giovedì, giugno 30, 2005

Il gusto proibizionista della vendetta

Inorridisco, e con me molti amici e conoscenti della mia generazione, di fronte alla violenta disinformazione – non so quanto voluta, pianificata, o derivante da semplice ignoranza – che i media stanno scatenando sulle droghe. E’ sparita ogni differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti (l’alcool, che causa più morti dell’eroina, viene ovviamente ignorato), e dilaga l’equazione Fini, con la sua legge di tipo fascista (mancano le pene corporali per chi sgarra, ma forse è solo questione di tempo), che ha radici lontane, viene dagli anni Ottanta, quando in Italia fu varata una assurda legge proibizionista dal governo Craxi (quanti esponenti dell’ex PSI, festaioli e rampanti, ho visto fumare erba!). Ora c’è questa nuova legge, vergognosa, indegna di un paese che si vanta civile, che ha come unico effetto quello di arricchire le comunità private che devono prendere "in cura" il giovane sorpreso a fumare spinelli. Ma forse era proprio questo l’obiettivo: si dice infatti che l’ispiratore della legge sia stato il figlio di Muccioli, uno dei crociati del proibizionismo più estremo, nella cui comunità, è bene ricordarlo, fu trovato un ragazzo morto per le percosse ricevute in circostanze mai chiarite.
Questa legge, e l’annessa propaganda di regime, è certamente gratificante per il senso comune della "gente" che non riesce – o non vuole – capire razionalmente che le leggi proibizioniste non hanno alcuna efficacia contro le droghe (pesanti) ma, al contrario, fanno prosperare lo spaccio clandestino, la mafia, e contribuiscono alla diffusione di droga "sporca", tagliata, che provoca overdose e malattie. Il proibizionismo porta Il Male, perché ammanta di fascino perverso le sostanze proibite, stimola il consumo, impedisce la nascita di una consapevolezza, di una coscienza della differenza, della moderazione dell’uso, e rende purtroppo inevitabile il passaggio dallo spinello alla "pera" o alle pasticche, poiché tutte le droghe sono uguali. Il proibizionismo – generato dall’ignoranza e dalla confusione - danneggia i giovani, inquina la loro crescita mentale, il loro progresso; ma ai crociati, agli statisti, ai bigotti, non interessano i progressi dei giovani, e i pericoli che li minacciano. Ciò che interessa loro è lanciare grida isteriche e allarmiste per nutrire le paure e le morbosità popolari, così possono prosperare e ingrassare.
Forse non ci hanno mai perdonato di avere usato "il fumo" come strumento di socialità e di libertà, ai nostri tempi, negli anni ’70. E si stanno ancora vendicando perché, è noto, la vendetta è un piatto che va consumato freddo.

lunedì, giugno 27, 2005

Perché?

L’altro giorno su La Repubblica Michele Serra notava che i telegiornali italiani grondano sangue e crimine più di qualsiasi racconto noir o film splatter. Proviamo ad abbassare l’audio, scriveva, e guardiamo scorrere le immagini di vari telegiornali europei: quando vediamo i morti ammazzati, le pozze di sangue, i primi piani di persone colpite da una tragedia, non abbiamo dubbi: è uno dei nostri. Ha ragione ovviamente: i telegiornali italiani dovrebbero essere vietati ai bambini, perché è malsano che un bambino debba continuamente sentire notizie di padri che buttano i figli dalla finestra, di madri che li soffocano, di figli che massacrano i genitori; e gli stupri, le rapine (meglio se col morto), gli incidenti stradali (preferibilmente con strage), il terrorismo; proprio oggi la conduttrice del TG1 ha detto che una neonata era stata abbandonata in campagna in procinto di essere “sbranata” dai cani randagi. Tutto viene enfatizzato, portato su toni isterici di allarme, di emergenza estrema.
Ora mi chiedo: perché? E’ il nostro popolo che adora la rappresentazione della violenza? Io credo che in parte sia vero: talvolta sento commentare queste notizie nei bar, e poi i telegiornali, credo, corrispondono a un gusto popolare, perché sono finiti per sempre i tempi in cui la “cultura” doveva orientare il popolo verso il progresso. Adesso il popolo va accontentato nei suoi istinti più bassi. Allora perché siamo fatti così? Noi, il popolo che è considerato tra i più pacifici del mondo?
Deve esserci qualche altro motivo ovviamente: enfatizzare, puntare all’isteria ha certamente lo scopo di “scuotere” la soglia di attenzione che si abbassa, è un’arma contro la distrazione. Ma ancora una volta torniamo a una certa cultura popolare degenerata, a una pigrizia mentale che non si scuote se non di fronte a una vicenda crudele.
Alla domanda “perché”? io, lo ammetto, non so dare risposta.

P.S. E’ arrivata l’estate, più splatter che mai. Col caldo sembrano aumentare, chissà perché, gli impegni e i grattacapi. Quindi l’aggiornamento di questo sito potrà subire qualche rallentamento. Anzi, diciamola tutta: lo sta già subendo.

martedì, giugno 21, 2005

Sogni, responsabilità

Quando ero ragazzo seguivo la musica psichedelica, i Jefferson Airplane, Jimi Hendrix, leggevo i romanzi di Kerouac e i poemi di Allen Ginsberg, mi perdevo nel sogno americano di spazi aperti, libertà. Si sognava molto a quei tempi, e si lottava, ognuno nel suo piccolo, per realizzare i propri sogni. Le forze politiche erano in parte coinvolte da questi ideali e le loro linee d’azione erano orientate in questa direzione. Ecco quindi che le sinistre ragionavano sul progresso, sullo sviluppo, sul socialismo e sul capitalismo, sull’ambiente e sulla cultura.
E’ passato un sacco di tempo. I sogni non si sono realizzati, come spesso accade, e molti nodi sono venuti al pettine. Il rastrellamento selvaggio delle risorse ha prodotto un grave depauperamento del pianeta, e le differenze abissali tra paesi ricchi e paesi poveri continuano a produrre guerre, terrorismo, immigrazione clandestina.
Le forze politiche di sinistra hanno perso la forma partito, che garantiva il rapporto referenziale coi propri elettori, ne guidava gli orientamenti e al tempo stesso ne era l’espressione. Ora il mezzo di comunicazione principale è la televisione, e il linguaggio, l’azione stessa sono finalizzati alla spettacolarizzazione televisiva.
In Italia il dibattito politico della sinistra è quasi unicamente indirizzato verso quali forme associative assumere, quali liste creare per presentarsi alle elezioni, quali alleanze, quali leaders.
I sogni psichedelici di allargare le coscienze per cercare un futuro migliore sono quindi svaniti nel nulla, sono finiti negli scavi dei cantieri delle nuove autostrade, delle nuove industrie, nella polvere degli esplosivi dei nuovi terroristi. E’ dura ammetterlo, eppure è così.
Mia figlia, che si sta avvicinando all’età che avevo io quando ascoltavo i Jefferson Airplane e leggevo Kerouac, non avrà quei sogni. Probabilmente non saprà mai della loro esistenza, oppure, se lo saprà, non andrà oltre a una conoscenza superficiale determinata da mode e revivals. Mia figlia non ascolta Jimi Hendrix, ma i gruppi dei suoi tempi, i cui cantanti, sempre biondi, atletici e fotogenici, sono appesi sotto forma di poster nella sua stanza. Anch’io nella mia stanza avevo dei poster, di Bob Dylan, di Frank Zappa, di Jimi. Non andrà a Woodstoock, né all’Isola di Wight, ma è già andata a un concerto di Anastacia, e i raduni come quelli che ho citato sono sempre sponsorizzati da marche di birra e di gelati e sono dei grandi, interminabili Festivalbar.
Così va il mondo. Mia figlia va in parrocchia. A quei tempi, quando Grace Slick durante un concerto rispondeva a uno spettatore che le intimava di togliersi le mutande perché così voleva il libero amore alzandosi la gonna per far vedere che lei le mutande proprio non le portava, a quei tempi la parrocchia era considerata un luogo di oscurantismo, di orizzonti limitati, di assurdi divieti, di vergogna per il proprio corpo. Per noi era un luogo triste, un luogo per sfigati incapaci di affrontare il mondo.
Ma ora non esistono più i concerti di Grace Slick. E la parrocchia dove va mia figlia è retta da un parrocone che gioca a pallavolo coi ragazzi, che alla messa li fa cantare e ballare, e non ha neanche una chiesa, ma un semplice tendone verde dove ballano, giocano, cantano. Mia figlia non vede l’ora di andarci, il venerdi sera dice "non vedo l’ora che venga lunedi".
Forse è un peccato che non vi siano più i concerti dei Jefferson Airplane, o forse no. E’ inevitabile, è nella storia. Io comunque sono contento che mia figlia vada in quella parrocchia. Mi sembra che i ragazzi stiano bene, che coltivino dei sentimenti buoni. Di papa Ratzinger, dei suoi proclami contro le libertà anarchiche, dello sfarzo della sua Chiesa, e del cardinale Ruini, della sua politica attiva, non m’importa un accidente. Se dovessero prosperare col mio credito cambierebbero mestiere. Però m’importa del parrocone che gioca a pallavolo coi ragazzi e li fa cantare. Non cantano We shall over comeWhite Rabbit, non gridano "giù le mani da Cuba" né "pace in Vietnam", ma ballano al ritmo di canzoni che parlano di Maria, e addirittura degli ultimi successi di Top of the pops. Ma si divertono un sacco.
E’ andata così. Forse così doveva andare. Nella desertificazione della vita, dei sogni, delle speranze, restano questi piccoli, preziosi spazi verdi. E proprio a noi, noi che conosciamo il valore dei sogni, tocca il singolare compito di difenderli.

