domenica, febbraio 26, 2012

Coriandolina va in pineta

[Pubblico la fiaba contenuta nell'antologia C'era (quasi) una volta, Senzapatria 2011. Quando Marino Magliani, il curatore, mi chiese una fiaba ambientata in una città (si trattava di una raccolta di racconti che spaziava a 360° nel territorio nazionale), pensai subito alla storia che raccontavo a mia figlia Beatrice, che ogni volta si modificava. Così la trascrissi. Questa è una versione-tipo, direi quella riuscita meglio, ambientata a Cervia di Ravenna.  Proprio come Céline col piccolo Mouck, la favola che raccontava alla figlia Colette, tanto per mescolare il sacro col profano...]


Beatrice salutò la mamma, che le aveva appena dato il bacio della buonanotte, e chiuse gli occhi. Ma non aveva sonno. Erano iniziate le vacanze, non vedeva l’ora di andare al mare, in spiaggia, dove c’erano tanti giochi nuovi, gli scivoli, il castello…
D’un tratto sentì picchiettare alla finestra. Riconosceva quel ticchettìo. Alberino era tornato a trovarla.
Balzò giù dal letto e correndo a piedi scalzi sul pavimento di legno andò alla finestra.
Alberino le sorrideva. Vide la bocca di muschio che si allungava sulla faccia di corteccia, coi capelli di foglie verdi che scendevano a cascata come l’edera. Le lunghe dita di giunco stavano ancora tamburellando sul vetro. Beatrice aprì la finestra e Alberino si affacciò.
“Ciao Coriandolina, posso entrare?” disse con la sua voce, che sembrava il vento quando fa stormire le foglie.
Alberino la chiamava così, Coriandolina, perché il giorno di carnevale l’aveva vista, sul carro che sfilava, mentre lanciava manciate di coriandoli sulla folla. Anche Beatrice l’aveva visto, appollaiato sui rami di un pino. I loro sguardi si erano incrociati, e Beatrice l’aveva salutato con la mano. Più tardi Alberino aveva chiesto ai suoi amici alberi chi era quella bambina. Gli alberi parlavano molto tra loro, si passavano i messaggi col vento, con le foglie, oppure, quando erano lontani, ci pensavano gli insetti a portarli, le farfalle, le coccinelle. Era stata una quercia, un albero parente di Alberino, perché avevano la stessa corteccia, le stesse foglie, a riconoscere Beatrice Coriandolina, che abitava in una casa vicino alla grande pineta di Cervia. Così aveva trovato un’amica.
Alberino srotolò la liana, che portava sulla schiena come uno zainetto, la fissò all’attaccapanni e si calò nella camera. Era alto come Beatrice, camminava con due corti rami, robusti e flessibili, che terminavano con pezzi di corteccia che formavano i piedi. Portò dentro il suo odore di muschio, di erba fresca, e di fiori.
“Hai qualcosa per me, Coriandolina?”
“Certo” disse Beatrice. Andò ad aprire il secondo cassetto dello scrittoio di legno dipinto di giallo, dove c’era il vasetto del miele, la grande passione di Alberino.
“Ecco!” disse, e aprì il coperchio. Lo depose sul pavimento, accanto ai piedi del suo amico di legno e foglie. Un sottile ramoscello spuntò dalla corteccia e si tuffò nel vaso del miele, denso e profumato.
“Uhhm!” disse la voce di vento, “che buono!”
Gli occhi, due palline che uscivano dalla corteccia come mirtilli, si socchiusero per il piacere.
Un giorno Alberino le aveva raccontato la sua vita. Era molto vecchio, più del suo papà, più del nonno, aveva circa cento anni. Era nato in un paese lontano, al di là del mare, da una quercia che stava per essere abbattuta per fare posto a una strada. Era vissuto in un grande bosco, per molti anni. Quando era giovane, diceva, sugli alberi c’erano le api, coi loro favi pieni di miele. Lui si avvicinava e chiedeva: “mi offrite un po’ di miele, sorelle api?” e loro rispondevano: “zzzììì!”. Poi le api erano sparite, e il suo bosco era stato abbattuto per costruire un paese. Allora aveva viaggiato, per i boschi, per le montagne, nei fiumi, galleggiando come un tronco nella corrente, finché era arrivato a Cervia, dove c’era una bellissima pineta. E aveva scoperto che le api non esistevano più allo stato libero, ma solo negli alveari degli apicultori. Però non potevano regalargli il miele, ne avevano a malapena per loro stesse, perché il resto lo prendeva l’apicultore per venderlo nei mercati.
Quando Alberino ebbe finito di gustare il miele il ramoscello rientrò nella corteccia. Srotolò di nuovo la liana, l’appese al lampadario e saltò sul mobile coi cassetti, dove c’erano i giochi di Beatrice, le bambole, i pattini, i quaderni da disegno e gli acquerelli.
“Allora, Coriandolina, sono iniziate le vacanze?”
“Sì! Evviva! Domani vado al mare.”
Alberino rise, poi usando la liana saltò giù dal mobile e si mise a camminare per la camera, mentre Beatrice lo seguiva. Era un curiosone, apriva i cassetti, guardava dappertutto, e se trovava un bicchiere con un po’ d’acqua, per esempio colorata con gli acquerelli, faceva subito uscire il ramoscello per assaggiarla.
