venerdì, aprile 28, 2006


Questa notizia che Tarantino starebbe per iniziare le riprese di un film su Jimi Hendrix è per me enormente, quasi insopportabilmente intrigante.

(nella foto: Jimi a Parigi nel 1966)

mercoledì, aprile 26, 2006


Mapplethorpe, la sfida della ricerca

“Quando fotografo, che il soggetto sia un fiore o un cazzo, faccio sempre la stessa cosa. Solo metto a fuoco un soggetto diverso.”
Parola di Robert Mapplethorpe. E’ una sua dichiarazione, un suo appunto di lavoro, e dobbiamo prenderlo sul serio. Eppure, noi che siamo osservatori distaccati, abbiamo il beneficio del dubbio. Le foto di peni maschili non sono affatto “la stessa cosa” di quelle dei fiori. Sono distanti, e rivelano due approcci molto diversi, talvolta opposti.
Ma procediamo con ordine. E’ tornato in circolazione questo grande portfolio di Mapplethorpe (Artificio Skira), che aveva fatto una prima comparsa durante le feste natalizie come lussuoso oggetto-regalo, ed ora è reperibile nelle librerie specializzate che offrono uno spazio particolare alla fotografia e all’immagine. E’ il catalogo di una grande mostra che si è tenuta a Torino, curata da Germano Celant, ed è un libro impegnativo per dimensioni (21 x 32 x 4,5), peso (3,2 Kg), e prezzo (69 euro). Però è una raccolta abbastanza completa – forse la più completa – della sua produzione. La storia di questo grande e controverso fotografo è nota: realizza i primi servizi negli anni Settanta, réportages-shock nei locali macho-gay di New York, e diventa immediatamente una stella del firmamento off newyorkese. Ha una solida e raffinata educazione artistica classica, avendo studiato al Pratt Institute e al Reserve Officiers Trainig Corps. Dopo i primi esperimenti come pittore, creatore di collages, disegnatore di gioielli, si dedica totalmente alla fotografia. La sua attenzione verso la classicità – le sculture degli antichi greci, i quadri di Caravaggio, le opere di Leonardo, di Michelangelo, di Rodin – occupa uno spazio molto importante nella sua ricerca artistica, e rappresenta, forse, il lato B della sua vasta produzione.

(continua a leggere nella Bottega di lettura di Vibrisse)

mercoledì, aprile 19, 2006


1976-2006, trent'anni di punk

Pubblico in contemporanea con Uffenwanken

Possiamo stabilire la data di nascita del punk? Come tendenza forse no, almeno non esattamente: troviamo tracce dei primi gruppi, ancora scarsamente caratterizzati, agli inizi degli anni Settanta, soprattutto in America. Nascono come reazione allo strapotere delle case discografiche che hanno ormai fagocitato tutta la creatività del decennio precedente. Poche case hanno in mano tutto: la produzione, la distribuzione, persino la fabbricazione dei supporti in vinile. Tutto è sotto controllo, tutto è pianificato: gli accessi alle radio, alle riviste, e chi vuole suonare deve adeguarsi, o tacere.

Continua a leggere in [Uffenwanken]

martedì, aprile 18, 2006


Il lavoro fa male (mobbing 2)
Pubblico in contemporanea con Nazione Indiana
Il capitolo precedente di questo racconto è negli archivi del 25 giugno 2005.

