lunedì, maggio 30, 2005

Nulla cambia, tutto cambia?

Una ventina di giorni fa sono andato a Milano in treno. Da anni, credo una decina, non superavo i 50 km con questo mezzo di trasporto. Sono rimasto stupito nel constatare che non è cambiato quasi nulla, a parte i nomi: adesso i treni si chiamano Eurostar, sono molto costosi, vengono dal Sud e non sono quasi mai in orario. Io, come facevo sempre, ho preso il mio bel interregionale, che impiega 30 minuti più dell’Eurostar e costa un terzo. Poi però si è fermato in mezzo alla campagna modenese ed è stato fermo una intera ora. Tutto normale quindi, tutto perfettamente italiano.
A Milano dovevo andare in piazza Aspromonte e poi in Via Solferino. Qui, prima di entrare al Magazine, ho pensato: non ci starebbe male un caffè. Già, il problema è trovarlo, un caffè. Infatti non ci sono bar per interi isolati. E siamo in pieno centro. Io, abituato ai bar bolognesi, uno ogni dieci metri, non ci potevo credere. Ho rinunciato al caffè, sono andato al mio appuntamento e all’uscita ho incontrato il mio vecchio amico fotografo Michele. Saluti, abbracci, e la proposta di una birretta. Già, ma dove? "Sono spariti i bar!" ho esclamato. Michele ha riso, poi ha allargato le braccia. E’ così. Hanno chiuso tutti i bar, e anche i negozi. Un negozio apre, rimane in vita cinque, sei mesi, e poi chiude. Sono gli affitti troppo alti, ha detto, nessuno ce la fa. Alla fine siamo riusciti a trovare un piccolo bar, l’ultimo ancora aperto in quel deserto. "Sì, è così" ha detto il barista, "sono un sopravvissuto". L’arredo era singolare: mobili anni ’70, materiali economici, manutenzione scadente. Io, abituato ai sontuosi bar bolognesi, tutti ultimissimo modello, ero sbalordito.
Dopo pochi minuti ho ritrovato i vecchi, cari elementi di pazzia milanese che talvolta mi fanno rimpiangere questa città: eravamo seduti a un tavolino, io e Michele, quando è entrato un tipo elegante con un cagnolino a guinzaglio. Ha ordinato un bianchetto e ha iniziato una fitta conversazione col barista. Il cagnolino, intanto, continuava a saltarmi sulle ginocchia. Era simpatico, però fuori pioveva, e coi piedini mi sporcava i pantaloni. Così, mentre Michele si sconquassava dalle risate, ho chiesto al padrone se poteva tenere l’estroverso animaletto. L’uomo ha riso, l’ha accarezzato sulla testa a si è lanciato in un complicato racconto sul suo fratellino peloso. Ha detto che gli salta sul letto, sulla tavola, è incontenibile. "Come si fa a dirgli di no?" ha detto, mentre quello mi saltava indisturbato sulle ginocchia. "Io gli dico di no!" ho detto, cercando, invano, di allontanarlo. Niente da fare. Il tipo non batteva ciglio, raccontava tutta la biografia dell’espansivo cagnetto, ed io contemplavo i miei poveri pantaloni, ormai andati; per fortuna il barista gli ha detto qualcosa, il tipo si è esaltato e si è avvicinato al banco, trascinandosi dietro l’amico. Michele intanto aveva le mascelle slogate a forza di ridere.
Ma non è di questo che volevo parlare. Sono partito con l’obiettivo di rimanere a bordo del treno, poi la furia narrativa mi ha preso la mano. Facciamo quindi un passo indietro. Anzi, due: alla data di oggi togliamo una ventina d’anni. Sul manifesto uscì un articolo di Valentino Parlato in cui quel grande, raffinato signore si indignava perché un suo compagno di viaggio aveva tirato fuori un telefono portatile e si era lanciato in una lunga conversazione ad alta voce. Ma come, scriveva Valentino, il viaggio in treno è una preziosa occasione per rilassarsi, per stare da soli con se stessi, per leggere, perché dobbiamo essere vittime di questa maleducazione aggressiva, perché dobbiamo per forza partecipare alla conversazione privata di un estraneo? A quell’epoca facevano capolino i primi telefoni portatili e mi colpì quell’articolo.
Chissà se Valentino Parlato ha continuato a viaggiare in treno, immagino di sì; avrà dunque constatato che i telefonini hanno rotto tutti gli argini, sono dilagati tra noi e in treno, in autobus, è tutto un trillare e un rispondere "sono in treno, in autobus, arrivo tra mezz’ora". Un giorno ero in autobus e leggevo tranquillo un romanzetto giallo. Una ragazza continuava a parlare al telefonino a non più di venti centimetri dal mio orecchio. Saranno passati venti minuti (ma quanto spendono? È incredibile), alla fine, stremato, le ho detto "senta, signorina, o si allontana dal mio orecchio o le cedo il posto". Lei mi ha guardato con occhi barrati, è ammutolita, si è girata di spalle e ha ripreso, balbettando, la conversazione. Quando sono sceso stava ancora parlando.
In treno, durante il mio viaggio a Milano, saranno squillati cinquanta telefonini. La ragazza che sedeva accanto a me, una milanese simpatica, con la quale ho intavolato una interessante conversazione sulla sua città, aveva un cellulare che non solo suonava, gridava. Dopo un trillo mozzafiato veniva fuori una voce cavernosa che diceva: "attenzione!" e una parola incomprensibile che sembrava "pollo", o "collo". Ogni volta trasalivo.
Il bello è che ha squillato anche il mio, due volte, E anch’io ho parlato dei fatti miei, come tutti. E’ questo il segno dei tempi. Il mondo si imbarbarisce, e noi siamo cittadini di questo mondo. Siamo tutti coinvolti in questo processo. Poi c’è chi ne è cosciente, chi no e ad alcuni non importa un accidente. E si va avanti.

