apparsi nelle prime pagine di questi giorni). Nell'ultimo discorso da cardinale, Ratzinger ha messo in guardia dai pericoli del relativismo e ha ribadito la necessità per i cristiani di restare fedeli alla verità in cui credono. Ma nel primo discorso da Benedetto XVI ha promesso di impegnarsi per mettere in pratica le indicazioni del Concilio, per l'ecumenismo e il dialogo tra le religioni, per aumentare la corresponsabilità dei vescovi nel governo della Chiesa, ha rivolto un pensiero affettuoso ai giovani. Il nome che ha scelto è indubbiamente un richiamo alla pace (l'ultimo Benedetto fu quello che aveva cercato di fermare la prima guerra mondiale). Certo, chi pensava alle donne-prete o al preservativo libero resterà deluso. Ma per queste cose nella Chiesa non è il tempo, e chissà se lo sarà mai.

mercoledì, aprile 20, 2005

Ci dobbiamo preoccupare?

Qualche giorno fa sul sito del Corriere è uscito un quiz che ha come obiettivo stabilire il nostro livello di attenzione sui fatti di attualità (io ho azzeccato 10 domande su 14). Una domanda soprattutto mi ha colpito: "i ragazzi italiani hanno una serie di nuovi eroi: chi sono? a) le veline; b) i campioni di moto; c) i campioni di wrestling.
I campioni di wrestling? Santo cielo, lo guardavo vent'anni fa, ma ho smesso perché era chiara la finzione, tutti quei bestioni che fingono di menarsi... Allora ho chiesto a mia figlia, che frequenta la quinta elementare: a scuola con te sono appassionati di wrestling? E lei: e come! Ma chi? ho chiesto, quanti? E lei: tutti i maschi e anche alcune femmine. E io: ma a te piace? E lei: insomma, è abbastanza divertente. Bah, ho pensato, come si fa a non accorgersi che è tutta una bufala...
Poi ho trovato nella posta questa lettera ai genitori di una scuola elementare della provincia di Bologna. Il mio stupore è salito alle stelle. Possibile? Ecco la lettera:

A tutti i genitori
degli alunni della
Scuola Elementare...
18 aprile 2005

Riteniamo opportuno indirizzarVi alcune considerazioni in merito ad un fenomeno che, sull’onda di un battage mediatico con esclusivi fini commerciali, è andato sempre più affermandosi diventando un discutibile fatto di costume, soprattutto tra i nostri figli.
Ci stiamo riferendo al wrestling, una forma di lotta assai libera dove la violazione delle (labili) regole è parte essenziale dello spettacolo, dichiaratamente votato all’esagerazione.
Gli atleti, personaggi eccessivi, di altezza dal metroeottanta in su e dal peso oltre il quintale, ma di straordinaria agilità, si scambiano colpi all’apparenza capaci di uccidere un toro con mosse e prese violente e scorrette.
Come fanno a sopravvivere? Semplice: fingono.
Fingono tutto, dalle inimicizie alla paura, dai colpi dati o subiti al dolore, il tutto condito da proclami, tradimenti, sfide.
Questo “edificante” spettacolo, di gusto tipicamente “americano”, ha avuto una presa straordinaria sui bambini e sui ragazzi, ed è sicuramente per questo motivo (richiamo di pubblico = pubblicità) che viene trasmesso in orari di massimo ascolto.
Inoltre un merchandising (ove, come nella macellazione del maiale, non si butta via niente) appropriato ha inondato le edicole ed i supermercati di figurine e di pupazzi.
Ora, dopo aver focalizzato la situazione, veniamo al problema che vogliamo segnalarVi, ovvero la presa che questo pseudo-sport ha su una buona fetta dei nostri figli.
Sebbene durante le trasmissioni venga spiegato che si tratta di esagerazioni e che le mosse non debbano essere imitate, molti dei nostri figli non resistono alla tentazione di affrontarsi, un po’ per gioco ed un poco no, imitando i loro “eroi” televisivi.
Pensiamo che sia evidente per tutti che tenere stretto un compagno, spesso a terra, in due o tre mentre un altro gli salta sopra con le ginocchia od una gomitata a peso morto, sia molto pericoloso; inoltre, oltre alla pericolosità, è altresì evidente come queste azioni stridano con i percorsi di pace, gli inviti alla tolleranza ed alla comprensione, le esperienze sulle emozioni che ci compiacciamo che i nostri figli facciano a scuola.
In questa situazione, ormai arrivata oltre il livello di guardia, non è difficile individuare i sintomi del bullismo, tema assai “caldo” alle Scuole Medie (ora Secondarie).
Riteniamo che nessuno possa chiamarsi fuori da questo problema, nemmeno i genitori di figlie femmine, a cui ci rivolgiamo affinché esse siano le prime a stigmatizzare i compagni che, volendosi mettere in mostra, tengono comportamenti sbagliati; a tutti ci rivolgiamo affinchè l’opera di fattiva sensibilizzazione sia approfondita ed efficace, nell’auspicio che nessuno arrivi a casa alla sera, dopo una giornata di lavoro, ed abbia l’amara sorpresa che il proprio figlio sia rimasto coinvolto in un episodio censurabile, od avendo subito lesioni od essendone il responsabile.