“Senti, Coriandolina, voglio portarti in un posto, per farti conoscere un amico.”
Beatrice si sedette sul pavimento, incrociando le gambe.
“Adesso?”
“Sì” disse Alberino. “E’ qui vicino, faremo presto.”
“Che bello! E chi è il tuo amico?”
“Sarà una sorpresa. Vedrai che simpatico.”
“Ma come facciamo a uscire? Mamma e papà sono in salotto che guardano la televisione.”
“A quello ci penso io. Le hai le scarpe?”
“Sicuro!” disse Beatrice, che corse dietro la porta a prendere le scarpette bianche da ginnastica.
“E una felpa?”
“Anche!”
“Andiamo, allora.”
Beatrice infilò la felpa e si avvicinarono alla finestra. Alberino, con la liana, si arrampicò sul davanzale.
“Sali anche tu” disse.
Beatrice prese una sedia e salì.
“Ma siamo al secondo piano” disse, guardando in basso.
“Oh, Coriandolina, sei con una creatura degli alberi, non ti preoccupare!”
Di fronte alla finestra c’era un grande salice piangente, coi lunghi rami che scendevano fino a terra, come corde. Alberino fece uscire la sua voce che sembrava vento, e con le sue braccia, formate da due rami nodosi e flessibili, toccò le foglie del salice. L’albero ebbe un fremito, come se una improvvisa folata di vento l’avesse mosso, poi i rami si unirono in un fitto intrico, si intrecciarono e salirono verso Beatrice, formando un comodo sedile pronto ad accoglierla.
“Visto?” disse Alberino. “Sali, dai.”
Beatrice guardò il sedile con meraviglia e si accomodò. I rami la sostennero, poi iniziarono a farla scendere verso terra. Che bello, era come sulle giostre, sui dischi volanti!
Scese lentamente, dolcemente, mentre il suo amico si calava con la liana.
A terra spirava una brezza profumata, in lontananza si sentiva il mare. Passava qualche auto, era caldo e i turisti iniziavano ad arrivare.
“Vieni, Coriandolina, andiamo in pineta”.
Imboccarono il vialetto che attraversava il bosco, coperto di aghi di pino, che scricchiolavano sotto le scarpe. C’era una bella luna piena, che illuminava la pineta di una luce bianca e morbida.
“Ehi, come corri!” protestò Alberino, “non ce faccio a starti dietro, non ho le gambe lunghe come te!”
Beatrice si fermò e guardò l’amico di legno e foglie, con le mani sui fianchi.
“Dai, muoviti, lumacone!” Sembrava un tronco che scivolava sul vialetto, come se avesse le ruote. Rallentò il passo e l’aspettò.
Si avvicinavano al mare. Si sentivano i cavalloni che si frangevano sulla spiaggia. Quel pomeriggio aveva fatto un giro, con papà. C’erano ancora tanti oggetti portati dal mare in burrasca, interi alberi, sedie cadute dalle navi in transito, una vecchia bambola. A Beatrice piaceva la spiaggia non ancora ripulita per l’estate, si trovavano tante sorprese, cose strane, bottiglie che forse contenevano messaggi misteriosi, di qualcuno prigioniero dei pirati, come il papà di Pippi Calzelunghe, che aveva visto in un video.
“Ecco, siamo arrivati” disse Alberino.
Erano in una piccola piazzetta di aghi di pino, all’incrocio di due canali. Alberino roteava la sue braccia nodose, e cantava con la sua voce di vento. Gli alberi si muovevano, anche se l’aria era ferma, e i cespugli fremevano. Si sentiva il gracidare delle rane e, in lontananza, il richiamo del gufo.
Poi Alberino indicò un cespuglio, che sembrò aprirsi formando una piccola grotta. E da qui spuntò una macchia bianca, una cosa morbida, rotonda. Beatrice si abbassò, incuriosita. Sì, era proprio quello che sembrava: un coniglietto bianco, con striature del pelo marrone e nere, dolce, soffice. L’accarezzò. La pelliccia era delicata, piacevole al tatto. Le annusava le mani, i piedi, sembrava cercare il suo calore. Beatrice lo prese in braccio. Era bellissimo.
“Ti presento Enrichetto Coniglietto” disse Alberino. Beatrice lo sfiorò con la guancia, lo baciò. Enrichetto era caldo, e stava immobile, come se, tra le sue braccia, stesse finalmente riposando.
“Si è perduto nella pineta” disse Alberino. “E non è un posto facile, per un piccolo coniglio. Ci sono tanti pericoli, il falco, la civetta, la volpe.”
Tacque per un istante, osservando Beatrice che cullava Enrichetto Coniglietto.
“Lo vuoi prendere con te? Lo vuoi come amico?”
Beatrice lo guardò stupita.
“Io? E come faccio? Mamma e papà hanno detto che per qualche anno non si possono tenere animali. Loro vanno a lavorare e io a scuola, non si può!”
La bocca di muschio si allungò in un sorriso.
“Enrichetto ci sa fare, vedrai. Sa come passare inosservato. Mangia solo una carota al giorno. Ce l’hai una carotina?”
Beatrice pensò al grande frigorifero della cucina, dove c’erano sempre le carote, che mangiava in pinzimonio.
“Sì” disse.
“E allora è fatta, Coriandolina. Ora torniamo a casa, e porta Enrichetto con te. Andrà tutto bene”