venerdì, maggio 27, 2005

I belli e i brutti uniti nella lotta

Un nuovo eroe si aggira per l’Italia; un nuovo commentatore, un nuovo moralista, un nuovo salvatore degli interessi nazionali: è il Presidente degli Industriali Luca Cordero di Montezemolo. Ogni volta che sale sul trespolo e parla leggiamo sui giornali che la Sinistra "plaude". La Destra vorrebbe plaudire, ma non ce la fa perché Montezemolo è insoddisfatto. Ha avuto troppo poco dalla Destra. Non sono abbastanza "rigorosi" i destri, ovvero hanno pompato troppo poco denaro nelle casse senza fondo dei "peggiori capitalisti d’Europa". Hanno concesso pochi privilegi rispetto a quanto promesso, non sono stati di parola. La Destra è impegnata soprattutto a favorire se stessa, a tutelare i propri interessi, è troppo dipendente dalla mafia interna. E Montezemolo, che ha bisogno, è trascurato.
Con la Sinistra va meglio. Andrà meglio, lo sappiamo tutti. Siamo preparati. Quando andrà al governo i primi cui penserà, finalmente, saranno loro, i fratellini di Montezemolo. Bisogna offrire, e dare, soprattutto dare, per avere il loro appoggio, l’appoggio dei belli. Sì, perché gli industriali, i ricchi, sono belli. Gli italiani, è noto, adorano i ricchi-belli, li mandano pure al governo. Se uno è ricco e bello, pensano, vuol dire che è anche bravo, e se lo è per sé, allora lo è per tutti.
Così, uno dei piaceri supremi di molti capi della Sinistra è farsi benvolere dai ricchi-belli. D’Alema, in particolare, non vede l’ora di inginocchiarsi davanti ai principi, baciare l’anello e dire loro, finalmente: vedete come sono bravo? Vedete che di me potete fidarvi? Allora, mi invitate alle vostre feste esclusive? Mi accogliete tra di gli dei? Posso definirmi anch’io bello?
Chi pagherà per tutto questo can-can, per questi pavoneggiamenti, saremo noi, come sempre. Cioè le classi medie e medio-basse, quelli stanchi, quelli brutti. Questo, ovviamente, avverrà in nome della "gravità della situazione"; perché quando il buco spaventoso creato dalla Destra sarà finalmente reso noto dovremo "rimboccarci le maniche, tutti insieme". Lo dice anche il Presidente Ciampi. Insieme nel dare e nell’avere. Noi daremo il nostro tempo, le nostre risorse, le nostre pensioni, la nostra fatica, e avremo in cambio, per consolarci, la loro immagine sfolgorante, e la loro bellezza.

mercoledì, maggio 25, 2005

Un bravo blogghista...

Sì, un buon scrittore-internet dovrebbe essere aggiornato e informato, commentare i fatti della vita, essere puntuale. Deve essere moderno. Anch’io, quindi, cerco di darmi da fare. Ecco alcuni commenti su fatti e personaggi dei nostri giorni.

Sulla relazione di Luca Cordero di Montezemolo all’Assemblea di Confindustria:
i ricchi sono spesso dei porci che vorrebbero ingrassare sempre di più.

Sull’attuale squadra di governo:
demagoghi, arraffoni, rottinculo, sono capaci di qualunque cosa.

Sulla folta schiera di parlamentari voltaggabana italiani:
codardi, vigliacchi! Venduti! Traditori, bastardi!

Su Rutelli, Mastella, e i cosiddetti “moderati dell’Ulivo”:
li evito come le merde di cane per strada.

Sui guardoni che scaricano da Internet filmati pedofili:
ma trovatevi una puttana, o mettetelo nel culo a qualcuno dei vostri amici!

Se un drappello di fascisti con gli occhiali a specchio ci sbarra la strada:
attacchiamo i bastardi e vediamo chi ha l’uccello più duro in mezzo alle gambe.

Quello che disse D’Alema a Bertinotti dopo la crisi del governo Prodi:
In culo al mondo. E adesso levati dai coglioni.

Quello che rispose Bertinotti:
può farsi rompere il culo.

Tutti i commenti in rosso sono frasi tratte da Il Tiranno di Valerio Massimo Manfredi.

domenica, maggio 22, 2005

Leggere con lentezza 2

Quello che segue è un altro “periodo lungo”, ossia un campione di scrittura in controtendenza con la scrittura dei giorni nostri, così referenziale verso le mode, gli spot, gli sms, il linguaggio televisivo. E’ tratto da un grande classico del Novecento italiano, Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati. Questo libro è pervaso da una furiosa, straziante follia: i dialoghi sono un cicaleccio nevrotico, e sembrano sgorgare da un’unica idea ossessiva, un demone che divora la vita, il tempo e lo spazio. Come in molti grandi libri questa follia si traduce spesso nella scrittura, la inonda, la stravolge. Notare in questo periodo la sequenza degli “e”, che colpisce come un maglio e imprime un’accelerazione a quella che Allen Ginsberg chiamava “la prosodia”: proprio al poeta americano, che cercava di inseguire una scrittura “lisergica” (il ritmo di Howl è scandito dalla cadenza interminabile dei “che”) mi fanno pensare certe pagine del Bell’Antonio; in un altro punto del libro lo zio di Antonio si lancia in un monologo dove, con una sequenza impressionante di “d’altra parte”, dice tutto e il contrario di tutto. E’ davvero come lasciarsi andare al flusso dell’LSD.