Scusateci, ma quanto sopra ci sembrava doveroso. Cordiali saluti.

I rappresentanti di classe








lunedì, aprile 18, 2005

Sull’arte, sul romanzo, sulla poesia

In quel bellissimo libro che è Leggere Lolita a Teheran (di cui spero di parlare presto su questo sito) l’autrice riporta dei passi, commenta libri, fa delle considerazioni sull’arte, sulla letteratura, e li confronta con la triste, cupa situazione in cui ha vissuto nella Repubblica islamica dell’Iran. Quello che segue - uno dei passi preferiti di Francis Scott Fitzgerald - è una riflessione sull’artista di Conrad:

“l’artista fa appello alla nostra capacità di gioia e meraviglia, al senso di mistero che circonda le nostre vite; al nostro senso della pietà e della bellezza e del dolore... e al sottile ma invincibile convincimento della solidarietà che unisce la solitudine di innumerevoli cuori, alla solidarietà nei sogni, nella gioia, nel dolore, nelle aspirazioni, nelle illusioni, nella speranza, nella paura, che lega gli uomini l’uno all’altro, legga insieme tutta la razza umana – ai morti ai vivi e i vivi ai non ancora nati”.

Una pagina più in là ecco un pezzo di lezione che l’autrice – professoressa di letteratura all’Università di Teheran non ancora totalmente devastata dal fanatismo religioso – tiene sul romanzo:

“un romanzo non è un’allegoria. E’ l’esperienza sensoriale di un altro mondo. Se non entrate in quel mondo, se non trattenete il respiro insieme ai personaggi, se non vi lasciate coinvolgere nel loro destino, non arriverete mai a identificarvi con loro, non arriverete mai al cuore del libro. E’ così che si legge un romanzo: come se fosse qualcosa da inalare, da tenere nei polmoni. Dunque, cominciate a respirare. Ricordate solo questo.”

E infine un’amara riflessione sulla poesia, sulla sua perdita, molto attuale:

“continuavo a domandarmi: quando l’abbiamo perduta, questa capacità di dare estro e luce alla vita con la poesia? In quale preciso momento è andata smarrita? Ciò che avevamo adesso, quella retorica melensa, quelle iperboli putride e ingannevoli, era come un’acqua di colonia da quattro soldi”.

venerdì, aprile 15, 2005

Dov'è l'equivoco?

Il molto onorevole La Russa ha un figlio che si chiama Geronimo. Ma non solo. Pare che ne abbia altri due, che si chiamano rispettivamente Apache e Kocis. Non sono sicuro di quest’ultimo dato, ma non essendo particolarmente interessato alla biografia del molto onorevole non intendo approfondire: Geronimo mi basta. Deriva, dicono, da un grande amore del molto onorevole verso gli indiani d’America. La cosa mi inquieta, e non poco. Gli indiani erano i nostri eroi, rappresentavano la Resistenza contro l’avanzata delle giacche azzurre, le truppe armate del capitalismo che divoravano il territorio. Tutti abbiamo visto più volte Soldato Blu, Piccolo Grande Uomo, Un Uomo chiamato cavallo. Era un popolo nobile, fiero, sterminato dal denaro e dalla speculazione. Bene, cosa diavolo ci fa un fascista in questo mondo? Cosa cerca? Perché il molto onorevole a quei tempi era un fascista. Oggi gli ex (ma quanto ex?) fascisti sono gonfi come tacchini e mugugnano di interessi del paese, hanno indossato il vestito buono. Ma quando il molto onorevole chiamava suo figlio Geronimo era nel pieno delle forze maschie e fasciste. Com’è possibile? Forse ci siamo sbagliati noi. Perché c’è qualcosa che non va. Ma cosa non va? Il molto onorevole? O gli indiani?

mercoledì, aprile 13, 2005

Come una bestia feroce
(Max Dembo e la rivolta del crimine)