sabato, giugno 18, 2005

Chi? Cosa?

Dunque ce l’hanno fatta. Dopo una lunga, lacerante discussione che ha minacciato di sbriciolare la coalizione il Centro Sinistra ha deciso: si faranno le primarie. Se ne era già discusso per mesi e mesi, facciamole, ma no, non facciamole, ma sì, ma no; Bertinotti si presenta, ma no, non si presenti, e invece sì. Adesso sembra che si presenti, salvo altre polemiche e feroci discussioni e accuse reciproche; così si deciderà, finalmente, chi, CHI guiderà la coalizione. Vi sembra cosa da poco?
Il Centro Sinistra ha terminato da poco un’altra devastante discussione, durata un paio d’anni, per decidere il nome. Vi sono stati litigi furibondi, minacce, infine si è trovato un nome che ha messo tutti d’accordo. Quale nome? L’Ulivo? La Fed? Io non l’ho capito. Ricomincerà il can-can?
Comunque, dopo tre anni di foto sui giornali e interviste televisive il Centro Sinistra si presenterà alle elezioni con un nome e un leader. Ammesso che ci si arrivi, perché la discussione potrebbe protrarsi all’infinito, non avere mai una conclusione e alle elezioni si arriverebbe in piena polemica interna.
Ma pensiamo positivo: ci sarà la convention democratica e si deciderà CHI sarà il leader.
Well, allora qualcuno, io per esempio, pensa: per fare COSA?
Qui non ci sono discussioni. E’ un argomento, quello del programma, che viene toccato di sfuggita, in termini ultragenerici, o non viene toccato affatto. Poiché tutto è in funzione della televisione, e il programma è un argomento greve, poco spettacolare, meglio sorvolare.
Tuttavia ci ha provato il leader pre-primarie, il prode Prodi, l’altra sera a Porta a Porta. Un campione di ragazzi selezionato da un super gasato Manheimer gli ha rivolto alcune domande soft sulle tematiche che, assicurava il super gasato, erano rappresentative del pensiero collettivo del popolo italiano. Il prode Prodi, che personalmente considero persona seria, e anche sincera, ha detto di tutto e di più. C’è da risollevare l’Italia dalla crisi, da sistemare i conti, la produzione, il commercio, l’immigrazione, i prezzi, le tasse, c’è tanto “da lavorare” affinché il nostro paese “torni a vincere in Europa”. Era una panoramica a 360° di cure drastiche, di ideali da realizzare. Io, che dormicchiavo sul divano, ho capito che solo una cosa, solo una cura è certa, solo una terapia verrà davvero seguita: il calo delle tasse alle aziende. Questo si farà, è fuor di dubbio. E ho capito anche, con assoluta chiarezza, che questo taglio, questo regalo, affinché l’Italia “torni a vincere in Europa”, dovrò pagarlo io, di tasca mia, con una ulteriore perdita di potere d’acquisto, perché dovrò tirare fuori dei soldi per darli non ai poveri mendicanti che affollano le strade di Bologna, ma a Luca Cordero di Montezemolo. Posso protestare, posso indignarmi, ma chi se ne frega. Tanto si deve fare e si farà.
Ho detto che il prode Prodi ha spaziato a 360°, ma non è vero. Diciamo e 350. Infatti un argomento non è stato toccato, almeno fino a mezzanotte, quando sono definitivamente crollato: l’ambiente. Questo tema non era presente tra quelli che il super gasato Manheimer ha indicato come i temi che stanno a cuore al popolo italiano, che erano l’occupazione, i prezzi, le tasse, lo sviluppo ecc. L’ambiente è un dettaglio che non interessa a nessuno. I veleni che respiriamo, l’aria dolciastra, avvelenata di gas di scarico, l’inquinamento elettromagnetico che causa le leucemie, la devastazione del territorio per costruire nuovi palazzi da dare in pasto alla speculazione, e nuove strade per far circolare la lunghissima colonna di camion, sono dettagli che interessano solo a quei perditempo degli ecologisti.
Poi c’è un altro tema che non viene mai, dico mai toccato dai leaders politici. Lo dico sottovoce, a testa bassa, perché è pericoloso: la cultura. Qui non solo c’è disinteresse, è molto peggio. Parlare di cultura oggi in Italia è estremamente rischioso, si fanno brutte figure, si perdono voti, si può addirittura arrivare a una incriminazione per turpiloquio.