“Il terrazzino invece era incassato fra la parete esterna della sala da pranzo e il muro di una casa più alta, totalmente cieco e nero nel passato, ma ora interrotto da un balcone nel quale soleva affacciarsi un vecchio solenne, l’avvocato Ardizzone che però, nonostante il parlare fiorito, e la vestaglia gonfia di pieghe, e l’uso smoderato della toga, e l’indice spianato a bruciapelo sull’avversario, e, trovata ch’era parsa decisiva, un ritratto a olio, occupante mezza parete nel salone dell’ordine degli Avvocati, e nel quale egli era raffigurato con quel famoso indice, puntato questa volta per cortesia verso il soffitto, e l’altra mano appoggiata a un multicolore fascio littorio, nonostante questi meriti e qualità, e l’invio di centinaia di cassette di arance a personaggi influenti di Roma, e un carteggio accorato, violento, supplice, iroso coi segretari dei ministri, non era riuscito a farsi nominare senatore, e la notte, parlando nel sonno, gridava: “Santo Iddio, tanti sbirri con le manette in tasca, che io stesso mercé le mie amicizie ho fatto nominare questori, seggono già a Palazzo Madama, e io, che sono io, mi hanno lasciato qui come una scopa vecchia... Viva Giolitti!” aggiungeva poi, col rischio di farsi arrestare, se il suo vicino di casa fosse stato un fanatico”.

mercoledì, maggio 18, 2005

La sindrome di Stoccolma dell’intellettuale-Lolita italiano

Il processo è iniziato una trentina di anni fa, a Ravenna. In quella città esisteva una cellula molto attiva dell’ARCI, sempre in fermento e alla ricerca di idee, di segnali, soprattutto nel mondo giovanile e della comunicazione. Questo gruppo di amici, di intellettuali, composto tra l’altro da Stefano Giunchi, poi emigrato all’ARCI di Roma, e da Guido Pasi, oggi un irreprensibile assessore della Regione Emilia Romagna, decise di creare una sottocellula che chiamarono Cellula Hollywoodiana dell’ARCI. Nel nome era contenuto tutto il programma della struttura, molto più che in qualsiasi documento o statuto: tutto ciò che era hollywoodiano, da baraccone, di cartapesta, tutto ciò che era trash (questa parola comunque ancora non si usava) era benedetto dal Cielo. Giocavano, quei ragazzi, si beavano a esaltare i filmacci con Ronald Reagan, i baci d’amore sullo sfondo di tramonti al calor bianco, con contorno di musiche che avrebbero strappato un brivido a Ennio Morricone. Si divertivano, cazzeggiavano, e non sapevano di avere inaugurato un genere, un atteggiamento che sarebbe dilagato inarrestabile tra gli intellettuali italiani come un’epidemia.
Passarono gli anni, e arrivarono gli Ottanta, col loro carico di leggerezza e disperazione, con la voglia di trasgredire ma anche di arrivare, di avere successo. Un nuovo programma televisivo, che andava in onda su una delle emittenti dell’astro nascente Silvio Berlusconi, irruppe come una meteora sulla scena mediatica italiana: Non è la Rai, una sfilata di adolescenti con minigonne mozzafiato che ballavano e cantavano. Non era importante il talento, ma la malizia con la quale il grande voyeur Gianni Boncompagni insinuava la telecamera sotto le gonne, le spiava, le frugava (poi, dopo le prime puntate, le inquadrature si fecero leggermente più caste, forse per evitare polemiche e accuse di oscenità).
Era presentato da una ragazzina coi capelli scuri, un po’ rotondetta, Ambra Angiolini, che “bucava” il video, e immediatamente divenne un’icona con la quale le spettatrici adolescenti si identificavano. Sui muri delle città italiane non era raro vedere scritte del tipo: Ambra, 6 un mito. Ambra aveva un’ottima parlantina, era ammiccante, ballicchiava, canticchiava; era bravina, non era una di quelle stuatuarie vallette seminude che vanno di moda oggi. Il pigmalione e tenutario dell’harem Boncompagni la manovrava attraverso un auricolare. Qualche volta le faceva persino dire delle battute politiche, ovviamente favorevoli al suo padrone e al CAF, che a quei tempi spadroneggiava e lo proteggeva. Quel programma era puro nulla, ma tutti, in un modo o nell’altro, lo guardavamo: noi maschi per sfogare l’occhio, le ragazze per confrontarsi con le “macchine di desiderio” create dal mezzo televisivo.
In quegli anni Alberto Piccinini era uno degli intellettuali di punta della sinistra. Firmava sul manifesto articoli di letteratura, ed era molto ambita una sua recensione. Ha fatto parte della redazione di Blob e oggi lavora a MTV. Cosa fece Alberto Piccinini? Che idea ebbe? Quale luce illuminò la penombra della sua vita di intellettuale impegnato? Scrisse un libro su Ambra. Un intero libro. Non ci potevamo credere. Quelli erano tempi in cui gli intellettuali ragionavano ancora su concetti quali: che modello di sviluppo alternativo è possibile per superare la spirale perversa produzione-consumi? Tematiche che, a tirarle fuori oggi, si rischia, nel migliore dei casi, il compatimento. Bene, Alberto Piccinini mise da parte queste riflessioni e scrisse un libro su Ambra. Se ne discusse, e in maniera piuttosto rumorosa, a lungo. Tutto ciò che ricordo di quel testo è il tono a metà tra l’ironico e l’ammirato. Un atto d’amore, in definitiva, e di desiderio, verso Ambra.