E’ stato ripubblicato – non recentissimamente, ma qui non abbiamo l’ansia del tempismo esasperato – anche nella collana gialli de La Repubblica (comunque è sempre disponibile da Einaudi), quello che da molti è considerato il capolavoro assoluto di Edward Bunker: Come una bestia feroce. Ellroy l’ha definito “il più bel romanzo sulla rapina a mano armata che abbia mai letto”, ma è una definizione riduttiva: certo, la rapina a mano armata è ben presente nel testo, è l’unica cosa che il protagonista, Max Dembo, sa fare bene, ma questo racconto duro, spietato, su un ex carcerato che diventa un evaso, è anche la storia di un uomo in rivolta.
Il romanzo inizia con l’ultimo giorno di galera, l’ultimo di otto, interminabili anni prima dell’agognata libertà vigilata: “Seduto sul cesso senz’asse nel retro della cella, ero intento a lucidare le orribili scarpe dalla punta bulbiforme che venivano fornite a chi stava per uscire”; Max Dembo conosce tutto della galera, i codici di comportamento e di comunicazione, la violenza estrema, le divisioni razziali; per otto anni è stata tutto il suo mondo, la sua mancanza di futuro. Ora sta per uscire, ed è lacerato da sentimenti contrastanti: felicità, l’esaltazione di respirare finalmente l’aria pura, di vedere il cielo nella sua interezza, e non solo il ritaglio contenuto tra le alte mura del cortile del carcere; ma anche paura, incertezza di fronte a un mondo che teme di non riconoscere e dal quale teme di essere respinto. Eppure è determinato, è deciso a cambiare vita. Vuole chiudere con gli arresti, le celle, i pestaggi, gli anni interminabili dietro le sbarre. Tenterà, con tutte le forze, di fare parte di quella società che per tutta la vita ha rapinato e depredato: cercherà di essere un regolare, con un lavoro, perché è fermamente deciso a non tornare mai più in galera.
Tutta la prima parte del libro vede dunque Max Dembo impegnato a lottare come una belva per tentare di rifarsi una vita all’insegna dell’onestà e della legalità. Ma il mondo non è tenero con un ex galeotto. Non è facile trovare un lavoro, e un alloggio, mentre i soldi finiscono. Perdipiù è costretto a rapportarsi con l‘ottuso agente della libertà vigilata che l’ha preso in consegna, un uomo caparbio, dalla certezze granitiche con cui non riesce a comunicare. Sarà proprio costui a scatenare la tragedia – o la liberazione, entrambe le ipotesi sono valide: sbatte Max di nuovo in galera, senza che abbia commesso alcun reato, per tre settimane, e intanto se ne va in vacanza. Qui, al colmo della rabbia e della frustrazione, Max capisce una volta per tutte come vanno le cose in questo mondo: per lui e per i suoi simili non c’è posto tra i regolari. Odia la società con tutto il cuore, ma “non per quello che mi aveva fatto, per quello che mi aveva costretto ad essere”: dunque la società gli fa guerra? E guerra sia.
Abbiamo visto moltissimi film che descrivono criminali, entrano nel loro mondo e ne fanno dei ritratti che vogliono essere verosimili: solitamente emergono dei personaggi laidi, eccessivi, comici e feroci, paradossali, pacchiani, violenti: tutti questi ingredienti, sapientemente miscelati dalla mano ferma del regista, compongono il fascino ambiguo e negativo dei criminali. Non è così in questo libro. Qui non siamo dentro uno dei vecchi film di Scorsese. In queste pagine non vi è traccia di cinismo: il cinismo contiene sempre una traccia di autocompiacimento, che è del tutto assente nell’estrema durezza, semplicità ma anche tenerezza del suo stile. Max Dembo è un criminale e basta, è un rapinatore, è stato un magnaccia, è spesso strafatto di droga, ma lo è senza romanticismi, senza inutili eccessi narrativi, senza piaggerie: è “contro”, ma lo è perché vi è costretto, perché non ha scelta. E così sono i personaggi che affollano il libro, comparse dure e disperate che vivono ai margini della sfavillante Los Angeles degli anni Sessanta. E lo accompagnano nel lungo viaggio senza ritorno che è la vita, talvolta lasciandoci anche le penne.

lunedì, aprile 11, 2005

PAZ

L’arrivo di Andrea Pazienza in redazione era sempre un avvenimento. Portava nuove tavole, nuove storie, e questo bastava a entusiasmare i redattori e soprattutto il direttore. Poi c’era il suo fascino personale, quell’entusiasmo innato, quell’irruenza un po’ infantile che, unite a un senso naturale di smarrimento – quasi una sorta di fragilità – polverizzava ogni ritrosia anche nei più timidi, nei più misantropi. Con Paz si era a proprio agio, sempre. E infine la sua immagine vivente: oltre ad essere indubbiamente bello e forte era sempre vestito con gran lusso. E questa, in una redazione che sembrava un collettivo di autonomi di Via dei Volsci (nonostante i tentativi dei redattori – attraverso foto patinate pubblicate sul giornale – di sembrare “fichi”), con abiti stazzonati, barbe di una settimana, capelli scarruffati, volti imbronciati, era una cosa davvero inusuale. Soprattutto il direttore ne era abbagliato. “Ehi, ma avete visto il suo giubbotto?” diceva, quando Paz era uscito, “quanto potrà costare? Un milione? Due milioni?”. Indossava infatti degli strepitosi giacconi di pelle, che, oltre ad essere certamente firmati da qualche stilista top di quegli anni, esprimevano il massimo dell’eleganza su quell’indossatore d’eccezione.
Proprio all’ex direttore, nonché uno dei fondatori di Frigidaire, ho chiesto un ritratto di Paz. Mi ha inviato questo testo, che volentieri pubblico.