mercoledì, giugno 15, 2005

Le tue mani amore

racconto frigidairiano

Quel giorno che Antò arrivò in redazione eravamo solo io e il segretario Gino. Erano le dieci del mattino, l’alba praticamente, considerando che era stato chiuso il numero del giornale alle due di notte. Io e Scozzari raramente tiravamo così tardi, perché il montaggio, che aveva una valenza soprattutto grafica, era seguito dal direttore e da Stefano Tamburini, che davano le indicazioni al montatore Franco Circosta, chino per ore e ore sul foglio di carta millimetrata a impaginare servizi.
Antò era già entrato in quella fase di depauperamento psicologico che lo avrebbe portato a un ritiro dal mondo, dalla vita e dal lavoro, fino all’isolamento e al silenzio che precedono il nulla, la fine.
Era ancora attivo, comunque. Portava storie e tavole meravigliose, curate e splendide, in cui il suo talento di disegnatore di fumetti e creatore di storie si esprimeva al meglio. La sua arte, la sua creatività furono le ultime a essere travolte dalla crisi. Tuttavia era iniziata una transizione verso il suo progressivo indebolimento, come una perdita di consistenza dell’aura che lo avvolgeva e lo rendeva più indifeso, più vulnerabile, attirando intorno a sé degli strani individui, dei parassiti che lo seguivano continuamente, e forse gli spillavano denaro, energie e droga.
Quel giorno lo accompagnava un tipo di bassa statura, dall’aspetto trasandato e dai modi nevrotici. Si muoveva a scatti e lanciava intorno a sé occhiate improvvise e aggressive, come un uccello predatore in caccia di vittime.
Appena entrato Antò ci salutò frettolosamente e si rinchiuse in bagno. Il suo accompagnatore restò in piedi nella redazione, una sala con quattro scrivanie, la mia, quella di Gino, di fronte a me, quella di Scozzari, vuota perché lui veniva a Roma due settimane al mese, e la quarta, vuota, che apparteneva al secondo redattore, in quel momento vacante dopo i passaggi veloci di Flores D’Arcais e Stefano Bonilli. Parlottava, muovendo bruscamente la testa, intercalando il suo discorso, abbastanza incomprensibile per i frequenti borbottii, con “peso” e “storia pesa” e “non c’è pezza”, tutte espressioni tipiche bolognesi.
Antò uscì dal bagno e si catapultò nella stanza come se dovesse sfondare una porta. Aveva gli occhi dilatati, frenetici, e contraeva le mascelle, producendo un “mmggr” con lo strofinamento dei denti. “Devo telefonare!” gridò. Attraversò di corsa il disimpegno e si rinchiuse nella stanza del direttore. Udimmo delle grida, delle esclamazioni, poi si catapultò di nuovo nella stanza, sferrò un calcio sul portone d’ingresso e tornò in bagno. Uscì dopo qualche minuto, agitato, digrignando i denti, mentre il suo accompagnatore gli saltellava intorno, borbottando parole confuse. “Vaffanculo!” urlò…“adesso le ritelefono!” Tornò nella stanza del direttore, chiuse la porta con un calcio, e udimmo nuovamente delle grida, più prolungate, più rabbiose. Si precipitò fuori dalla stanza del direttore, si rinchiuse in bagno, tornò in redazione in uno stato di semiparossismo. “Perché?” urlava, misurando la stanza a grandi passi, e sferrando calci al portone, “perché mi sono messo con una stronza? Perché?”. Uscì in giardino, seguito dal tipo saltellante, rovesciò una sedia e si prese la testa tra le mani, continuando a gridare “perché mi sono messo con una stronza, perché!”
Io e Gino lo raggiungemmo, imbarazzati e preoccupati, mentre il tipo che lo accompagnava saltellava agitatissimo e borbottava. Gino gli posò una mano sulla spalla, cercando di consolarlo. Antò, accasciato, con la testa che quasi sfiorava i ginocchi, ripeteva, come una litania: “perché mi sono messo con una stronza? Perché proprio io, io, con una stronza?”
Io andai in bagno a controllare. Sul davanzale della finestra c’era la spada: una siringa posata su un fazzoletto di carta, un cucchiaino, un batuffolo di cotone. Passai un dito nel cucchiaino, lo assaggiai: non c’erano dubbi, cocaina. Si iniettava coca in vena, uno dei demoni più spaventosi di tutte le droghe pesanti. L’effetto dura solo pochi istanti, poi cala di colpo. L’organismo, come impazzito, ne chiede ancora, in dosi sempre maggiori. Quando la roba finisce, e c’è il calo totale, drammatico, viene la febbre, dolori muscolari, tosse.
Tornai in giardino. Antò era afflosciato, sembrava privo di forze. Probabilmente nella soluzione aveva messo anche eroina, uno speed-ball, dunque, ed ora “veniva su” la “merda”, l’eroina.
Mi sedetti accanto a lui. Inutile consolarlo, come tentava di fare Gino. La droga pesante è un essere totalitario che controlla tutte le funzioni mentali e nervose, le parole sono inutili. Gli chiesi solo: “come stai?”
Antò alzò due occhi arrossati, esausti, su di me.
“Dovevamo...” disse, ansimando per l’affanno, “andare in Umbria questo fine settimana. E’ da mesi che non stiamo un po’ insieme in vacanza. Io devo studiare degli sfondi medievali, ho bisogno di sporcare un po’ di tela e di cartoni... adesso invece vuole andare a Firenze, per la mostra di Fiori. E il prossimo fine settimana io sono a Roma, e quello dopo lei deve studiare per un esame. Così salta tutto. Non vuole mai stare da sola con me, questo è il punto. E’ una stronza, pensa solo agli amici.”
Antonello Fiori era un pittore fiorentino che da qualche tempo collaborava col giornale. Portava delle tavole molto originali, sembravano delle immagini iperrealiste, o delle foto, elaborate, stravolte con interventi pittorici.
“Che devo fare?” disse Antò, con la testa tra le mani. “Fiori è certamente un caro amico, ma lei... e va bene, ci andrò” disse, come se rispondesse a una domanda che nessuno di noi aveva formulato. A quelle parole il suo accompagnatore si agitò oltre ogni immaginazione. Gli saltava intorno, gridava “peso” e “storia pesa” con frasi smozzicate, e forse disse “vengo io”. A quel punto Antò gli sferrò un calcio. L’altro sembrava in guardia, perché balzò indietro, ma non abbastanza in fretta da evitare del tutto il colpo. “Fottiti, pezzo di merda!” gridò Antò. “Smettila di ronzarmi intorno!” L’altro si dondolava da un piede all’altro, e borbottava “storia pesa” e “oh!”, e “fuori di cranio”. Antò si alzò faticosamente in piedi. “Ci andrò” disse. L’altro individuo si teneva a distanza di sicurezza, ma non gli staccava gli occhi di dosso. “E’ ovvio, è la mostra di Fiori...” Si strofinò la faccia con le mani e inspirò una profonda boccata d’aria. Sembrava distrutto dopo uno sforzo fisico enorme. “Voglio che vieni anche tu” disse, mettendomi una mano sulla spalla.
“Io?” chiesi, colto di sorpresa. “A Firenze?”
“Ma sì, ci sarà tutto il circo equestre fiorentino, porta la macchina e fa’ un po’ di foto. Dai, vieni”.
Boccheggiai. Ero abbastanza stanco, o meglio, stufo, in quel periodo. Avevo appena realizzato un servizio fotografico impegnativo sulle notti romane, le feste, i ritrovi, e dovevo stampare una montagna di foto in bianco e nero. Ma alla fine la mia vocazione di curioso, di esploratore, e le insistenze di Antò, ebbero la meglio. Accettai.
Antò si mosse a fatica, come se una febbre alta gli tagliasse le gambe. Ci salutò, aprì la porta e uscì in strada. Il tipo lo seguiva saltellando e borbottava, grugniva parole incomprensibili. “Va’ farti inculare, gran pezzo di merda!” lo sentimmo gridare, prima che il rumore del traffico li inghiottisse.