Desiderio che è puntualmente riemerso in tempi più vicini ai nostri in un altro intellettuale, questa volta altamente specializzato in fenomeni televisivi: Carlo Freccero tesse un elogio entusiasta, addirittura selvaggio, dell’ultima icona prodotta dal video: Costantino Vitagliano. Durante un’intervista l’ex direttore di RAI 2, con quella sua aria sempre un po’ “fatta”, vagamente maledetta, alla Carmelo Bene, definisce colui che è stato descritto come “la più compiuta trasfigurazione del nulla mai esistita”, un grande personaggio, l’unico maschio perfetto che incarna la mascolinità contemporanea. Una nuova dichiarazione d’amore verso una macchina di desiderio televisiva.
Il tempo passa, ma la natura del processus non cambia. Esplodono le sorelle Lecciso. Due signore inabili al lavoro fanno impazzire per alcuni mesi i vertici televisivi e si scatenano fenomeni di fanatismo mediatico. A questo punto scende in campo un altro commentatore di grido: l’intellettuale parlante Francesco Merlo traccia dalle colonne de La Repubblica una Fenomenologia delle Lecciso che equivale a una vera a propria esaltazione acritica del fenomeno. Questo è il futuro, elzevireggia Merlo, e chi osa criticare, chi si permette di giocare all’intellettuale impegnato sappia che sarà iscritto nella lista nera delle “scimmie di Umberto Eco”. Alè.
E veniamo ai giorni nostri, così aleatori, così fuggevoli. Il vecchio vizio si perpetua. Due scrittori trentenni à la page, Giuseppe Genna e Michele Monina, hanno pensato di ripetere l’impresa di Alberto Piccinini. Scrivono un intero libro sull’icona televisiva suprema dei nostri tempi, uno che quando scende in strada “vale più del Premier, del Presidente della Repubblica, delle elezioni”; uno che, “se Sofocle ed Eschilo fossero nati oggi avrebbero scritto una tragedia su di lui”. Un libro sul “Costa”, il sempiterno Costantino (che ancora “tiene il chiodo”, benché si affaccino sul video nuovi fustacchiotti). E siamo alle solite: tra le righe di uno stile mondano, sarcastico, brillante, sotto lo smalto di una presunta ricerca social-mediatica della periferia milanese, si cela, neanche troppo mimetizzata, l’attrazione verso la macchina di desiderio televisiva, l’oggetto del fanatismo di “interi pullman” di ragazzotte che sperano di vedere da vicino colui-che-non-sa-fare-un-cazzo-però-è-talmente-famoso-che-gli-fanno-fare-pure-un-film.
Ho riflettuto a lungo, è dagli anni Ottanta che rifletto e mi chiedo: perché lo fanno? Perché questi intellettuali perdono la testa per personaggi che sono la negazione stessa dell’intelligenza (come simboli ovviamente)? E non solo, si arrabbiano pure con chi osa criticare i loro eroi? Non ho mai trovato una risposta certa. Ho pensato che un motivo può essere una semplice attrazione sessual-mediatica verso l’eroe, o l’eroina, del momento; oppure un tentativo di assorbire un po’ di luce riflessa dell’astro, sfruttare il suo nome, vendere copie ecc: però nessuna di queste spiegazioni mi convince pienamente. Diciamo che le trovo plausibili al 50%. E l’altro 50%?
Per cercare una risposta mi sono avventurato tra le pagine di un grande classico del Novecento e ho trovato la citazione giusta: Lolita e Humbert, durante il lungo viaggio nella provincia americana, si fermano in un albergo. Hanno un rapporto sessuale: doloroso, umiliante quello di lei, estatico quello del suo carceriere; poi lui la fa soffrire, le svela brutalmente che sua madre è morta ed ora è sola al mondo. Litigano, e prendono due camere separate. Ma “nel mezzo della notte lei venne singhiozzando nella mia e ci riconciliammo con grande dolcezza. Vedete, non c’era altro posto al mondo dove potesse andare”.
Non c’era altro posto al mondo. Forse è qui il restante 50%. Gli eroi mediatici sono l’Antiletteratura allo stato puro, l’Anticultura incarnata sulla terra. Questi sono tempi difficili, come sostiene qualcuno. Edmondo Berselli scrive che “questa è l’epoca postindustriale, c’è la stagnazione, il declino; I Costantino, i Daniele Interrante rispecchiano in modo adeguato un paese senza più capacità di creare valore aggiunto, che si autoconsuma”.
Dove può andare un intellettuale che non crea più valore aggiunto, dove si nasconde in questo tempo fatto di nulla? Non c’è altro posto al mondo. Ecco allora che si rivolge verso il suo stupratore, il suo carceriere. Gli sorride, lo blandisce, cerca di abbracciarlo. E’ condannato, e lo sa, perché il mondo scivola sempre più verso il totalitarismo mediatico degli eroi dell’Anticultura; sa che prima o poi dovrà cadere, e cadrà nel fango. E allora, deve essersi chiesto l’intellettuale-Lolita italiano: perché non farlo almeno ridendo e ballando?