Di Vincenzo Sparagna

Il caro Mauro Baldrati, antico collaboratore/redattore di Frigidaire, autore – tra le molte cose – di una bellissima serie di ritratti fotografici di mio padre Cristoforo Sparagna nell’83, nonché di tante splendide fotografie di Andrea Pazienza e di tutti noi della redazione, mi chiede di inviargli un piccolo ritrattino scritto di Paz. Ora parlare di Andrea non mi dispiace affatto, ma so che qualsiasi ritrattino, memoria o aneddoto non può che essere un parzialissimo contributo per avvicinarsi a uno degli autori più geniali e innovativi del finale del secolo ventesimo.
Vi era infatti in Andrea una fusione piena, sentita, non estemporanea né estrinseca, tra molti livelli di sensibilità artistica, una sorta di naturale leonardismo, di spontaneo universalismo rinascimentale.
In lui le più diverse discipline, nelle loro più lontane manifestazioni popolari o d’alto profilo, si univano e si intrecciavano: letteratura e disegno, pittura e scultura, cinema e fotografia.
Il suo era un viaggio estetico ininterrotto e felice, che andava tranquillamente da Walt Disney a Gustavino, da Sven Hassel a Franz Kafka, da Adriano Celentano a Mozart.
Questa interdisciplinarietà intima, questo suo nomadismo creativo, supportato da un talento naturale fantastico, non era tuttavia fine a stesso, un semplice (si fa per dire) manifestarsi solipsistico e compiaciuto della sua bravura personale.
No, il Narciso che abita in ogni Vero Artista, a guardarlo da vicino, è la necessaria autoaffermazione (dolorosa anche quando appare arrogante) di energie, desideri, paure e pensieri di intere generazioni.
In Andrea, “nato” artisticamente nel fuoco del movimento del ’77, cresciuto in maturità e sicurezza nelle redazioni “anomale” di Cannibale, Il Male e Frigidaire, questa relazione tra l’artista individuale e l’esponente necessario, il frutto succoso, la voce narrante di un pezzo di generazione sociale e culturale è strettissima. Nessuna sua opera può essere capita fuori da questa sfida, da questa prova del fuoco, dal confronto tra il sé dell’autore e il mondo che rappresenta, denuncia, e anzi, direi, cambia con il suo racconto.
Andrea fu un Kerouac, che non puoi considerare un semplice scrittore, togliendogli la co/invenzione della beat generation, un Dostoevskij, che non puoi capire se cancelli Gogol o i demoni di quel periodo di “anime morte”. Ecco perché la riduzione della storia di un autore come Andrea (o, potrei dire, come Scozzari o Tamburini o me o altri di noi) a una “brillante carriera” è il peggior servizio che tante pseudocelebrazioni postume rendono talvolta ingenuamente, talaltra in malafede – alla sua memoria.
E’ significativa per esempio la rimozione, pressoché totale nelle celebrazioni postume, come di un accidente di percorso da passare sotto silenzio, del suo rapporto con l’eroina, la sua sorella maledetta.
Un rapporto che invece fa parte intimamente di quel vivere pericolosamente, al confine con la morte, che esaltò e avvelenò tutta la sua generazione, in quel drammatico finale degli anni ’70, divisa tra il piombo e la droga, l’avventura disperata e la scalata al cielo.
In realtà ogni sottovalutazione dell’eroina, così come lo spirito rivoluzionario di Andrea e dei suoi/nostri compagni di viaggio e di sfide, è un modo per tradirne la “poetica”.
Si può forse ridurre Van Gogh a un damerino di galleria? No. E allo stesso modo è assurdo voler separare le qualità formali ed estetiche di Paz da quel suo vivere con la rivoluzione, con il movimento, in quella rivoluzione, vivere con la droga.
La sfida alla morte di Paz che oggi appare chiaramente come quello che fu, cioè una storia di suicidio involontario, era assurda almeno quanto la sfida alla morte che alcuni di noi praticavano nelle armi o in altre impossibili missioni.
Dobbiamo leggerla come un segno di un’epoca in cui, forse a torto, ma con molte ragioni, tanti pensarono che i tempi della storia stringevano, che eravamo alla vigilia di scelte epocale che avrebbero cambiato, in meglio o verso il nulla, i destini del pianeta e della civilizzazione.
Solo questa dimensione, questo respiro rende giustizia alla grandezza del suo segno.
Non la ribellione, non l’eroina in sé certo, ma quel suo partecipare a una scommessa totale e sincera: liberi o definitivamente morti. La stessa sfida, anche se tutta collocata nell’oscuro intimo dell’io, che, dopo l’avvento di Karol Wojtyla al papato, portammo (con le false Trybuna Ludu, Pravda e Stella Rossa) a est nell’impossibile tentativo (poi incredibilmente riuscito) di rovesciare l’inattaccabile “comunismo realizzato” sovietico. Ed è su questo che dovremmo continuare a meditare, se non vogliamo ridurre l’arte a una “brillante carriera”. L’arte è un messaggio, un destino, una testimonianza, un sacrificio sicuramente assurdo, ma anche bellissimo.