Tutto il circo equestre fiorentino era una definizione perfetta. Era riunito l’ambiente trendy della città, tutti i personaggi glam sembravano essersi dati appuntamento per l’evento: c’erano ragazzi coi capelli irti come spilli, cosparsi di lacca, o gel; altri ragazzi truccati pesantemente da donna, con rossetto, ombretto e smalto neri, pur non essendo necessariamente gay (e quei tempi molti ragazzi alla moda si truccavano in quel modo); camicie aperte sul petto rigorosamente depilato mettevano in mostra tatuaggi cancellabili con scritte come “Chanel” e “Vogue”; le ragazze erano perlopiù bellissime e appariscenti, con minigonne, calze a rete, oppure abitini anni ’50 color crema, o pistacchio, borsette a scacchi sgargianti; una ragazza bionda, tenuta a guinzaglio da un ragazzo truccato con unghie lunghissime e laccate, si metteva in posa davanti alla mia Polaroid SX 70 con atteggiamenti aggressivi, mostrando gli artigli, confondendo così il suo ruolo di cagnetta con quello di gatta; c’era anche qualche signora molto distinta, molto mondana, per nulla a disagio tra tutti quei personaggi variopinti e trasgressivi.
Io scattavo delle Pola molto forti, anche perché quando i miei soggetti imparavano dove lavoravo si eccitavano, esclamavano: “sei di Frigidaire? No, veramente?” e assumevano pose pazze. C’era questa voglia di stupire, di trovare uno stile a tutti i costi, di essere “di più”, per essere notati, apprezzati, chiacchierati. Ed io mi stupivo, ma per un altro motivo: era singolare il contrasto tra l’immagine esterna del Frigido, così prestigioso negli ambienti modaioli, e la redazione che lo pubblicava, composta da mezzi guerriglieri malvestiti, ignari delle tendenze e delle mode, spesso di cattivo umore, cupi o nevrotici. Forse erano proprio loro, i fumettari, con la loro arte, la loro fantasia, a creare il mito.
Ed eccoli là, le star: Fiori, in forma smagliante, era addirittura ubriaco di attenzioni. Era così conteso che non poteva intrattenersi con nessuno per più di venti secondi. Alto, bello, indossava un abito nero con giacca a quattro bottoni e una camicia grigia col colletto abbottonato. I lunghi capelli castani, vaporosi come quelli di Christopher Cross, ogni tanto gli coprivano un occhio e allora li scostava rovesciando indietro la testa. Sembrava una creatura generata apposta per il successo: era sempre di buon umore, sempre misurato nei modi, nel parlare, nel mangiare e nel bere. Credo che non avesse mai assunto alcuna droga in vita sua, né bevuto alcoolici al di fuori di qualche calice di champagne. Non ne aveva bisogno: era amato da tutti, ricco, adorava la mondanità, i salotti, i party, le prime, e le belle ragazze, che non chiedevano di meglio che farsi vedere in sua compagnia. Si diceva che la donna più tradita del pianeta doveva essere proprio la moglie di Fiori, che cercava di darsi da fare per galleggiare in quell’acquario di pesci esotici multicolori: lei, che sembrava una piccola, inelegante carpa di fiume: di bassa statura, svelta, pratica, era così inadeguata come moglie di Fiori. In quegli anni in cui l’immagine sembrava l’unico obiettivo di vita lei era la rappresentazione vivente della contadinotta finita chissà come accanto a un giovane aristocratico di successo.
E poi c’erano loro, ammantati di leggenda, di fascino, desiderati e ammirati quanto o addirittura più dello stesso Fiori: Antò e la mitica fidanzata Fiorella detta Fiore: bellissimi, circondati da un’aura di eleganza ma anche di mistero. La crisi di Antò, quel suo essere out, i suoi occhi spenti, quasi vitrei, tutto era travolto da una curiosità cieca che si disinteressava della realtà e non chiedeva che di essere soddisfatta dalla contemplazione, dall’assimilazione della coppia più in del momento. L’essere vicini alla loro immagine era l’unico traguardo da raggiungere, perché arricchiva, migliorava la propria immagine. Ciò che erano veramente, i loro desideri, i loro drammi, non aveva alcuna importanza.
E infine c’erano i quadri, che quasi nessuno aveva il tempo di contemplare, perché troppo urgente era il bisogno di parlare, ridere, guardarsi intorno ed essere guardati, e soprattutto non ritrovarsi mai da soli, neanche un attimo. Io non riuscivo a trovare altra definizione, per quanto mi sforzassi di collegarli alle tavole fumettistiche di Fiori, alla grafica moderna, che: quadri cubisti. Erano puramente, semplicemente cubisti. Sembravano rifacimenti di certe tele di Braque, o di Picasso. Non mi sembrava un difetto, né un pregio. Non trovavo altro da dire.
Scattai trenta Polaroid, tre scatole. Una bella collezione di tipi alla moda, forse si poteva fare un piccolo servizio sul giornale, una cosa del tipo i minireportage mondani con foto istantanee di Vogue Italia. Un lavoretto maledettamente costoso, pensavo mentre camminavo verso la casa di Fiori, con loro quattro, a sera ormai tarda, perché non era stato facile disimpegnarsi, rifiutare decine di inviti ad altre feste, cene, vernissages vari. Le Pola erano le pellicole più care di tutte, ormai le avevo pagate di tasca mia e non avevo nessuna speranza di farmele rimborsare dalla misteriosa, oscura entità finanziaria che stava dietro il giornale e che solo il direttore, a quanto sembrava, conosceva.

L’appartamento di Fiori era in un palazzo del ‘500 in pieno centro storico. Dal grande salone col soffitto affrescato, che si affacciava su un ampio terrazzo invaso da piante e vasi di fiori, si dominava la cupola di Brunelleschi.
La moglie di Fiori, che era estremamente attiva, pratica, e gentile, attenta a me che, da solo tra due coppie, rischiavo di essere un po’ emarginato, ci preparò spaghetti al pomodoro e basilico. Ma non avevamo fame, ci eravamo rimpinzati oltre ogni limite nel sontuoso buffet della galleria d’arte.
Dopo cena, stravaccati su tre divani di pelle bianca, chiacchieravamo pigramente di arte, pittura, cinema, ma anche di pettegolezzi su questo e quest’altro, malignità varie, che era un costume molto diffuso tra noi del Frigido, pettegoli, invidiosi e maligni come eravamo.
“E’ tua questa casa?” chiesi a Fiori, in un momento in cui gli altri erano in cucina a bere champagne.
“Nooo, scherzi?” disse Fiori, divertito. “Come potrei avere una casa simile? Non ha prezzo. Guarda gli affreschi dei soffitti: sono opera della migliore scuola di decorazione fiorentina del Rinascimento. Appartiene a un principe, ultimo discendente di una casata antichissima, mio ammiratore. In cambio gli consegno dieci quadri all’anno. E non è tutto. Ho anche uno studio sulle colline, un intero piano di una villa medicea, due saloni luminosi e panoramici”.
Mi guardai intorno. Tutto era curato in quella casa, ogni particolare, ogni dettaglio era firmato da un artista, o un architetto.
“Suoniamo qualcosa?” disse Antò, entrando dalla cucina con un calice in mano. La proposta fu accettata con entusiasmo. Un pianoforte che stava appoggiato al muro fu portato al centro della sala e Antò e Fiori si sedettero uno accanto all’altro
Quello che seguì mi lasciò a bocca aperta: i due suonavano divinamente, a quattro mani, sembravano due esperti musicisti perfettamente affiatati da anni di concerti. Suonarono dei pezzi jazz e gospel, e anche di classica. Poi partì La donna cannone di De Gregori, cantata a due voci. Un’esecuzione fantastica, struggente. Antò stava curvo sul piano, e scuoteva la testa seguendo il ritmo della musica; Fiori invece la rovesciava indietro come se respirasse a pieni polmoni, libero e felice, grato alla vita. Fiore, seduta con la schiena dritta, era assolutamente immobile. Il viso chiaro, coi grandi occhi tristi, incorniciato da capelli nerissimi, quasi blu, era enigmatico, malinconico, impenetrabile. Mentre Antò e Fiori cantavano “e le tue mani amore...” io fui travolto da una strana, violenta tristezza che mi chiuse la gola. I due amici cantavano a squarciagola, e battevano sui tasti col massimo dell’energia; Fiore fissava il vuoto, come rapita da un mistero che forse solo lei poteva svelare. La moglie di Fiori era in cucina, la sentivo muovere degli oggetti metallici, forse delle stoviglie. Era tagliata fuori da quell’atmosfera incantata, da quella malinconia cosmica, da quella oscurità, proprio come me.
Mi sentii così stanco che mi stesi sul divano. “Le tue mani amoreee...” Chiusi gli occhi. Cercai di disattivare anche l’udito. Volevo spegnere tutto, dormire profondamente protetto dal buio e dal silenzio.

Io e Fiori pranzammo in un piccolo ristorante vicino a casa sua. Le cameriere, e il proprietario del locale, lo adoravano. Se lo mangiavano con gli occhi, sembravano ansiosi di servirlo al meglio, di non fargli mancare nulla.
Antò e Fiore erano partiti per l’Umbria. Alla fine Antò l’aveva convinta a passare qualche giorno a Perugia e Gubbio, loro due soli, finalmente.
“Sai, mi sta accadendo una cosa stranissima” disse Fiori, quando arrivarono i caffè.
“Ah, sì? E cosa?”. Sembrava immerso in una profonda riflessione, era distante, serio, quasi cupo. Era strano in un tipo come lui, sempre così solare.
“Ho... una storia... sì, una storia d’amore, con la ragazza di uno dei miei migliori amici. Oserei dire col mio migliore amico”.
“Oh” dissi, e non seppi aggiungere altro. Ma d’altro canto Fiori non cercava opinioni, o solidarietà. Sembrava solo interessato a riflettere ad alta voce, ad ascoltare se stesso.
“E’ così... strano. Io penso tra me: lui è un amico carissimo, è un fratello. Ama quella ragazza, sogna di sposarla, di avere dei figli con lei. Ed io ci vado a letto. La cosa mi emoziona, mi... come posso dire? mi taglia a fette. Eppure continuo a vederla, neanche mi sfiora il pensiero di troncare. Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile”.
“E lei?” chiesi.
“Lei... soffre. Molto. Forse lo ama, comunque lo ha amato alla follia. Però ama me adesso. E forse anch’io la amo. Almeno credo. Deve essere così. Nulla è chiaro. L’unica cosa certa è che ci vado a letto, e questo mi taglia a fette, ma non posso rinunciare a lei”.
“E tua moglie?” domandai. In quel racconto tutti i pezzi erano fuori posto e la cosa mi mandava in uno stato confusionale. Cercavo di mettere un po’ d’ordine, di capire.
“Oh, Gianna...” disse Fiori, fissando la tazzina vuota. “Lei... non sa cosa vuole. O forse sì, lei è l’unica che lo sa. Vorrebbe una vita stabile, una vite semplice. Con me”, soggiunse, storcendo la bocca. Era uno strano ghigno su quel volto così allegro, soddisfatto di sé e del mondo. “Sì, con me, ma io... non la amo per niente”. Mi piantò in faccia due occhi sfavillanti, mobili, che sembravano bruciare di un sentimento violento e tenebroso. “Non la amo, non l’ho mai amata. Forse questa è l’unica certezza di questa storia”.
“E non riesci a decidere se ami l’altra?”
Fiori distolse lo sguardo e tornò serio, assorto. “Mah... me lo chiedo ogni giorno, ogni minuto. L’unica cosa di cui sono davvero cosciente è che è la ragazza del mio migliore amico, che io ci vado a letto, e non ho nessuna intenzione di troncare. Mi taglia a fette questa situazione, ma non posso, anzi, non voglio troncarla. E’ amore questo? Io non lo so”. Sbattè il cucchiaino sul bordo della tazzina. Quel suono acuto mi fece sobbalzare. “E’ amore? Tu cosa pensi?” mi chiese, fissandomi.
Io guardavo i suoi occhi scuri, mobili, e mi sentivo intorpidire, nel corpo e nella mente. Mi sentivo come se un serpente mi stesse ipnotizzando, prima di attaccarmi. “Eh?” insistette Fiori, “cosa dici amico? Sono innamorato di lei?”
Riuscii a distogliere lo sguardo. Bevvi d’un fiato un bicchiere d’acqua. Quella situazione era così confusa, e squilibrata. Vacillavo.
“Io... non lo so” fu l’unica cosa che riuscii a dire.