Ho il camion rotto, stamattina non è partito. Il Carnivoro, dopo avere sbraitato “te Trapattoni, tutte le mattine ci hai un casino!” ha consultato il foglietto dei viaggi, ha scosso il testone e ha detto: “non ho neanche un camion libero. Va’ in cantiere a dare una mano”.
Gli autisti-cortigiani hanno ridacchiato. In cantiere a dare una mano: è lo spauracchio di tutti i camionisti. E’ dura, negli scavi. Si sgobba, ci si cuoce al sole, ci si congela nella nebbia invernale. E poi si è gli ultimi degli ultimi, senza uno straccio di prospettiva. I capicantiere, che non spostano un chiodo, si prendono tutto il merito e soprattutto intascano il premio di produzione. In cantiere si è pagati poco, non si avanza nella carriera, a meno di non fare parte di una delle mafie vincenti. Piuttosto che dare una qualifica a un operaio fuori dalle mafie i vertici della cooperativa lo lasciano morire d’inedia nello scavo. E questo vale anche per gli autisti e per gli operatori di ruspe, pale, scavatori. Il capobastone è Il Carnivoro in persona: o si è nelle sue grazie o si è destinati a sopravvivere in uno stato di inferiorità, senza mai avanzare di qualifica, fino alla pensione.
Salgo sul pulmino di una delle squadre in partenza. Sono tutti ferraresi e rovigotti, come la maggior parte degli operai del resto. Il capocantiere è Il Ranocchio, soprannome attribuito dal Carnivoro ovviamente, ma gli operai l’hanno cambiato in Il Rospo. Non so perché: non ha un volto rospesco, assomiglia piuttosto a una scimmia. Ma Il Carnivoro ha una visione tutta sua della fisiognomica, e nessuno si sognerebbe di metterla in discussione.
Il cantiere è a Mezzalega, un misto edilizia-infrastrutture. Per la verità la parte edile, la costruzione di un grande capannone industriale, è quasi terminata, ed ora si stanno completando gli impianti: gli allacciamenti, le canalizzazioni, i pozzetti.
Vengo assegnato allo scavo dell’Enel. Devo stare di fronte alla benna dello scavatore e controllare che non vi siano cavi o tubi che si potrebbero tranciare. Nessuno conosce esattamente i tracciati preesistenti dei fili della luce, o dei tubi del gas. Si procede a tentoni, e non appena c’è qualcosa di sospetto, un blocco di calcestruzzo per esempio, il manovale dello scavo, cioè io, va a controllare col badile o col piccone.
Dopo mezz’ora arriva il camion che deve caricare la terra che lo scavatore asporta durante lo scavo. E’ quel pellagroso dell’Ortolano. Si piazza di fianco al tracciato, sulla destra, a portata del braccio della macchina. Quello sfigato però non spegne il camion, e siccome la marmitta è a sinistra mi scarica in faccia i gas di scarico.
Cerco di attirare la sua attenzione, urlo “o’ scemo, spegni quel camion!” ma L’Ortolano, che si è subito stravaccato con la musica a tutto volume, non sente, o fa finta di non sentire. “Spegni il camion!” urlo di nuovo, sbracciandomi. Niente. Fa il sordo e il cieco. Mi avvicino alla cabina, caccio un pugno sulla portiera. L’Ortolano mi guarda coi suoi occhi piccoli, acuminati. Abbassa il vetro elettrico. “O’ Trapattoni che cazzo fai? Sei fuso?”.