venerdì, maggio 13, 2005

Bologna di nuovo nell’occhio del ciclone?

Ieri sera puntata mitica di Otto e mezzo, con Sergio Cofferati e Franco Giordano di Rifondazione Comunista. In questi giorni gli sguardi golosi dei media nazionali sono puntati su Bologna, perché si sta ripresentando, sembra, il fenomeno della dissociazione tra la maggioranza di sinistra che ha vinto le elezioni e Rifondazione, che minaccia di uscire dalla Giunta perché non condivide certe scelte.
Quali scelte? Uno sgombero di occupazione abusiva, una delle tante, da parte di una famiglia Rom; la mancata ratifica di un accordo sindacale stipulato con la precedente amministrazione, che avrebbe “ingannato” i sindacati con un accordo senza copertura finanziaria; un’ordinanza che vieta il consumo degli alcoolici dopo le 21 fuori dai locali; un atteggiamento critico, di sostanziale chiusura, verso un grande rave-party che si dovrebbe tenere in città.
Cofferati ha ribattuto con puntiglio, scendendo nei particolari, e con frequenti richiami alla legalità e al rispetto delle regole, a tutte le accuse. Non mi addentro nei dettagli, perché le questioni sono assai complesse, richiederebbero troppo spazio, un vero e proprio trattatello. Franco Giordano, spalleggiato da Ritanna Armeni, ha tentato di reiterare le accuse, ma era evidente la sua informazione carente sulle questioni bolognesi, il suo non essere parte della città: le sue erano argomentazioni generiche, slogan nazionali. Cofferati invece entrava nel merito, e non si smuoveva di un millimetro. Una quercia, solida, dura, con radici potenti ben piantate nella terra; nel complesso era convincente, perché è sempre convincente il parlare chiaro, il richiamo alla legalità, al rispetto delle regole. Non a caso Ferrara è letteralmente impazzito. L’atteggiamento di Cofferati, quel suo essere, finalmente, un politico “con le palle” lo ha fatto entrare in uno stato di ipereccitazione orgasmica. E proprio da qui, a mio avviso, emerge un segnale inquietante. Ferrara ha un animo profondamente violento, ed è dotato di una intelligenza fredda, raffinata; è furbo, una vecchia belva che ha voltato gabbana e conosce a fondo il mondo dell’ex P.C.I. Ha visto nel “Principe” (questo è il soprannome che gli hanno affibbiato i sindacati autonomi bolognesi) quell’icona di “tolleranza zero” che in Italia è del tutto sconosciuta.
In parte è proprio così. A me sembra che il sindaco di Bologna riproponga un modello assolutamente identico al P.C.I. bolognese della fine degli anni Settanta, quello che si trovò, impreparato e inadeguato dal punto di vista culturale, al centro della contestazione studentesca del ’77. Quel P.C.I. di Luciano Lama che definiva gli studenti con la faccia dipinta “poveri untorelli”, arroccato nella “legge e ordine”, che ha pagato duramente per questa inflessibilità, perché molti giovani l’hanno identificato col difensore a oltranza della Bologna ricca ed egoista, la borghesia “rossa” della città, e si sono irrimediabilmente allontanati. Qui è il pericolo vero: che la legalità di Cofferati, limpida e per certi aspetti condivisibile, si riduca, nei fatti, alla tutela di uno status-quo alquanto preoccupante, con le case in città che costano cifre scandalose, un posto letto che costa 250-300 euro al mese, e masse di cittadini che fuggono verso l’estrema periferia.
I poveri, gli illegali, i disperati, non si possono cancellare: gli sgomberi li fanno spostare di duecento metri, un chilometro, ma tornano. Tornano sempre. Perché il degrado si è ormai infiltrato in profondità in una città divorata dalla speculazione. E’ qui il vero nocciolo duro. Il modello legge-e-ordine-a-tutti-i-costi forse poteva funzionare negli anni Settanta e Ottanta, quando c’erano più soldi, più risorse, e il degrado non si era ancora trasformato in entropia. Oggi appare come una difesa, non come un rimedio strutturale. Significa, come direbbe Kafka, concentrarsi sulla procedura senza avere il coraggio di concludere il procedimento. Oggi avere “le palle” vuol dire studiare a muso duro soluzioni al problema drammatico della casa, degli emarginati, impedire che la città si svuoti dai suoi cittadini per diventare terra di conquista delle banche, delle finanziarie. Questi non sono discorsi estremisti o demagogici. Un urbanista come Pier Luigi Cervellati diversi anni fa in un libro intitolato L’arte di curare la città puntava il dito verso la mancanza di coraggio degli amministratori che rinunciano a una pianificazione coraggiosa, e faceva balenare il pericolo dello svuotamento delle città. Avere “le palle” significa avere il coraggio di andare contro la potente casta dei commercianti e risolvere finalmente il problema del traffico caotico, dell’inquinamento.
Se non si hanno questi obiettivi in primo piano la legge-e-ordine-a-tutti-i-costi attirerà ancora una volta delusione, diffidenza e allontanerà i giovani, che sono le vere forze creative dell’umanità. E se da un lato tracimerà il consenso della borghesia, sempre più spaventata dall’avanzare del degrado, ma troppo vile e opportunista per mettere in discussione i propri non-valori, dall’altro arriveranno, sempre più sonori, dei bruttissimi cori di malcontento e assordanti proteste.