Tornai a Roma e fui risucchiato da un vortice furioso di lavoro. Il nostro giornale faceva parte di un progetto comune con altre riviste europee, la francese Actuel, l’inglese The Face, la spagnola El Vibora, l’olandese Koos, che aveva come obiettivo un numero speciale sulla creatività europea. Una sorta di gemellaggio che superava le barriere di razza, di cultura, di lingua. Era un continuo scambio di materiali, foto, disegni, testi da tradurre.
Così, quando arrivò la notizia, fui colto di sorpresa: Fiore aveva lasciato Antò e si era messa con Fiori, che aveva lasciato la moglie. Era andata a vivere con lui, nell’appartamento fiorentino, e adesso Fiori e Fiore erano la nuova coppia mitica del mondo underground-modaiolo. Antò si era ritirato in un piccolo paese dell’Appennino umbro dove, si diceva, aveva una nuova fidanzata, dipingeva, faceva arti marziali e si stava disintossicando dalla droga. La moglie di Fiori si era trasferita dai genitori e stava studiando per concludere l’Università.
Che quella storia squilibrata avesse una conclusione positiva, che portava salute e felicità?
Dopo sei mesi lasciai il giornale e tornai al paese, nella mia casa semidiroccata, a leccarmi le ferite. Là mi arrivò la notizia che a Fiori e Fiore era nata una bimba che avevano chiamato Chiara. Passarono altri due mesi, iniziai a scattare foto per una rivista milanese e stavo pensando seriamente di trasferirmi in quella città.
Proprio mentre ero a Milano per consegnare un servizio lessi sul giornale la notizia della morte di Antò. Sconvolto, telefonai ad alcuni amici comuni, che dissero che le circostanze non erano per nulla chiare. Antò era sparito dal giro, nessuno aveva più contatti con lui. Comunque non sembravano esserci molti dubbi sulla causa della morte: overdose.
Finalmente mi trasferii a Milano, dove cercai di costruirmi una nuova vita. Di Antò si parlò molto, vennero fuori disegni e storie inedite e si organizzarono mostre in varie città. Io vendetti alcune sue foto che avevo scattato a Bologna, lui vestito elegantissimo e con la corazza del kendo.
Pensavo spesso a lui, e quasi sempre i ricordi si indirizzavano verso quella sera, dove una realtà parallela, oscura, galleggiava invisibile e ignota tra le note di quella canzone.

venerdì, giugno 10, 2005

Uccelli

Un paio d’anni fa tornammo da un periodo di vacanza, in agosto. Entrai in bagno, spalancai la finestra e restai di stucco: sul davanzale c’erano due orrendi pulcini spelacchiati, di colore rosa, che mi guardavano atterriti. Impiegai alcuni istanti per capire, per accettare quell’immagine. Poi un piccione arrivò in volo, mi vide, fece dietro front e andò a posarsi sulla grondaia di fronte. Adesso era tutto chiaro: il piccione, la picciona, aveva scelto il mio davanzale per fare il nido. Un problema non da poco: i piccioni sono gli uccelli più freak del mondo, fanno la cacca nel nido e vivono letteralmente in mezzo ai propri escrementi. Arrivarono mia moglie e mia figlia e contemplarono – mia moglie a disagio, come me, e mia figlia entusiasta – la scena. “E adesso che facciamo?” chiese mia moglie. Io allargai le braccia. “Cosa vuoi fare. Aspetteremo che diventino grandi e si tolgano dai piedi”. Così, per un paio di mesi, aprivamo la finestra delicatamente, cercando di non fare rumore, per non spaventare l’allegra famigliola. Parlavamo addirittura a bassa voce, e cercavamo di contenere la curiosità di mia figlia, che voleva guardarli in continuazione. Finalmente i piccioni diventarono adolescenti, spiccarono il primo volo, il secondo, e infine se ne andarono per il loro mondo aereo. Così ho potuto pulire lo strato di alcuni centimetri di guano, con la varechina, e non è stata un’impresa facile.
Quattro o cinque mesi fa, ancora in inverno, è spuntata una ghiandaia. So che era una ghiandaia perché ho consultato un catalogo, aveva le caratteristiche piume delle ali multicolori, il becco forte, da carnivoro. E’ atterrata sul balcone, senza fare una piega, e ha iniziato a fissarmi. Non mostrava la minima traccia di paura. Allora ho preso del pane e l’ho posato sul davanzale, con prudenza, per non farla fuggire. Macché fuggire: ha cacciato un piede sul pane e con beccate furiose l’ha fatto a pezzi. Poi è tornata varie volte, sulle finestre, sul balcone, sempre audace, per nulla preoccupata dalla mia presenza. Era simpatica, ma la situazione si è presto complicata. Un pomeriggio mia moglie e mia figlia tornavano a casa e la ghiandaia ha iniziato a svolazzare con furia intorno alle loro teste. Gridando, gesticolando, sono riuscite a entrare e a lasciarla fuori. E la cosa si è ripetuta. Così quando tornavano a casa, o si apprestavano a uscire, entravano in uno stato di ansia. “E se c’è quell’uccello?” diceva mia moglie. “Papà, ho paura” diceva mia figlia. Io cercavo di tranquillizzarle come potevo. Per qualche tempo le ho anche accompagnate ogni volta che uscivano. Secondo me l’uccello non aveva intenzioni aggressive, voleva solo posarsi sulle loro teste. Solo che aveva dei modi un po’ bruschi. Però mentirei se dicessi che ero del tutto sereno... Un giorno l’ho trovata in camera da letto. Era sulla coperta, immobile, e ovviamente aveva depositato un ricordino. “Fuori subito!” le ho detto, a voce alta, agitando un braccio. Lei non si è per nulla scomposta, ha saltellato sul letto, mi ha guardato coi soliti occhi furiosi, da corvide, ed è uscita. Questa volta era abbastanza offesa, mi è sembrato. Infatti per qualche tempo non si è fatta vedere, e mia moglie e mia figlia si sono rilassate. E anch’io. Ma l’altra sera mia figlia è entrata in bagno e dopo un istante ha iniziato a lanciare grida di terrore. Non avevo mai udito delle grida così. Mi sono precipitato in bagno, mia figlia è schizzata fuori urlando e l’ho vista: la ghiandaia era sul filo sopra la vasca per stendere i panni, appollaiata immobile, come una regina. Allora mi sono davvero arrabbiato: “adesso sparisci!” ho urlato, “questo non è posto per te! Il tuo posto è nel cielo, nei boschi, è chiaro?” Lei si è sistemata sul filo, si è messa comoda, ha guardato qua e là, impassibile. Allora sono andato in cucina a prendere una scopa, per cacciarla fuori con le cattive. Ma quando sono tornato in bagno era sparita. Deve essersi offesa a morte. Beh, è meglio. E’ troppo difficile una convivenza tra noi. Ora non la vedo da settimane. Ma adesso è estate, c’è da mangiare in giro. Vedremo il prossimo inverno...
L’altro giorno, alle sei e mezzo del mattino, sono entrato in soggiorno e ho visto, sul davanzale della finestra, una tortora che lavorava alacremente col becco e con le zampe. Oh no, di nuovo! Stava preparandosi il nido, aveva già portato dei ramoscelli e delle foglie. Ma possibile? Altri due mesi di guano? No, cara mia. Ho alzato e abbassato la tapparella, per spaventarla, e ho spazzato via il suo lavoro. Lei è tornata varie volte, ma ha sempre trovato me che le facevo un discorsetto: voi siete membri del popolo alato, non possiamo condividere le case. Non qui in città. So che gli spazi si assottigliano per voi, ma questo vale anche per noi. Voi scacazzate come matte, e siete portatrici di pidocchi e di zecche. Io mi impegno a procurarvi da mangiare, soprattutto in inverno (ogni tanto comperiamo dei panettoni in offerta solo per loro), ma per la casa dovete arrangiarvi.
Ha capito. Adesso viene a trovarmi spesso, ma si ferma qualche secondo e poi riparte. Così va bene.
Però... stiamo per andare in vacanza. Non troveremo qualche sorpresa al nostro ritorno?