venerdì, aprile 08, 2005

Questo papa è stato un conservatore o un progressista?

La vigilia di Pasqua sono usciti sul Corriere della sera due importanti interventi sul pontificato di Giovanni Paolo II. Uno, del teologo svizzero Hans Kung, conteneva undici dure critiche all’operato del papa; l’altro, del vaticanista ortodosso Vittorio Messori, era invece una difesa a oltranza (cliccare qui e qui per leggere gli articoli). Queste sono – sarebbero - le tematiche da affrontare, in una discussione creativa; invece i mass media hanno scelto una retorica acefala e roboante che ha infastidito, nauseato molti cattolici e laici. Proprio per proseguire la discussione, lontano dall’urlo mediatico che ci ha annichilito, pubblichiamo l’intervento di un giornalista cattolico esperto di cose di Chiesa. La sua riflessione, la sua testimonianza è un contributo che dimostra, ancora una volta, che la verità è molto più complessa delle analisi a senso unico.

Di Agostino

L'accanimento mediatico con cui è stata seguita prima la malattia e poi la morte del Papa ha dato molto fastidio anche a me. Nella Chiesa, qualcuno ha accolto con favore l'attenzione riversata sul Papa, ma non sono pochi quelli che non hanno apprezzato affatto le tante parole dette a vanvera, l'ipocrisia, il linguaggio giornalistico che deve a tutti costi creare "l'evento". Quando Gesù è morto in croce, era solo: perfino gli apostoli lo avevano rinnegato. Qui tutti, improvvisamente, sono diventati amici intimi del Papa.
E’ stato detto che questo Papa ha saputo fare, di se stesso, una macchina di propaganda. Credo sia abbastanza vero. Resta da chiedersi se la propaganda sia, di per sé, una cosa negativa. Io credo che molto dipenda dagli scopi per cui viene fatta: se è per ottenere il potere, o per vendere un prodotto fasullo, è qualcosa di negativo. Se è per proporre qualcosa in cui si crede, per comunicare agli altri la propria fede, forse la questione è diversa. I mass media sono strumenti che si possono usare in tanti modi: per raccontare panzane, per vendere falsi miti come le veline o Costantino, per instupidire le persone. La scommessa di questo Papa è stata quella di non demonizzare i mass media, come molti nella Chiesa fanno, ma di pensare che potevano essere usati per dare messaggi di tipo diverso.
Chi vive fuori dalla Chiesa ne riceve un'immagine legata soprattutto alla morale sessuale, all'uso o meno della pillola, al sacerdozio vietato alle donne ecc.. Vi assicuro che questi sono temi di cui si parla molto poco all'interno della Chiesa. Se leggete i testi delle centinaia di discorsi che il Papa ha fatto ai giovani, difficilmente ci troverete richiami di questo tipo: ci troverete invece richiami agli alti ideali, alla speranza, alla gioia, a spendere la vita in qualcosa di grande, richiami alla carità. Temi come l'ingiusta distribuzione delle ricchezze a livello mondiale, l'iniquità di un sistema economico basato sullo sfruttamento dei poveri, sono diventati celebri adesso con il Social Forum: il Papa e i suoi giovani ne parlano da anni.
Anch'io mi sono chiesto cosa porti tanta gente a Roma. Personalmente ho parlato con diversi ragazzi partiti in questi giorni, e vi confesso che ho tentato di dissuaderli. La risposta che mi hanno dato più o meno è stata: il Papa è l'unico che in questi anni ci ha saputo dare parole di speranza, ci ha mostrato un futuro, ci ha incoraggiato a costruire un mondo migliore. Morto lui, chi altri potremo ascoltare? È una domanda che vi giro.
Wojtyla è stato conservatore o progressista? Non c'è dubbio che per le questioni interne della Chiesa e per le questioni dottrinali è stato un conservatore: d'altra parte era stato eletto per questo. Ci sono molti temi che in questi anni sono rimasti sopiti, sotterranei, e che probabilmente torneranno fuori: quelli, appunto, relativi alla morale sessuale, al governo della Chiesa su cui molti chiedono maggiore collegialità... Su molte altre cose però è stato un innovatore, ha spiazzato i suoi stessi sostenitori. È stato il primo Papa a entrare in una sinagoga, il primo in una moschea, il primo a visitare un paese ortodosso, il primo accolto da un regime comunista. Ha chiesto scusa per i peccati della chiesa, dalle crociate all'antisemitismo: è una cosa che gli è costata critiche feroci, tra le alte gerarchie della Chiesa. Riformare la Chiesa è difficile, ci sono molte resistenze. Ma è veramente importante? Cosa cercano, questi ragazzi che fanno quindici ore di coda? Delle indicazioni in materia di anticoncezionali e aborto, o l'incontro con una persona che è stata, con la sua vita, capace di infondere entusiasmo e di dare speranza?
Ultimo pensiero. La Chiesa è tante cose, è Ratzinger e la teologia della liberazione, è Messori e padre Zanotelli, è le scuole cattoliche che vendono i diplomi e i missionari che si fanno ammazzare in Sudan, è la crociata contro la procreazione assistita e le migliaia di volontari della Caritas partiti per lo Sri Lanka dopo lo tsunami. La Chiesa è il mio parroco ottantenne con cui mi scontro di continuo, e sono io con i miei peccati, le mie piccolezze, le mie contraddizioni, i miei dubbi.