mercoledì, maggio 11, 2005

Amare la letteratura a Teheran

Leggere Lolita a Teheran (Adelphi) è un libro bellissimo. Non è facile, di questi tempi, permettersi un simile aggettivo. I libri moderni possono essere “belli”, “molto belli”, oppure “bellissimi, però...” Qui non c’è però. E’ di una bellezza unitaria, priva di sbavature; è il libro ideale da leggere dopo tre o quattro fughe nella narrificazione, nei gialli, nei romanzetti storici, per tornare a volare alto e riflettere sulla vita. E per questo, per questa merce rara, dobbiamo essere grati all’autrice.
Azar Nafisi è stata insegnante all’Università di Teheran fino al 1997, quando è definitivamente emigrata in America. Ha vissuto tutte le fasi della rivoluzione islamica, fino alla lunga guerra con l’Iraq. Il romanzo, se così possiamo definirlo, perché è evidente la sua valenza di testo verista, autobiografico, segue lo scorrere del tempo, e il consolidamento del regime, attraverso vari racconti, ritratti di personaggi, salti temporali, con una tecnica di racconto nel racconto che, per la particolarità stilistica, per la struttura, ricorda Le Mille e Una Notte. Strabiliante è la fantasia narrativa del grande classico, strabiliante è la follia che pervade Leggere Lolita a Teheran. In quella città, in quella parte di mondo infatti, è accaduta una cosa che forse solo la letteratura può svelare: la follia più assoluta ha preso il potere e si è impadronita del tempo, della vita, dei desideri, dei sogni. Proprio i sogni, quelli di un vecchio uomo che guarda il mondo con sguardo arcigno, o quelli del “censore cieco” (il censore del cinema e del teatro nel regime di Kohmeini era un cieco), i loro sogni malati, perversi, hanno rubato il passato, il presente, il futuro, i colori della vita e hanno creato un mondo in bianco e nero. Non esiste più nulla, nella Repubblica islamica, al di fuori di questi sogni-vampiro che hanno ridotto il mondo una terra desolata. La narratrice, la “professoressa Nafisi” viaggia in questo mondo impazzito avendo come unica arma di difesa, come unica via d’uscita, il suo amore sincero, totale, per la letteratura. Solo la letteratura può garantire la sopravvivenza, perché permette di raggiungere una realtà parallela, e di nascondersi, quando l’irrealtà, che è al potere, fa sprofondare il mondo nell’oscurità e nella distruzione.
Diviso in 4 parti, ognuna dedicata a uno dei suoi scrittori preferiti, tutti “decadenti”, tutti “peccaminosi” secondo la rigida retorica del regime (un capitolo è dedicato a un incredibile processo al Grande Gatsby, intentato da uno dei temibili studenti fanatici islamici – che avevano il potere di fare licenziare, arrestare i professori giudicati filo-occidentali – e difeso da una studentessa e dalla stessa autrice): Lolita (Nabokov), Gatsby, James, Austen, ci aiuta a capire che i fantasmi dell’uomo, i sogni, le speranze, i demoni, sono già nei grandi libri. Humbert è il carceriere-mostro che ruba e divora l’adolescenza di Lolita; Gatsby è legato indissolubilmente ai propri sogni, e la sua fine coincide con la fine del sogno, con la morte dell’ideale; Henry James è l’ambiguità, la non certezza, è Daisy Miller, la donna coraggiosa e anticonformista; Jane Austen è il canto corale, la scrittura polifonica, la democrazia, ma anche la piccola crudeltà quotidiana, il peso delle convenzioni sociali.
Sempre, quando la luce si spegne, i colori svaniscono, e tutto si sgretola, interviene la letteratura a tenere insieme i pezzi. Leggere Lolita a Teheran è un grande racconto d’amore, ma è anche un avvertimento: rinunciare alla letteratura, alla creatività, alla fantasia, alla propria coscienza, significa abbandonarsi al ruolo di vittima, e subire la lapidazione dei sicari del censore cieco.

martedì, maggio 10, 2005

Soviet d’Italia

Secondo il telegiornale sovietico italiano n. 1 di ieri sera, lunedi, a Mosca non si sono ritrovati 52 capi di stato, no, tutta la manifestazione, i colloqui, sono stati solo una performance del nostro Primo Ministro. E’ andato là, ha sistemato tutto, ha rimesso in riga Putin e Bush, ci ha pensato lui. Altro che Blair, Schroeder, Chirac, e chi sono? Secondo il nostro bravo telegiornale sovietico tutto il mondo si è mobilitato unicamente per accogliere il n.1, lui, il Premier d’Italia.

domenica, maggio 08, 2005

Dibellaciao

Credo che una delle peggiori disgrazie che possa capitare a una comunità umana, a una società cosiddetta civile, sia di avere un personaggio come Francesco Storace come ministro. Per farsi un’idea di cosa abbia combinato come governatore del Lazio leggere su questo sito un’inchiesta realizzata dal settimanale Diario (cliccare qui).
Ok, Storace l’hanno fatto addirittura Ministro della Sanità. Non ci resta che invocare la pietà divina, se esiste, la protezione di qualche santo particolarmente quotato in Paradiso. Oppure confidare sul fatto che, essendo questo un governo elettorale, non abbia il tempo, né le risorse per fare disastri particolarmente gravi.
Comunque, è già partito alla carica, ma la vicenda è così triste, a mio modo di vedere, così deprimente che non riesco neanche a indignarmi. E’ la cura di Bella, che lui vuole inserire nel prontuario della mutua. Ora è evidente la volontà di strumentalizzare, come al solito, un sentimento così intenso come la speranza di malati gravi, che non riescono a debellare la malattia con le terapie tradizionali. Per di più quell’antipatico figliolone di di Bella è sempre alle adunate di An, quindi il cerchio si chiude. Ciò che trovo deprimente è che su questa tematica la Sinistra dimostri una chiusura assolutamente ottusa, mentre la destra, che ha campo libero, strumentalizza. Poi ci sono i commentatori-tuttologi, che sparano a zero sulla cura di Bella, accusata di essere più o meno un prodotto di fattuccheria. L’hanno detto i professori, e l’ha detto Rosy Bindi, che usa il pensiero dei professori come pensiero suo.
Chi scrive conosce il lungo, tortuoso cammino di una malattia pesante: i ricoveri, le complicazioni, le speranze che si alternano con gli scoraggiamenti, le depressioni. E l’assunzione di farmaci “forti”, ad alte dosi, che pure sono da benedire, perché aiutano a debellare la malattia: le chemioterapie, i trapianti, la chirurgia, le risonanze magnetiche, le PET, la medicina nucleare, il cortisone e gli antibiotici, quante vite salvano, ogni giorno? E benedetti siano i sonniferi, gli antidolorifici, che aiutano quando il proprio io, la propria entità sembra spaccarsi. Ma bisogna essere consapevoli anche dei danni collaterali che producono. C’è bisogno di terapie di sostegno, naturali, che permettono di attenuare l’impatto della chimica sull’organismo. Queste terapie, come l’omeopatia, o la cura di Bella, sono totalmente ignorate dai professori, che le considerano con un’alzata di spalle. I professori sono degli scienziati che hanno raggiunto risultati importantissimi nella guerra senza fine contro la malattia e il dolore; ma sono anche di mentalità chiusa, ostile verso tutto ciò che non è contemplato dalla loro farmacopea ufficiale. Le cure naturali, omeopatiche, non possono essere sottoposte alla stessa sperimentazione dei farmaci chimici. Hanno un’azione del tutto diversa, più diluita nel tempo e nello spazio, non sono aggressive, non sono stupefacenti; cercano di agire sull’equilibrio globale dell’organismo, che è gravemente compromesso dalla malattia ma anche dai farmaci pesanti. Non dico che l’omeopatia, o probabilmente la cura di Bella, possano guarire da sole il cancro, o la leucemia: no, non posso fare una simile affermazione. Dico che ci vuole più rispetto per ciò che non si conosce, ci vuole il beneficio del dubbio. Chiudersi in quel modo nelle proprie certezze granitiche, come i professori, come Rosy Bindi, significa lasciare campo libero agli strumentalizzatori di professione.

venerdì, maggio 06, 2005

Gli statali? E chi sono?