“Sei fuso tu” grido, per farmi sentire nel frastuono dello scavatore, del camion e della musica di Gigi D’Alessio che esce dall’impianto stereo. “Spegni quel camion, ho la marmitta praticamente in bocca!” L’Ortolano sghignazza. “Urca, come sei delicato Trapattoni. Che cazzo spengo, lo scavo è piccolo, non vedi che mi devo fare avanti ogni minuto? Cosa vuoi, che abbia solo il da fare di accendere e spegnere perché te sei delicato?”
“Fai come cazzo ti pare! Io non posso respirarmi i gas della tua marmitta fino a sera!”
L’Ortolano ghigna, dice “Trapattoni, io dico che te sei troppo delicato per fare questo lavoro” e tira su il finestrino.
Sono schiumante di rabbia. Prendo una pietra, se non spegne il camion gliela scaglierò contro la cabina. E chi se ne frega se spaccherò il vetro. In quel momento arriva Il Rospo, che grida “ma che cazzo succede, perché lo scavo è fermo?”
Indico il camion con la mano che stringe la pietra. “Quell’asino dell’Ortolano non spegne il camion, guarda un po’ dov’è la marmitta!”
Il Rospo guarda il camion, lo scavo, guarda me. Non è un tipo bilioso Il Rospo, non perde mai la calma. Procede in silenzio, tiene un profilo basso. Ma intanto fa correre gli operai come matti, gli aspira il sangue, il midollo. Forse è per questo che Il Carnivoro l’ha chiamato Ranocchio? Si rivolge all’Ortolano, dice “e spegni quel camion, va là”. L’Ortolano tira giù i piedi dal cruscotto, abbassa il vetro e scaglia la cicca di sigaretta nello scavo. “Come faccio” dice, “devo avanzare ogni minuto. Cosa accendo e spengo per la bella faccia di questo qui?”. Il Rospo sbuffa, allarga le braccia. “O’ Trap, non puoi sopportare? Vedi pure che si deve spostare di continuo”.
Lascio cadere la pietra a terra. La rabbia mi è passata ma sono deciso a risolvere questa storia. Mi bruciano gli occhi e la gola con lo scarico del camion. “Perché non provi a scendere qui dentro?” dico. “Ho la marmitta in bocca, non vedi?”.
Il Rospo continua a lanciare occhiate allo scavo, al camion, fa la faccia lunga. Si gratta il mento, borbotta tra sé. Probabilmente sta imprecando a bassa voce. “O’ sentite, voi due, cercate una soluzione perché lo scavo non può fermarsi”.
Una soluzione. L’unica possibile è che L’Ortolano spenga il motore, ma non lo farà mai. E non avrà problemi con nessuno. E’ il superfavorito del Carnivoro, è un intoccabile, può fare quello che vuole.
“Senti un po’” dico, “non si può respirare questa roba, lo capisci? Se quello scemo non spegne vengo fuori dallo scavo. Poi fai quel cazzo che ti pare”.
Il Rospo guarda di nuovo lo scavo, guarda il camion, borbotta. Lo sento che bestemmia, che dice “te Trapattoni se non spacchi le palle non sei contento”. Poi lancia occhiate in varie direzioni e dice, rivolto all’Ortolano: “allora mettiti di là, sulla sinistra. Così la marmitta spara dall’altra parte”.
L’Ortolano sembra riflettere intensamente su quella proposta, poi sospira, guarda in alto e dice “vacca troia, te Trapattoni devi andare in montagna, a fare le passeggiate, mica qua in cantiere.” Si ricompone con lentezza esasperante, ingrana la marcia e fa il giro dello scavo, piazzandosi alla mia sinistra. Così va meglio. Sento ancora la puzza della marmitta, ma almeno è dalla parte opposta. E’ tutto quello che posso ottenere. O così o me ne vado a casa.