giovedì, aprile 07, 2005

Il mio incontro con Silvio Berlusconi

Di Berlusconi, dell’ultimo Berlusconi, mi colpiscono soprattutto gli occhi: diventano sempre più piccoli, due fessure inespressive. Anche i lineamenti si sono modificati: sarà il lifting, sarà la vecchiaia, o le difficoltà di governo, ma la sua faccia si è indurita, ha perso quel pathos che ha sedotto milioni di cittadini che l’ascoltavano a bocca aperta mentre affabulava, prometteva, scherzava, attaccava. Questa nuova immagine di Berlusconi mi ha prepotentemente richiamato alla mente il ricordo di un mio incontro con lui e il suo ambiente, il suo territorio, un incontro breve ma istruttivo, avvenuto negli anni Ottanta, quando era al massimo dello splendore. Come contrasta quella figura smagliante, che sprizzava energia, forza di conquista, con quella inquietante, stanca e un po’ rabbiosa di oggi.
Sia chiaro che non provo né pietà né solidarietà e neanche odio per questo personaggio. Non provo assolutamente nulla, né simpatia né antipatia. Berlusconi è una creatura del Buio, il suo unico scopo su questa terra è portare la vita, l’umanità, la natura verso un progressivo scadimento di qualità, fino a una crisi che può essere più o meno grave, dipende dai tempi, dalla libertà d’azione. Deve essere semplicemente neutralizzato, allontanato per sempre da ogni luogo di aggregazione sociale, ricacciato nel Buio dal quale è uscito e dimenticato per sempre.
Ma veniamo al mio piccolo racconto.
Fui inviato dal mensile Capital a Milanello, la sede del ritiro del Milan, per realizzare un servizio fotografico su Fabio Capello, l’astro nascente degli allenatori di calcio. Arrivai una mattina verso le otto e trenta, e c’era già, dalle prime ore dell’alba, una piccola folla di tifosi assiepata lungo le cancellate. Mi feci strada tra i padri, le madri, i bambini, i coatti, che aspettavano l’arrivo delle star, Gullit, Van Basten, nella speranza di strappare un autografo, un’occhiata, magari un saluto.
Capello era già in tuta, correva sul prato e faceva ginnastica. Presi accordi sulle foto: avrei scattato una serie di immagini in campo, durante gli allenamenti coi calciatori, e poi, prima di pranzo, la foto di copertina, contro il fondale scuro che avrei montato in un locale adiacente la palestra. Quindi mi piazzai a bordo campo e aspettai l’arrivo dei giocatori. Verso le dieci avevo già dell’ottimo materiale, anche una serie di immagini in posa coi campioni, gli allenatori (ci sono vari allenatori e preparatori in una grande squadra di calcio) e qualche dirigente incravattato. A un certo punto fui avvicinato da un tipo sui trent’anni, che già impersonava il classico yuppie di Forza Italia (che non esisteva ancora): abito azzurro, efficienza, arroganza, servilismo e ottusità; si presentò come addetto stampa della squadra, mi strinse distrattamente la mano e disse: "tra una mezz’ora è atteso il Presidente. Lei non deve fotografarlo, capito? Non deve assolutamente scattare neanche una foto. Le è severamente vietato. Ha capito?". Muoveva le mani con una certa frenesia, si vedeva che i comandi che mi impartiva gli mettevano ansia, forse perché io lo fissavo stralunato, mi sembrava un marziano caduto sulla terra. Dissi che andava bene. Non dissi "d’accordo, non lo fotografo", dissi "va be’", o qualcosa del genere, e questo lo fece innervosire ulteriormente. Ripetè con maggiore aggressività che era severamente vietato scattare foto al Presidente, e io "va be’, va be’". Poi lo ignorai perché avevo da fare, c’era da allestire il set per la foto di copertina. Tornai a bordo campo verso mezzogiorno, e mentre i calciatori andavano verso la palestra per la ginnastica finale si udì un rumore assordante provenire dall’alto. Un gigantesco elicottero, il più grande che abbia mai visto, compresi gli elicotteri dei film, atterrò dietro una fila di alberi. Immediatamente si scatenò una grande agitazione: uscirono delle persone dalle palazzine, alcuni si misero a correre, l’addetto stampa tornò fuori dal suo buco e si diresse a grande falcate verso l’elicottero. Intanto dal velivolo erano