Continua, sui giornali, il gioco al massacro sui dipendenti pubblici, e questo in un momento particolarmente delicato, coi contratti scaduti da oltre un anno. Qualche tempo fa su un quotidiano, La Repubblica se non ricordo male, uscì l’articolo di uno di quei commentatori-tuttologi che pontificano su tutto lo scibile umano in cui “gli statali” (non si perde certo tempo a distinguere tra dipendenti dei ministeri, dei comuni, delle regioni, troppo faticoso) venivano descritti come appartenenti a una “lobby” impegnata solo a difendere i propri privilegi. Poi si diceva, ovviamente senza fornire alcun dato - e quando mai? - che gli stipendi degli “statali” sono aumentati in maniera esagerata negli ultimi anni, superando di vari punti l’inflazione. Questi concetti sono ripresi in un articolo uscito giovedi 5 maggio sul Corriere della Sera a firma di Francesco Giavazzi, dove viene dimostrato, con tanto di percentuali fornite dall’Istat, che gli aumenti sono stati particolarmente scandalosi, ben due punti in più dell’inflazione.
Bene, questi commentatori-tuttologi non sanno, neanche vagamente, di cosa parlano. Gli hanno passato un foglietto pieno di dati, percentuali, e tanto è bastato per farli entrare in uno stato di ipereccitazione orgasmica. Ma sì, sferriamo mazzate sul pubblico, stronchiamolo, copriamolo di fango, gridiamo che tutto è allo sfascio, va di moda; così il cittadino-televisivo-moderato, già esasperato dalla burocrazia, si chiede: ma quanto mi costano tutti quei lobbisti perdigiorno? E’ presto detto, ci pensa Giavazzi, cifre alla mano: 25 euro all’anno in Lombardia e Veneto, 61 euro in Basilicata.
Qui non si tratta di negare il fatto che la burocrazia, negli ultimi tempi, è peggiorata invece che migliorare; semmai è il caso di riflettere se il pubblico è indispensabile, o se non è inevitabile aprire sempre più ai privati, ai palazzinari, ai Gasparri che tentano di liberalizzare lo scempio del territorio senza tutti quei carichi di “burocrazia”; ma è anche il caso di riflettere davvero sulle retribuzioni, quelle vere però, non quelle ricavate dai proverbi da bar Sport: un dipendente comunale di una città medio-grande, di 7° livello (per accedere al quale con concorso è richiesta la laurea), dopo 3-5 anni di anzianità non arriva a guadagnare 1100 euro; un 6° livello (è richiesto il diploma di scuola media superiore) non arriva a 1000. Sarebbero queste le scandalose retribuzioni da lobby, che aumentano senza freni, in barba all’inflazione?
In realtà dietro a questa demagogia irresponsabile c’è l’ennesimo attacco al lavoro, a ciò che resta dei diritti, delle garanzie, dopo le devastazioni del precariato che ha raso al suolo le prospettive future dei giovani che si affacciano sulla soglia del mondo. Il pubblico impiego è l’ultimo baluardo di stabilità, l’ultima difesa contro lo strapotere del nuovo capitalismo liberista globale, bisogna provvedere. Eccitiamo quindi gli animi del cittadino-televisivo-moderato, eliminiamo al più presto quest’ultima, insopportabile anomalia.

giovedì, maggio 05, 2005

Beppe Grillo, aiuto!

Volevo scrivere un commento indignato e complesso sui continui furtarelli, le vessazioni, le truffe legalizzate che il nuovo capitalismo liberista globale ci obbliga a subire quasi ogni giorno. Difficilmente chi fa una vita cosiddetta normale, cioè deve lavorare, usare una banca, un’auto, un telefon(in)o, un computer, deve pagare un affitto o un mutuo, è sfuggito a questa spirale malefica. Esempio: ho comprato un mobile all’Ikea: mentre iniziavo a montarlo sentivo un odore molto forte, acido, che si sprigionava dal legno. Così ho telefonato all’Ikea per chiedere spiegazioni; risultato: il numero è a pagamento. Se devo inoltrare un reclamo, o segnalare un guasto, devo pagare. Non è geniale? Stessa cosa col mio provider internet: avevo problemi con la posta elettronica, ma il numero dell’assistenza tecnica è a pagamento. Per non parlare del meccanismo profondamente disonesto del silenzio assenso: ho ricevuto una lettera da Telecom che m’informava che, “come da accordi”, mi attivavano l’opzione teleconomy. Quali accordi? Io non uso Telecom per telefonare, come posso avere chiesto un meccanismo che prevede uno sconto sulle telefonate ma è subordinato a un canone mensile (oltre al canone che già si paga anche se si utilizza un altro gestore)? Errore, mistero: intanto ho dovuto sorbirmi l’interminabile trafila del call-center, digiti uno, digiti due, attenda, per ben tre volte, per disdire. E Vodafone, che mi manda un sms per avvertirmi che mi hanno attivato non so quale diavoleria, costa solo 3 euro, se non la voglio devo chiamare il tal numero. Di nuovo il delirio del call-center, digiti uno, digiti due, attenda, e ti fanno anche sentire un pezzente, per tre miserabili euro. Ci succhiano tempo, energie, denaro, zitti zitti, furbini e aggressivi. E poi ci stupiamo se i Black Bloc lanciano sassi contro le vetrine delle banche, delle assicurazioni (altra grande famiglia di furboni), delle finanziarie.
Be’, questi due capoversi dell’ultimo spettacolo di Beppe Grillo sembrano scritti proprio per me. Ed è vero, perché sono scritti per tutti, perché questo è ormai il nostro quotidiano. Valgono più di qualunque commento o riflessione.