Lavoriamo allo scavo tutta la mattina, poi andiamo a mangiare in una piccola mensa e all’una si riprende. Lo scavo si è fermato, lo scavatore deve spostare dei tubi di cemento, che è un lavoro che probabilmente avrei fatto io con la gru, se il mio camion non fosse in officina. Il Rospo mi manda dentro al capannone, a “dare una mano ai pavimentisti”, dice.
Qui la situazione è peggiore, molto peggiore. Stanno realizzando un pavimento speciale, che si crea in opera con un cemento mescolato con una sostanza a base di cristalli di quarzo; viene steso da due operai col badile e tirato a livello con la staggia. E’ un lavoro delicato, perché l’impasto, che viene preparato da un operaio che ha come unico compito quello di aprire i sacchi per rovesciarne il contenuto in una betoniera, deve avere una consistenza perfetta, altrimenti si formano dei grumi che rendono difficoltoso il tiraggio.
Il problema è la polvere: il materiale a base di quarzo è finissimo, e si spande nell’aria come un aerosol. Sembra che nel capannone sia scesa la nebbia.
Sento una contrazione allo stomaco. Non posso stare tre ore qui dentro, in questa polvere assurda. Nessuno ha la mascherina, nessuno si pone il problema. Gli altri la respirano tutto il giorno senza fiatare.
Io, sempre io. Io devo protestare. Da solo.
Vado dal Rospo. Mi sembra di non avere più forze, di essere svuotato, rassegnato. Eppure non posso respirare quella roba tutto il pomeriggio. Questa è l’unica certezza.
“Che cazzo fai qui Trapattoni?” dice Il Rospo, sorpreso di vedermi fuori dal capannone.
Inspiro una boccata d’aria. “Senti, là dentro è impossibile stare senza una mascherina. Il quarzo fa una polvere pazzesca”.
“Cosa?” Esclama Il Rospo, guardando verso il capannone con le sopracciglia aggrottate.
“Sì” dico. “quella roba si spande nell’aria, c’è da prendersi la silicosi là dentro. Tra l’altro nessuno ha la mascherina, mi sembra una cosa assurda”.
“Che? La silicosi? Ma che cazz... Porco cane, Trapattoni, ma come fai te a creare dei problemi tutti i minuti? Ma ti rendi conto?”
“Senti, ci vuole la mascherina. Non è possibile una cosa così, devi capirlo. Va’ dentro a vedere”.
Il Rospo sbarra gli occhi, si altera leggermente, il che è un fatto abbastanza singolare considerando i suoi modi da anfibio. “E dove me la prendo una mascherina adesso? Ma lo sai cosa stai dicendo Trapattoni?”
“Sì che lo so. E ti dico anche: ma come si fa a non avere le mascherine in cantiere?”
“Come si fa?” sbotta. “Sai quante cose mancano qua dentro, attrezzi, macchine? Ascolta, Trapatttoni” dice, calmandosi di colpo, abbassando lo sguardo a terra. “Quello è un pavimento ad alta resistenza. I pavimentisti mi hanno chiesto due omacci per preparare la roba, perché da soli non ce la fanno. Sono trenta centimentri di spessore, capisci? E devono finire entro stasera, perché domani cambiano cantiere. Se non finiscono come facciamo? Siamo nella merda, siamo!”
In quel momento una voce nasale, inconfondibile, arriva dalle nostre spalle. E’ lui, il Presidente della coop in persona, detto Johnny Profumo, perché dicono che abbia il vezzo di deodorarsi ogni mattina e si lascia dietro la scia. Non l’ho mai visto di persona, ma solo in fotografia, e in televisione, mentre stringeva la mano a Massimo d’Alema durante un convegno su “L’etica del lavoro: i valori della cooperazione”. “Che cosa succede qua?” dice. Fa un passo verso di noi coi piedini che calzano un paio di scarpette con la frangia, muove con grazia la manine femminili che reggono una cartella di pelle. “Va tutto bede?” dice.