La mattina dopo la mamma aprì la finestra, facendo entrare il bel sole di inizio estate.
“Buon giorno, Bea! Hai voglia di andare al mare?”
Beatrice aprì gli occhi e si alzò a sedere sul letto.
“Al mare, sì! Che bello!”
“Viene anche la tua amica Gloria, starà tutto il giorno con noi” disse la mamma.
Beatrice accolse la notizia con entusiasmo. Al mare con Gloria, sui giochi, che meraviglia!
Poi la mamma si avvicinò al letto. Sembrava avere visto qualcosa. Allora Beatrice si ricordò di Enrichetto Coniglietto, che la sera prima si era addormentato accanto a lei, sul cuscino. E ora, come lo avrebbe spiegato alla mamma? Come avrebbe potuto tenerlo con sé? Dove sarebbe andato Enrichetto, che sarebbe stato di lui?
“E questo da dove spunta?” chiese la mamma, avvicinandosi al letto. Beatrice ebbe un tuffo al cuore. Povero Enrichetto, era stato scoperto. Ma l’avrebbe difeso, ce l’avrebbe messa tutta, forse mamma e papà si sarebbero convinti. Solo una carotina al giorno, non era una gran cosa.
La mamma allungò una mano e prese il peluche sul cuscino. Un peluche di quelli belli, un coniglietto bianco, morbido, col pelo striato di marrone e di nero. Lo soppesò, lo accarezzò.
”Non ricordo questo peluche” disse la mamma, osservandolo attentamente. “Quando l’abbiamo comprato? O te l’hanno regalato?” Beatrice, dentro di sé, era sbalordita e rideva, pensando al suo amico Alberino.
“Bea, hai tanti di quei peluche che è impossibile ricordarli tutti” disse la mamma. Poi lo appoggiò sul materasso e le diede un bacio sulla fronte.
“Bene, preparati adesso, fai colazione che tra mezz’ora arriva Gloria.”
Beatrice si stirò, e gridò un “sììì!” pensando alla spiaggia piena di sole, e al tappeto elastico dove lei e l’amica avrebbero saltato tutta la mattina.
Poi guardò il peluche, e fu certa che Enrichetto, adagiato sul materasso, immobile, a pancia in su, le facesse l’occhiolino.

2 commenti:

elisabetta brodieri ha detto...

pensa se fosse davvero così....

Baldrus MC ha detto...

"Davvero" Elisabetta, oppure "ancora", perché forse lo è stato, forse le abbiamo davvero viste queste cose, quando toccava a noi...