mercoledì, giugno 08, 2005

Castellane d’Italia

La nuova castellana italiana è certamente Anna Falchi, che si sta accasando con l’immobiliarista-scalatore Ricucci. Al fidanzato, che recentemente si è comprato un pezzo di Corriere della sera, lei dice continuamente "amore, sei superchich", perché lui è un uomo di rottura che "vuole rompere il sistema" e lei è d’accordo, perché vuole "spezzare le lobby", e poi quando lui suona e lei gli apre lui getta dentro la di lei casa "una rosa rossa" e poi se ne va lasciandosi dietro "una scia di Rush Gucci". Adesso andranno a vivere, "per il momento", in 180 mq di appartamentino, ma è transitorio, perché presto "avremo una vera casa".
La castellana Falchi mi ha ricordato un’altra castellana mitica, la spagnola Natalia Estrada. Quando non era ancora una castellana, ma una semplice ballerina-soubrette, era sposata con un venditore di materassi e di pentole di nome Giorgio Mastrota. Oibò, uno che fa un lavoro normale, pensavo, non un calciatore o un imprenditore, non è incredibile? Niente paura, l’anomalia è stata presto risolta: un giorno, al ristorante, incrociò Paolo Berlusconi, i loro occhi si incontrarono "ed è scattato, immediatamente, l’amore". Ma tu guarda che coincidenza eh?

domenica, giugno 05, 2005

Il lavoro fa male 1

E’ mia intenzione inserire una serie di racconti che hanno come argomento il lavoro. Questa serie farà compagnia a quelli frigidairiani. Certo che non è un’impresa semplice. Sono scritti qui, nella testa, e qui, nel cuore, ma devono scorrere sulla tastiera per vedere la luce. Intanto ci provo. Questo è il primo.

L’alba non è ancora spuntata. E’ una fredda giornata di inizio marzo, alle sette meno dieci del mattino è notte fonda.
Sul piazzale della sede della Cooperativa stradini e muratori ferve l’attività frenetica che precede i trasferimenti ai cantieri. Gli operai fuorisede, appena scesi dai pulmini, hanno facce stravolte, gli occhi gonfi, i capelli dritti. Alcuni si alzano alle quattro per percorrere fino a 150 km per venire al lavoro. Qualcuno addenta un panino alla mortadella, diffondendo un odore appetitoso intorno a sé.
Entro nella sala degli autisti, già gremita. Il fumo è acre, c’è anche quello sfigato del Ramarro che fuma il toscano, gli scoppiasse il cuore.
I soliti saluti: “dai Trapattoni, muoviti, che il Carnivoro aspetta solo te” bela uno degli autisti-cortigiani con un ghigno. Mi chiamano Trapattoni, chissà perché. Io assomiglio all’allenatore di calcio come Gad Lerner assomiglia a Giuliano Ferrara, ma un giorno al Carnivoro è venuta l’idea di appiopparmi questo soprannome, e la parola del Carnivoro è legge qua dentro.
Eccolo là, il capo degli autisti e del personale operaio, seduto come un papa al suo tavolo di fòrmica, chino sul foglietto dove ha segnato i viaggi dei camion.
“Ehi, Sandro” dice uno degli autisti-cortigiani con tono di sfottò, “è arrivato il Trap!”
Sandro, gli hanno dato questo nome umano al Carnivoro. “Oh, era ora” dice, ancora col testone chino sul foglietto. Poi lo solleva, lentamente, e mi pianta addosso i suoi occhi incredibilmente azzurri, iniettati di sangue. “Mo ben, sei qua finalmente. Dimmi un po’, hai voglia di lavorare stamattina o di grattarti le palle come al solito?” Risatine degli autisti-cortigiani. Io non gli rispondo. Fisso quegli occhi iniettati di sangue e mi ficco le mani nelle tasche della tuta. “Allora, Trap, sei muto stamattina? Può un autista che non ha ancora finito il periodo di prova non rispondere a me?”. Il periodo di prova. Sempre questa storia. Mi ricatta di continuo con la minaccia di non confermarmi per l’assunzione definitiva. Ignoro le risatine dei suoi leccapiedi, mi bilancio sulle massicce scarpe da lavoro con la punta di ferro. “Quanto tempo mi fai perdere Trap?” Riabbassa il testone sul foglietto. Il Carnivoro è incredibilmente lento di riflessi, deve leggere le parole che lui stesso ha scritto la sera prima muovendo le labbra, come un semi-analfabeta. “Vai a S. Vincenzo, il capocantiere ti spiegherà cosa devi fare. Muoviti!” S. Vincenzo: un cantiere schifoso, in un mare di fango, e il capo è Il Facocero, un pezzente che pensa solo a finire i cantieri in tempi record per intascare i premi di produzione. Adesso devo dire “va bene”, si dice sempre “va bene” prima di partire. “Va bene” dico, e schizzo fuori dalla cloaca, seguito dai “muoviti!” degli autisti-cortigiani.
Mentre cammino a passo di corsa verso l’enorme tettoia dove sono parcheggiati i camion vengo raggiunto dallo Zuccone. Anche questo è un soprannome appioppato dal Carnivoro, quando lo massacrava. Lo Zuccone è stato il suo obiettivo per anni, raccontano. Lo ha dissanguato, insultato, lo ha distrutto. Adesso tocca a me, dicono. Io sono la nuova vittima, dicono.
“Dai Trap, cerca di resistere” dice Lo Zuccone. Nel suo tono di voce c’è un mix insopportabile di commiserazione, sollievo, godimento. “Adesso ci sei tu nel frullo. Io ci sono stato per cinque anni, Madonna”.
Arrivo al mio camion, un Iveco 190 azzurro con guida a destra, con la gru. Apro la portiera, salgo a bordo, accendo il motore. Si diffonde un rombo oscuro, potente. Compilo il dischetto, lo inserisco nel tachigrafo. Lo Zuccone continua a riversarmi addosso il sollievo sadico che prova a vedere me al posto che prima occupava lui. Il posto nel cuore putrido del Carnivoro.
“Zucca” dico, infastidito, “piantala di stressarmi”. Metto la retromarcia, il bestione si muove.
“Cos’è, fai lo sborone? Sta’ attento, Trap, lo sai com’è qua dentro, se non sei nessuno, se sei da solo ti schiacciano come uno scarafaggio!”
Procedo a marcia indietro fin quasi a contatto col mucchio di ghiaia, come ogni mattina. Giro il camion, punto verso il cancello. Lo Zuccone sale a bordo della sua motrice antidiluviana per trasporto terra. E’ un mistero della creazione quel camion: non ha più la vernice, cade a pezzi, ma ogni mattina, senza fallo, va in moto al primo colpo.