Il Rospo guarda a terra, sbuffa. Sta pensando come introdurre il problema, cioè io. Lo precedo, ormai sono lanciato. “Il fatto è, Presidente, che c’è da lavorare dentro al capannone senza mascherina, e c’è una polvere di quarzo incredibile”.
Johnny Profumo strabuzza gli occhi dietro gli occhiali di tartaruga e guarda il capannone. “Ah. E perché sedza bascherida?” dice. Il Presidente è famoso anche per le sue adenoidi: sono così grandi che gli impediscono persino di respirare.
Il Rospo si gratta la testa. “Non ne abbiamo” dice, “giovedì Roberto in magazzino era senza”. Probabilmente è una balla. E’ impossibile che il magazziniere, uno dei pochi personaggi normali qua dentro, fosse senza maschere.
“Oh” dice Johhny Profumo. Si è avvicinato ancora, adesso sento l’olezzo di acqua di colonia. “E dod si può risolvere id qualche bodo?”
Il Rospo allarga le braccia. “E come, Presidente? Sai che problemi abbiamo qua. I pavimentisti hanno bisogno di due omacci, io gliene ho dato uno. Stasera devono cambiare cantiere, e se non finiscono il pavimento siamo nella merdaccia. E siamo già in ritardo sui tempi lo sai anche te”.
Johnny Profumo ondeggia. Voglio prevenire la sua richiesta, ovvia, di sopportare fino a sera per cause di forza maggiore. Le sue cause, e del Rospo, non le mie. Ci sono io nella merda, non loro. “Sì, ma è impossibile lavorare là dentro senza una mascherina” dico. “Presidente, va’ a vedere. Tra l’altro anche quelli là non dovrebbero...”.
Il Rospo sbotta, mi interrompe. “Ma cosa vuoi Trapattoni, quelli sono artigiani, sono cazzi loro”. Non è così. Lui è il responsabile del cantiere, lui deve obbligare chi ci lavora a usare i sistemi di sicurezza.
Johnny Profumo intanto strabuzza gli occhi, lancia occhiate verso il capannone che non so definire se di puro terrore o di assoluta ferocia. “Questo ragazzo ha ragiode” dice. Tira fuori dalla cartella un cellulare e compone un numero. “Sodo io, Bercalli” dice. “Badda subito, ba subito, delle bascheride qua a Bezzalega... cosa?... Dod b’idteressa se dod c’è uda bacchida, ho detto subito!” Fa una pausa, dice una serie di “sì” e “do”, poi si arrabbia, dice “dod b’idteressa! Preddi la tua bacchida e viedi qua subito!” Poi chiude il telefonino e lo rimette nella cartella. “Tutto a posto” dice, ma non vi è traccia di sollievo nella sua voce: gli occhi continuano a roteare dietro le lenti, e la faccia è una maschera di pietra. “Staddo arrivaddo le bascheride”.
Il Rospo allarga di nuovo le braccia, sospira. “Bene” dice. “Allora Trapattoni, intanto che arrivano... vedi quei sacchi di plastica?” indica un cumulo di sacchi vuoti, quelli che proteggono i bancali di cemento. “Va’ là e bruciali”. Bruciare la plastica. Altra porcheria. Fa un fumo pestilenziale, e libera nell’aria delle sostanze cancerogene. Ma non ho più energia per contestare anche questo incarico. Sarebbe davvero la rottura definitiva, tanto varrebbe piantare tutto e andarmene a casa. Prenderò tempo. Fingerò di radunarli, di accatastarli finché non arrivano le mascherine.