“Se telefoni a un call center ne sanno quanto te. A volte, meno di te. Ammesso che risponda qualcuno. Ammesso che non ti sbattano il telefono in faccia. Siamo nell’Era della Comunicazione Globale e non riusciamo più a parlare con nessuno. Una volta andavi da chi ti aveva venduto un prodotto e gli dicevi: “oh, ciccio, sta roba non mi funziona”. Adesso devi telefonare a un numero. Verde, quando va bene. Quando non va bene paghi. Hai un problema dovuto a un loro prodotto e paghi per dirglielo. Poi paghi per stare in attesa e infine ti fanno girare così tante persone che alla fine se non hanno già messo giù loro metti giù tu. Ti hanno venduto un prodotto o un servizio che non funziona o che ha dei problemi e paghi per restare nella merda!”

“E nell’Era della Comunicazione Globale comunichi anche quando stai zitto. Con il silenzio assenso. Una mattina ti svegli, per esempio, e scopri di avere un servizio di segreteria telefonica. E l’hai chiesto tu stando zitto! Se parlavi, magari non te lo mettevano. E siccome sei stato zitto... cazzo vuoi? Ti riempiono di questi servizi. Sei circondato. Quando vedo la Gale ormai ho più voglia di scuoiarla che di ciularmela!”

martedì, maggio 03, 2005

Leggere con lentezza

Quello che segue è forse il “periodo lungo” o “periodo lento” più famoso della Ricerca. Sulla scrittura proustiana, la cui densità è stata definita, da alcuni critici, “elefantiaca”, o “antioratoria”, fatta di periodi di estrema lunghezza e complessità, sono stati scritti numerosissimi saggi. Il periodo proustiano è stato analizzato, scomposto, smontato; Leo Spitzer l’ha addirittura suddiviso in vari tipi, il periodo “ad esplosione”, quello “a ramificazione”, o “ a stratificazione”; mentre il critico Franco Simone, sulla rivista fiorentina Letteratura nel 1947 ha notato come – nel brano qui di seguito pubblicato - attraverso il ritmo della scrittura Proust evochi immagini (le due camere, quella d’inverno e quella d’estate), atmosfere, sensazioni (caldo-freddo, il nido come rifugio) che ci comunicano le impressioni di un uomo – lo scrittore – enormemente sensibile, durante il risveglio mattutino.
La scrittura lenta proustiana è fortemente in controtendenza rispetto agli stili di molti autori contemporanei. Oggi le pagine dei romanzi sono crivellate di punti, i periodi sono brevissimi, spesso spezzati in due, tre parti (esempio, una frase come “andò a casa e si preparò un caffè” diventa “andò a casa. Si preparò un caffè), troncati da a-capo continui, mentre la pausa intermedia del punto e virgola è quasi sconosciuta. Sembra di assistere a un rifiuto della scrittura intesa come ricerca, come atto di coraggio, come sfida estetica. Leggere con lentezza i periodi lunghi di Proust è dunque una fantastica palestra intellettuale che aiuta la mente a mantenersi elastica e ricettiva, funzioni sempre più minacciate dall’avanzare implacabile dell’omologazione. Leggere con lentezza La Ricerca è terapeutico, è avantgarde; è un ottimo antidoto contro il nuovo conformismo stilistico di molti autori degli anni 2000.

“Ma avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, il bordo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats roses, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitamente; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si prova è di sentirsi divisi dal mondo di fuori (come la rondine marina che ha il suo nido al fondo d’un sotterraneo nel calore della terra), e dove, mantenendosi acceso il fuoco nel camino tutta la notte, si dorme in un gran mantello d’aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie d’impalpabile alcova, di calda caverna scavata in seno alla camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, aerata da aliti che ci rinfrescano il viso, e vengono dagli angoli, dalle parti più vicine alla finestra o lontane dal focolare e divenute fredde; - camere estive dove piace unirsi alla notte tiepida, dove il chiaro di luna, venuto a posarsi sulle imposte socchiuse, getta fino al piede del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cinciallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; - a volte camera Luigi XVI, così allegra che neppure la prima sera non mi ci ero sentito molto triste, dove le colonnette che sostenevano leggere la volta con tanta grazia si scostavano a mostrare e serbare il luogo del letto; a volte invece quella, piccola e col soffitto molto elevato, scavata a forma di piramide nell’altezza di due piani e in parte rivestita di mogano, dove fin dal primo momento ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto della gramigna indiana, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che cicalava forte come se io non ci fossi stato; - dove uno strano e spietato specchio quadrangolare, a bilico, sbarrando di sbieco uno degli angoli della stanza, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio ordinario campo visuale un posto che non vi era preveduto; - dove il mio pensiero, sforzandosi per ore e ore di estendersi, di innalzarsi per prendere l’esatta forma della stanza e giungere a riempire fino all’alto il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte notti penose, mentre me ne stavo disteso nel letto, con gli occhi alzati, con l’orecchio ansioso, la narice restìa, il cuore che batteva: fino a quando l’abitudine non avesse mutato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non messo in fuga interamente, l'odore della gramigna indiana, e diminuito in modo notevole l’apparente altezza del soffitto”.

(traduzione di Natalia Ginzburg)