scese delle persone: due piloti con la divisa blu e gli alamari dorati, Berlusconi, Cesare Previti e una segretaria che li seguiva con un telefono portatile sempre appoggiato all’orecchio. Vari personaggi lo seguivano o gli parlavano, ma sempre a una certa distanza, come se intorno a sé Berlusconi avesse un cerchio disegnato che nessuno poteva oltrepassare. L’addetto stampa gli saltellava dietro e cercava un varco, un buco nell’impenetrabile smalto protettivo che lo circondava per parlargli. Finalmente ebbe la sua grande occasione, e mentre camminavano nella mia direzione, o meglio, nella direzione di Capello, che si trovava a due o tre metri da me, l’addetto mi indicò con un ampio gesto del Braccio. Berlusconi mi guardò e annuì con la testa, al che l’addetto si ritirò tutto compito. Intento il drappello era arrivato a bordo campo, e Capello gli andò incontro. Berlusconi fece un cenno col capo verso di me, mi tese la mano e disse "Buon giorno, come sta?" E io "Bene, grazie". E lui "le auguro buon lavoro". E io "grazie". Questo rapido scambio di battute fu seguito con espressione rapita dai personaggi che gli stavano intorno, specialmente dall’addetto stampa, che era addirittura in uno stato di contemplazione mistica. Berlusconi, Capello e Previti iniziarono a parlare fittamente, ed io scattai una serie di foto, primi piani, figure intere. Era piuttosto coreografico Berlusconi: avvolto in un lussuoso mantello lungo fino ai piedi, sulla testa aveva un vistoso cappello di foggia inglese. Lo sguardo era vivace, penetrante, il sorriso smagliante, l’aura di potere che lo circondava sfolgorava.
Intanto che scattavo l’addetto stampa sbarrava gli occhi, forse accennò qualche passo verso di me, ma si fermò: il capo, il Principe mi aveva parlato, addirittura mi aveva stretto la mano; mi aveva passato un po’ della sua aura, non poteva più avvicinarsi.
Il gruppo si avviò verso la palazzina, dove c’era il ristorante. Io riavvolsi il rullino, smontai l’obiettivo e riposi la macchina nella borsa. L’addetto stampa si avvicinò. "Erano vietate le foto" disse, ma con un filo di voce, e un tono di rimpianto così struggente che mi fece alzare gli occhi su di lui per vedere se non stesse piangendo. "Però" disse d’un tratto, rianimandosi, "non deve pubblicarle, ha capito? E’ severamente vietato pubblicarle! E’ chiaro?" E io "Eh". "Davvero" insistette, ritrovando il suo fiero cipiglio da usciere "non provi a pubblicarle".
Non le pubblicai infatti. Non subito almeno. Al giornale non le giudicarono interessanti. Erano scatti da fotoreporter, istantanee, e la linea del giornale era indirizzata decisamente verso le foto in posa. Inoltre il servizio su Capello era già ricco di immagini, era ininfluente la presenza del presidente della squadra.
Ma un paio d’anni dopo scoppiò il caso Previti, mentre Berlusconi esplodeva come personaggio pubblico. Così le passai a un’agenzia e andarono stravendute.

martedì, aprile 05, 2005

Piccole soddisfazioni

Un aspetto di queste elezioni è per me particolarmente gratificante: la vittoria di Nichi Vendola in Puglia. Chiarisco: non sono un suo particolare supporter, non lo conosco quasi per nulla, da tempo non frequento più la politica. Però ho assistito a un confronto televisivo col suo avversario Fitto che mi ha colpito. Vendola usava un linguaggio elevato, direi raffinato: parlava di partecipazione, di democrazia diffusa, della necessità, nella dialettica politica, di una conflittualità "positiva", di mediazione tra il cittadino e l’istituzione, eccetera. Fitto, che sembra uno yuppie di Forza Italia disegnato in laboratorio, rispondeva con lo scherno: ghignate quando Vendola parlava "difficile", con linguaggio non adeguato "alla gente"; battute sarcastiche sulla visione politica "edificante" e "campata in aria", mentre lui, il berlusconiano doc, parlava chiaro, senza "grilli per la testa". Sappiamo com’è finita. E’ stato premiato un linguaggio di qualità, e questo mi sembra un segnale incoraggiante.
Poi… si tratterà di tradurre il linguaggio in azioni concrete, ma questa è la classica altra storia.