Alla sera arrivo a casa alle sette. Ho fatto due ore di straordinario, per aiutare gli artigiani albanesi, che sono ancora in cantiere, a tentare di finire il lavoro. Ho detto loro di mettere le mascherine, ma non mi hanno neanche risposto. E’ gente taciturna, dura, che lavora senza un attimo di pausa per dieci, dodici ore di fila, compresi il sabato e la domenica.
Mia moglie è in piedi nel minuscolo soggiorno con un foglio in mano. Continua a leggere mentre mi tolgo gli scarponi e la tuta, che lascio cadere sul pavimento. Poi me lo porge. E’ un telegramma della cooperativa. All’inizio non riesco a capire il contenuto, devo rileggerlo “siamo spiacenti di comunicarle che il suo periodo di prova non ha avuto esito positivo. Non è quindi possibile riconfermare la sua assunzione a tempo indeterminato. Può passare dal nostro ufficio personale ecc.”
Rimango col foglio in mano, senza parole e senza fiato. Ma che significa? Che mi hanno buttato fuori? Ma com’è possibile? Il mio periodo di prova non è ancora concluso, mancano ancora due mesi. Quindi mi hanno cacciato prima del tempo. Ma come ha potuto Johnny Profumo, in così poco tempo, non più di due ore... Sono incredulo, in stato confusionale. Devo sedermi sul divano, per non perdere l’equilibro.
“E’ meglio così” dice mia moglie. “Sono contenta. Avresti dovuto farlo prima”.
“Cosa?” dico, quando riesco a riprendermi, e a capire il significato delle sue parole. “Ma... ma... è un grosso guaio invece. Cosa faremo adesso?”
“Qualcosa faremo. Ma è meglio. Tornavi sempre nervoso, la notte dormivi male, ti lamentavi. Portavi a casa del negativo, della sofferenza. E’ una benedizione del cielo”.
Già. Una benedizione. E’ accaduto ciò che non avevo il coraggio di fare accadere. Adesso sono di nuovo in strada, di nuovo senza lavoro. Accartoccio il foglio, lo lancio nel cestino vicino al lavello della cucina. “Non abbiamo un quattrino” dico, con voce grave. Un caos di sentimenti contrastanti si agita in me. Sollievo, paura, rabbia, incredulità. Di nuovo in strada...
“Ce la faremo. Tra un po’ mi metterò anch’io a cercare”.
“Tu?” dico. “Tu devi badare a lei”. In quel momento mia figlia si sveglia. La sollevo dalla culla, la prendo in braccio. Mi molla un pugno sul naso.
“Io sono contenta. Chiederemo dei soldi ai genitori, per un po’. Ma è una liberazione. Se non fosse arrivato il telegramma ti avrei chiesto io di licenziarti”.
La piccola si mette a piangere, protende le braccine verso sua madre. Probabilmente vuole mangiare. Gliela passo. Mi stendo sul divano, fisso un punto del soffitto. E’ una liberazione ha detto mia moglie. E’ vero. Non dovrò più vedere Il Carnivoro ogni mattina e ogni sera, né gli autisti cortigiani, né quei capicantiere... Intanto potrei andare al sindacato e denunciarli per mobbing... macché. Il delegato sindacale è uno dei più schifosi imboscati di tutta la mafia là dentro, non mi appoggerebbe mai.
E poi, chi se ne frega?
La cooperativa stradini e muratori è il passato adesso. E’ la Tenebra, il Buio, ed è alle mie spalle.