S.Vincenzo è molto peggio di quanto pensassi. Gli operai sono nel fango con gli stivali che affondano fino alle caviglie. E’ impossibile lavorare, ma Il Facocero non ha mai mollato un cantiere, neanche quando piove. Gli altri capicantiere mandano a casa gli operai per maltempo, ma non Il Facocero: li fa stare in baracca a fumare, perché potrebbe smettere e allora ci scapperebbe qualche lavoretto.
Eccolo che mi viene incontro col suo passo frenetico. Piccolo, robusto, cammina con un gran movimento di braccia roteando continuamente la testa in tutte le direzioni. Quando parla fanno capolino, tra le labbra sottili, i canini inferiori sporgenti che gli hanno procurato questo soprannome.
“Ohéi, Trap” urla, per sovrastare il rombo del camion, “li vedi quei tubi là?” Indica dei bancali di tubi arancioni, tubi da fogna del tipo autoportante, a circa mezzo chilometro. “Devi portarli laggiù” e fa segno in direzione dello scavo, dalla parte opposta del cantiere. “Trova un posto e sistemali. Adesso sono messi di merda, quegli stronzi li hanno scaricati alla cazzo di cane”.
“Mi vuole un aiuto” faccio. “Per imbragarli e legarli.”
“Ti pareva!” sbraita Il Facocero. “Se non rompi il cazzo te Trapattoni non sei mica contento”.
Sto per ribattere ma Il Facocero si gira e caccia un urlo: “Te! Marocchino! Vieni qua subito!” e grida una bestemmia irripetribile.
Un operaio marocchino si irrigidisce, ci guarda, poi parte di corsa, per quanto glielo permettono i tappi di fango che ha sotto i piedi.
“Marocchino, va’ con questo qui a fare quel lavoro dei tubi. Muovetevi!” e sbraita un’altra bestemmia.
L’operaio lo guarda con una faccia scura, poi sputa e sale sul camion.
Devo fare un giro largo, sul vialetto di ghiaia rullata, perché non posso entrare sulla terra fangosa, mi pianterei immediatamente. L’operaio, che si chiama Ahmid, un tipo magrissimo, molto scuro di pelle, di circa cinquant’anni, è furioso. “Facocero è grosso maiale, porco schifoso. Lui bestemmia sempre quando sono io. Lui fa apposta, offende. Lui brucerà all’inferno, un giorno”.
“Forse ci andrà davvero, all’inferno” dico, contemplando sconsolato i bancali. “Adesso però siamo tutti qua, Ahmid, sulla porca Terra, con questo casino da risolvere”.
I grossi bancali di tubi lunghi sei metri, del diametro di un metro e venti, sono stati scaricati in malo modo direttamente sulla terra, senza inserire i quadrotti di legno come spessore. Così è impossibile infilare le cinghie di canapa per sollevarli con la gru e caricarli sul cassone. Cerco una soluzione, ma Ahmid è più svelto, ha già un piano di lavoro: “se tu metti gancio qui” dice, toccando l’estremità di un tubo, “e poi alzi un po’ io metto cinghia sotto”.
Perfetto. E’ l’unico sistema possibile. “Bravo Ahmid” dico, e intanto preparo la catena coi due ganci. Funziona. Sollevo piano il bancale, per non sfasciare l’imbragatura in legno che tiene uniti i quattro tubi, e Ahmid inserisce la cinghia. La stessa operazione va ripetuta all’altra estremità, per inserire la seconda cinghia. Poi attacco le cinghie al gancio della gru e lo carico sul cassone.
Procediamo con grande lentezza, perché si formano di continuo degli enormi tappi di fango sotto agli scarponi che impediscono i movimenti. Un bancale si sfascia, e devo mandare Ahmid a prendere del filo di ferro corazzato per legarli. Poi mi pianto due volte e Il Facocero, furioso, deve mandare la ruspa cingolata per tirarmi fuori. Per spostare dieci bancali impieghiamo tutta la mattina e la prima ora del pomeriggio. Per terminare la giornata Il Facocero mi manda alla cava a caricare sabbia. Potrei anche rientrare, fare rifornimento, parcheggiare sotto la tettoia e staccare dopo otto ore di lavoro, ma è impensabile che alla Cooperativa stradini e muratori un camionista lavori otto ore. Devono essere minimo nove.
Quando torno in sede, così sporco di terra che sembro un uomo di fango, ne ho fatto nove e mezzo. Adesso devo comunicarlo al Carnivoro.
In sala autisti noto subito che bolle qualcosa in pentola. E nella pentola devo esserci io, viste le occhiate sarcastiche degli autisti-cortigiani.
Il Carnivoro è chino sulla scrivania di fòrmica, col foglietto a quadretti dove segna le ore. Sento L’Ortolano, uno dei supervip degli autisti cortigiani, che dice “undici”. Undici ore. E’ impossibile, stamattina era qui alle sette, come tutti. Quindi ne ha fatte nove e mezzo, come me, ma ne dichiara undici. E’ normale, gli autisti cortigiani lo fanno sempre. E Il Carnivoro segna. Li tratta bene i suoi leccapiedi.
“Ecco, Sandro, è arrivato!” dice uno, gongolante.
Il Carnivoro impiega quasi un minuti per alzare gli occhi iniettati di sangue su di me. Mi guarda credo, ma le pupille sono opache, sembra un cieco. Riabbassa il testone sul foglietto, mentre le enormi mani, massicce e pesanti come mazze, si muovono frenetiche sul ripiano lucido del tavolo. Brutto segno. Quando Il Carnivoro contorce quelle dita grosse come tubi da lavandino significa che è gonfio di cattiveria fino a scoppiare.
“Adesso io voglio sapere una cosa da te, Trapattoni” dice, col testone chino sul foglietto. La voce rimbalza sul ripiano del tavolo, arriva distorta alle mie orecchie. Gli autisti-cortigiani sghignazzano. “Tu adesso mi devi dire se vuoi prendermi per il culo o cosa”. Non capisco cosa sta dicendo. Ha quel tono apparentemente ironico, greve di aggressività, che usa prima di un attacco. “No perché se è questa la tua intenzione” continua, e alza il testone; se è questa la tua intenzione: ogni tanto parla forbito, sembra un intellettuale: “è meglio che lo dici subito, che risparmiamo tempo”. Le salsicce pelose che ha al posto delle dita si contorcono, suonano un piano immaginario. Il mio silenzio deve irritarlo, perché si mette anche a soffiare aria tra i folti baffi biondi. Altro segno di furore, di ferocia. “No perché se non è tua intenzione prendermi per il culo” tuona, e tutti ammutoliscono, si preparano a una delle sue terribili esplosioni d’ira, “allora mi devi-spiegare-e-in-fretta perché ci hai messo una giornata intera per spostare dei tubi del cazzo!”
Cade il silenzio più assoluto. La scena è congelata, tutti sembrano delle statue di sale.
Io non capisco cosa diavolo dice. Penso alla giornata di lavoro, al fango, alla cura che abbiamo messo nella movimentazione dei bancali. E’ irreale, è una follia.
“Una giornata intera!” urla. Fa paura l’urlo del Carnivoro. Qui dentro ha un potere pressoché assoluto. Può togliere un operatore dalla macchina operatrice cui è assegnato e mandarlo a fare il manovale in cantiere in qualsiasi momento. Anche un autista può tirarlo giù dal camion e mandarlo a menare botte col piccone negli scavi delle fogne. “Dalla mattina alla sera per dei tubi!” urla. “Credi che non ti abbia visto? Tu mica mi vedi, con la testa tra le nuvole che ti ritrovi, ma io sono passato da S.Vincenzo, cosa credi!”
Mi fissa con gli occhi azzurri iniettati di sangue. Eppure sono privi di qualsiasi luminosità, sembrano gli occhi di un alcolista quando gli cala la sbronza. Spesso ho la netta sensazione che Il Carnivoro sia in realtà un perfetto rimbambito.
“No che non mi hai visto, non dire cazzate” dico con tono piatto.
Lui china il testone sul foglietto e tace. La mia risposta lo ha preso in contropiede, è abituato solo ad accorati discorsi in cui chi è sotto attacco cerca di difendersi, di dimostrare che è bravo e ubbidiente. Il mio tono indifferente lo confonde.
“Cos’hai detto?” tuona, sbattendo una manaccia sul tavolo.
“Non puoi avermi visto. Perché avresti anche visto che i bancali erano stati buttati sulla terra e non passavano le cinghie. Abbiamo dovuto sollevarli da una parte e dall’altra per caricarli. Tu non hai visto un cazzo”
Gli occhi iniettati di sangue si fissano, opachi e inespressivi, sulla mia tuta infangata. Ha già capito che ho ragione. Lo sa. Ma a lui non interessa la ragione. Deve solo sfogare il furore che lo divora. Solo che è lento, non ha capacità di reazione immediata. Se anche un solo particolare va fuori posto si paralizza.
“Te, Trapattoni!” urla, e intanto digrigna i denti e soffia aria tra i baffi. “Te! Ci hai sempre un motivo! Sei un professorino te Trapattoni, mica un autista! Non lo so mica perché ti tengo qui a fare la prova, devi andare tra i professorini!”
Gli autisti-cortigiani, felici per lo spettacolo gratuito, abbozzano una risatina, ma la mia risposta li fa di nuovo ammutolire. “La prova, sempre la prova! Perché non ti provi l’uccello, ammesso che tu ne abbia uno?” Non so come e da dove sia uscita questa battuta. Io stesso ne sono stupito. Non avrei mai immaginato di dire una cosa simile al Carnivoro. Il quale rimane paralizzato con una mano a mezz’aria, in apnea. Impiega un tempo lunghissimo per riprendersi, e tutto ciò che riesce a dire, mezzo soffocato com’è dalla sorpresa, è un altro “cos’hai detto?”.
“Ma sì che hai capito. Provati quell’uccello che dovresti avere, e vedrai se non fai meno il matto. Ti ho spiegato com’erano messi quei tubi. Chiedi in cantiere. Chiedi a quel culo rotto del Facocero”.
Già, Il Facocero. Non glielo direbbe mai quel verme. Il Facocero si sforzerebbe di capire cosa vuole sentirsi dire Il Carnivoro e poi cercherebbe di accontentarlo. Non spenderebbe una sola parola in mia difesa. In difesa di nessuno.
Intanto la scena si è di nuovo congelata. Un autista cortigiano rompe l’incantesimo, si gira e dice, sottovoce: “o vacca di una miseriaccia” seguito da una risatina. L’autista-cortigiano non ha capito nulla di quanto sta succedendo qua dentro. Nessuno ha capito. Pensano che Trap sia impazzito, che voglia essere licenziato. Solo noi due, io e Il Carnivoro sappiamo cosa sta succedendo, e cosa possiamo e non possiamo fare. In questi pochi secondi si è creata una situazione estremamente complessa, con molte variabili.
Primo: la lentezza di riflessi della bestia. La mia reazione è inammissibile e offensiva per lui, che non concepisce che smancerie, sorrisi, complimenti, o tentativi penosi di difesa. Non riesce a reagire, deve pensarci stanotte, ma domani sarà un altro giorno.
Secondo: se mi manda via per me sarà una liberazione. Non è umanamente accettabile lavorare in un simile letamaio, è la morte, la malattia. Eppure non ho il coraggio di andarmene, di tornare sulla strada, perché a cinque chilometri da qui, in un minuscolo appartamento con lo sfratto, una bambina di quattro mesi chiede tutto alla vita, chiede un futuro, non merita un padre disoccupato cronico. La mia risposta insolente è quindi un atto di viltà, è la richiesta di mandarmi via, finalmente, perché da solo non ce la faccio. La mia è vigliaccheria, proprio come la sua, che lo immobilizza come un topo morso dalla vipera, perché, nella sua paralisi, ha ben presente il terzo elemento, che è il camion. Trovare un autista per il 190 è un’impresa disperata. Dopo che è andato in pensione il leggendario Birrocciaio, che l’ha guidato per quindici anni, io sono il quinto autista che prova. Il 190 richiede un lavoro duro, ha delle sponde di ferro pesantissime che bisogna aprire e chiudere di continuo, si sale e si scende dal cassone per sistemare la roba, si spostano dei pesi, si esce quando piove, quando nevica, si sta sotto il sole d’agosto a manovrare la gru, mentre passano i camion che sollevano nuvole di polvere; nessuno vuole andare sul 190. Tutti aspirano a un quattro assi come quelli degli autisti-cortigiani, nuovissimi, silenziosi, con aria condizionata: si sta sempre in cabina, si è vestiti bene, con la camicetta, le scarpe da città; io invece alla sera ho la tuta lercia di terra e polvere, e gli scarponi da cantiere anche d’estate.
Io questo lo so, e lo sa anche lui.
A un certo punto si riprende, suona il piano immaginario con le dita-salsiccia, digrigna i denti. “Basta!” sbotta. “Dimmi quante ore hai fatto e sparisci!”
“Dieci!” dico. Mezz’ora in più. Che vada a farsi fottere, ne ha appena regalato una e mezzo a quel miserabile dell’Ortolano. La considero un parziale risarcimento per l’aggressione subita.
Il Carnivoro china il testone sul foglietto e sembra immergersi in una lunghissima, elaborata riflessione. Lo sa. Le ore sono nove e mezzo, ma se se fiata lo smerdo con L’Ortolano e tutti gli altri. Infine appoggia la penna sul foglietto e, con una lentezza inverosimile, scrive “10”. Rimane immobile col testone chino, mentre esco sul piazzale e me ne vado verso casa.
Siamo inguaiati entrambi. Due viltà si neutralizzano a vicenda. Lui mi odia, io lo odio e siamo condannati a sopportarci.