lunedì, aprile 04, 2005

L’incubo di Satana

Una cosa positiva ha portato l’urlo cavernoso, demente, lugubre che si alza minaccioso in questi giorni da tutte le televisioni, da tutte le radio e tutti i giornali col pretesto del papa – in questo preciso momento, mentre sto scrivendo, in ufficio è entrato un mio collega cattolico praticante che si è dichiarato "sconvolto" dal terrificante bombardamento mediatico di cui siamo vittime -; questo attacco violento al libero pensiero, questo tentativo di lavaggio del cervello per chissà quali scopi (la nascita di un nuovo integralismo in Italia? La trasformazione del nostro paese in un Iran d’Europa? Un complotto di Satana per distruggere le menti?) ha portato una ventata di salute e d’aria nuova in casa mia: la televisione resta spenta. Meravigliosamente, totalmente spenta. E’ bellissimo. E’ un disinquinamento molto importante. Mi è dispiaciuto un po’ per la Formula Uno, ma in fondo ho evitato il fastidio di dovere assistere ai trionfi del pestilenziale Flavio Briatore. Vorrei che fosse sempre così nella vita: riuscire a trovare il Bene anche nelle azioni perverse del Male, reagire con una pernacchia, con una risata alle smorfie dementi dei demoni.

venerdì, aprile 01, 2005

Testi e autori dimenticati

Roger Caillois è uno dei grandi sconosciuti della cultura europea. Ha esordito giovanissimo nel gruppo surrealista, arruolato da Breton. Ci ha lasciato alcune testimonianze davvero curiose sull’attività del gruppo. Una volta, per esempio, lui, Eluard e Tanguy entrarono in un cinema in cui si proiettava un film tipo Quo Vadis. Il loro scopo era applaudire sonoramente quando i cristiani venivano dati in pasto alle belve. Cosa che puntualmente avvenne, e i tre furono invitati a uscire dal locale. Ma con gentilezza. E questa fu una delusione, perché speravano che il fatto avvenisse in malo modo, con urla, insulti e magari una rissa… Un’altra volta il poeta Réné Char (poi diventato un comandante partigiano) gli chiese di essere presente mentre pestava un tipo che lo aveva offeso. Voleva un testimone che attestasse che aveva fatto tutto da solo, che non si era trattato di un pestaggio organizzato. Andarono quindi a cercare la persona, la trovarono, Char la riempì di botte e Caillois fece il suo dovere di testimone.
Ma presto Caillois litiga col gruppo e rompe per contrasti insanabili. Lui stesso racconta che il pretesto furono "i fagioli saltatori del Messico": Breton voleva esaltare il fenomeno in sé come surrealista, Caillois voleva invece aprirne uno per vedere se dentro si muoveva un insetto. C’era dell’altro, ovviamente: contrasti sulla scrittura, sul concetto di rivoluzione dell’arte ecc. Nel 1937 fondò, con Bataille, Klossowski, Leiris, il Collegio di Sociologia, che aveva come scopo lo studio del sacro e la sua influenza sulle aggregazioni sociali. Lo scritto che segue si riferisce proprio a quell’esperienza ed è contenuto in Le rocher de Sisyphe (1943) – in Italia La roccia di Sisifo, Lucarini editore, 1990.

"Eravamo troppo deboli, troppo innamorati di cose assai vecchie e assai fragili, cui tenevamo più di quanto credessimo: la bellezza, la verità, la giustizia, ogni delicatezza. Non abbiamo saputo sacrificarle. E quando abbiamo capito che era proprio quello il sacrificio cui dovevamo consentire, abbiamo indietreggiato e ci siamo ritrovati al posto nostro, dall’altra parte, in questo mondo vecchio e guasto, che ha fatto il suo tempo e che è ormai ora di liquidare. Vengano dunque, a distruggerlo e a spazzarci via insieme ai suoi rifiuti, i giovani e rudi operai che avevamo creduto di diventare noi e che, per essere ciò che sono, non avranno dovuto tradire niente, abbandonare niente, non avranno neanche avuto bisogno di forzare radicalmente la loro natura e che sono violenti e brutali in sé, ardenti e rozzi, avidi e generosi, che non si riempiono di principi, di scrupoli, di eleganza, di esattezza."