(foto di August Sander: carbonaio berlinese, 1929)

sabato, aprile 15, 2006


Un viaggio nel buio e nel silenzio

[Questo pezzo è uscito su vibrisse il 12 aprile, e ripubblicato da La Sesia, giornale della provincia di Vercelli.]

In questo periodo riceviamo richieste – per strada, per posta – di contributi da parte di varie organizzazioni onlus, quasi tutte valide: l’associazione per la ricerca sul cancro, sulle leucemie, Emergency, Medici Senza Frontiere, Lega Antivivisezione ecc. Questo pressing è un indice di gravi difficoltà sociali, di bisogni, di piccole e grandi tragedie. Ovviamente non possiamo rispondere a tutti, ognuno contribuisce, se vuole, secondo la propria sensibilità.Vorrei parlare di una di queste organizzazioni, perché sono stato coinvolto in prima persona nella sua attività.Qualche tempo fa fui inviato a Osimo (An) per realizzare un servizio fotografico sulla Lega del Filo d’Oro, l’associazione che segue le persone – soprattutto i bambini e i ragazzini – sordociechi. E’ questa una delle menomazioni più pesanti: la sordità e la cecità comportano un isolamento sensoriale quasi assoluto; si è altrove, rinchiusi in uno spazio buio, senza suoni né luce. Anche la propria voce è altrove, aspirata via dalla gola, dalla bocca, perché è un suono generato dal proprio corpo che le orecchie non sentono.
Appena entrai fui colpito da alcune grida che provenivano dal corridoio. Un ragazzo era steso sul pavimento e urlava in maniera scomposta, disarticolata. Era una voce diversa da tutte le voci che avevo sentito prima di allora. Non sembrava umana, e neanche animale. Era una voce aliena. Aveva sonorità, intonazioni che non riuscivo a decodificare coi miei mezzi di uomo “normale”. Un operatore, calmo, per nulla turbato da quella scena che mi aveva colpito nello stomaco, lo aiutò ad alzarsi e lo accompagnò in una delle stanze dove altri ragazzi e ragazze soggiornavano, alcuni seduti, altri che si dondolavano ritmicamente, oppure gridavano, gemevano, si alzavano e si sedevano. Molto evidente era la ricerca del tatto: toccare oggetti, che abbondavano nelle aule, toccarsi le facce a vicenda, le facce degli educatori, le mani, i vestiti. Ogni tanto i ragazzi, a turno, venivano accompagnati in cortile, per brevi passeggiate.
Quando iniziai a scattare foto il responsabile del centro mi chiese di non usare il flash. Quella richiesta mi stupì. Perché? Chiesi. Perché i ragazzi vedevano – o meglio, intuivano – i lampi di luce violenta, e questo li eccitava. Loro non vedono la luce, disse, non la vedranno mai; e questi lampi suscitano in loro aspettative che non potranno mai essere soddisfatte. Quei colpi di luce, della durata di una frazione di secondo, incrinavano un equilibrio già precario, ottenuto al prezzo di un lungo e paziente lavoro. In effetti quando il flash lampeggiava alzavano di colpo la testa, sembravano guardare un punto lontano; quegli occhi fissi, vitrei, si accendevano di una luce improvvisa, di brevissima durata, e allora si alzavano, brancolavano nella mia direzione. Erano come creature che tentavano di uscire da un mondo lontanissimo, ignoto, per entrare nel nostro, per pochissimi secondi. Così conclusi il servizio a luce naturale, sempre incerto, sempre un po’ a disagio, perché anche se loro non potevano vedermi, né sentirmi, avevo la netta sensazione che sapessero di me.


La Lega del Filo D’oro ha sede a Osimo (An) in Via Montecerno 1. Il conto corrente postale è il n. 358606.

sabato, aprile 01, 2006


Un film, un libro

Il Caimano è un film comico sulla sofferenza, sul peso e le difficoltà dell’esistenza. Non è su o contro Berlusconi, è anche su e contro Berlusconi. E’ fatto di battute atroci, di citazioni di B-movie (addirittura con una smorfia splatter), ed è forse il meno morettiano dei film di Nanni Moretti. La storia è nota, perché ha avuto molto spazio sui giornali: un produttore di film-trash, interpretato da Silvio Orlando si arrabatta per trovare finanziamenti, è perseguitato dalla banca che reclama l’estinzione di un debito, ha la famiglia in crisi perché si sta separando dalla moglie (la sempre brava Margherita Buy), annaspa per non affondare nella palude in cui si trova a condurre la sua esistenza. Durante la prima del suo film Cataratte una giovane regista esordiente (che ha il bel viso di Jasmine Trinca) gli consegna un copione. Sulla copertina il titolo Il Caimano attira la sua attenzione, e quando la situazione precipita, il regista (che è interpretato da un vero regista, Giuliano Montaldo) lo abbandona, e sta per fallire definitivamente, decide di leggerlo. Tutto il film racconta gli sforzi per realizzare il film nel film, e ricostruisce spezzoni dell’avventura grottesca, minacciosa di Berlusconi: il suo entrare in politica per risolvere il mostruoso debito di 5.000 miliardi delle sue aziende, l’esplosione della televisione commerciale, il tutto intercalato da registrazioni del vero Berlusconi: a Bruxelles, quando insulta il parlamentare tedesco dandogli del kapò, le deposizioni al processo di Milano, alcune dichiarazioni agghiaccianti. Michele Placido, che nel film è un famoso attore semipornografo che deve interpretare Il Caimano, dà forfait all’ultimo minuto (per fortuna, perché nessun attore sarebbe meno indicato di lui per questa parte), così alla fine sarà Nanni Moretti in persona a indossare il doppiopetto berlusconiano-caimanesco. Questo particolare ha fatto infuriare gli antimorettiani, che ci hanno visto l’ennesima autocitazione, l’impulso narcisista.autodistruttivo che caratterizza la maggior parte dei suoi film. Il fatto è che si è morettiani o antimorettiani, è difficile trovare una via di mezzo con uno stile così particolare, così rischioso come quello di Nanni Moretti. A me lui è sembrato splendido nella parte: nei primi piani si sprigiona come una follia, una minaccia, che sono la follia del nostro presente e la minaccia di un futuro vicinissimo e incerto.
All’uscita del cinema, all’una di notte, un particolare altrettanto grottesco chiudeva il cerchio: un drappello di ragazzi distribuiva volantini elettorali di Berlusconi. Vi era qualcosa di comico, ma anche di leggermene spaventoso in tutto questo. E mentre camminavamo verso l’auto il mio amico ed eravamo oppressi da un’angoscia che ci piegava le spalle. Perché ci chiedevamo: Dio, ma se vincono? Se vincono di nuovo?