mercoledì, giugno 01, 2005

Il Buio si avvicina

Allora. Insomma. Ecco. Ci siamo: prima o poi finiamo per parlare di noi stessi. Perdio, lo fanno tutti, ma proprio tutti gli editori di Blog e siti vari. Dunque, avanti.
E’ in uscita il mio ultimo libro. O meglio, del mio alter ego. Chi ha letto Immagini dal Buio sappia che questo è il seguito, parte dalla fine del precedente; chi non lo ha letto non si preoccupi perché, pur contenendo alcuni riferimenti al primo episodio, e un breve riassunto dello stesso, è studiato e scritto per una lettura autonoma.
Il Buio è il regno della Tenebra, il dominio occulto del Male. Genera creature maligne, sanguinarie, potenti e imperfette, come il demone che, sconfitto nel precedente romanzo, insegue la sua feroce vendetta. Il Buio si avvicina è la storia di questa vendetta, della lotta all’ultimo sangue con la zingara Eva, la Signora che, dal campo nomadi della Bovisa, si oppone al dilagare delle forze maligne.
Qualche notizia sulla redazione dell’opera: il mio alter ego ha scritto gran parte delle pagine relative al demone durante due ricoveri in ospedale per curare una malattia hard: oppresso e “riscaldato” da una febbre a 39, con punte di 39.8, febbre che non calava nonostante le tachipirine e gli antibiotici, apriva il suo computerino portatile e faceva muovere il demone. Uno dei ricordi più nitidi di questo libro è e sarà sempre legato a quell’esperienza di febbre, di malessere e di scrittura.
Inoltre il mio alter ego, fedele al suo ruolo di sopravvissuto di una specie in via di estinzione, ha discusso a lungo con l’editore per contenere il prezzo di copertina entro i 12 euro. Questo perché, nella sua fantasia, il libro, come veicolo di conoscenza e divertimento, deve essere “popolare”, a basso costo, accessibile a tutti. E questo, per un testo di 312 pagine in prima pubblicazione, è un risultato più che apprezzabile. Tra l’altro ora quasi tutti i volumi pubblicati da Allori edizioni non superano questo importo.
Le foto di copertina e di quarta sono state realizzate dall’autore, a Milano negli anni Ottanta, esattamente uno dei luoghi e il periodo in cui si sviluppa la storia.
Ora sta per entrare in distribuzione, ma non avendo alle spalle la spinta di un editore dominante, non sarà possibile trovarlo in tutte le città. Ma niente paura! Si può ordinarlo direttamente all’editore cliccando qui. Arriverà puntualmente per posta contrassegno. Poi, questo sito è a disposizione per qualunque critica, opinione, o addirittura elogio. Tutto sarà bene accetto, come sempre.