Il ritorno a casa di Enrico Metz, l’ultimo libro dello scrittore umbro-marchigiano Claudio Piersanti (Feltrinelli 2006, 15 euro), è un libro garbato sul tempo, sulla vecchiaia; è scritto con uno stile semplice, quasi dimesso, da miniaturista, in controtendenza rispetto alle pimpanti scritture dei best-sellers nostrani. Narra la vicenda di un grande dirigente industriale, un avvocato che ha seguito fino alla sua conclusione un colossale crack finanziario e si ritira progressivamente dalle scene internazionali per rientrare nella sua città d’origine (che è, inequivocabilmente, Bologna). Qui, mentre il tempo si dilata, rallenta, e i contorni della vita sociale e mondana si sfocano, entra in contatto con la palude politico-economica della città: personaggi potenti e ambigui vogliono coinvolgerlo, e non sarà facile smarcarsi, trovare una dimensione di secondo piano, un equilibrio fatto di passeggiate, piccoli incarichi di avvocato, giardinaggio, amicizie. Emerge, forte e autorevole, la figura dell’ing. Marani, l’unico capitalista italiano che ha lanciato una sfida ai poteri forti dell’economia e della politica, e per questo è caduto, trascinato dal crack. Noi lo identifichiamo senza ombra di dubbio con Raoul Gardini, il grande finanziere che minacciò addirittura di utilizzare i derivati della soia per produrre un additivo per la benzina, scatenando l’ira omicida dei petrolieri. La notizia del suo suicidio fa precipitare Enrico Metz in una crisi psicologica, perché traspare, evidente, l’ammirazione che lo stesso autore del libro prova per lui. E il racconto, nella sua parte centrale, prende una piega alcolica: Enrico Metz beve di continuo, gin, vino, birra. Vi è qualcosa di carveriano in quel ripetersi ossessivo del bere, in quello stile cosiddetto minimalista; ma la rarefazione del tempo, e il restringersi dello spazio nella villetta di famiglia, con un bel parco e un lussureggiante giardino che Enrico Metz segue con cura maniacale, impedisce di affondare nello straniamento e nella tristezza che, sempre, traspira dalle scritture alcoliche. Vi è anche qualche forzatura: come la segretaria tuttofare che si rivolge all’avvocato col “lei” mentre lui usa il “tu”, e lo cura davvero fino in fondo, anche con qualche fellatio tanto per tirargli su il morale quando alza troppo il gomito e si lascia andare alla depressione. Ma non è un difetto in fondo, non è una visione maschilista: forse è semplicemente un libro scritto con un’ottica e uno stile molto, molto maschili.