mercoledì, novembre 30, 2005

Diario

Stamattina ero nella sala d’aspetto di un ospedale, in attesa da due ore di una visita specialistica. Intorno a me, una decina di persone, tutti, come me, con aria svagata, distratta, rassegnata. Medici e infermieri ogni tanto transitavano con passo di corsa e coi camici svolazzanti. Il professore, di circa sessant’anni, tarchiato, percorreva il corridoio con passo meno svelto, talvolta seguito da una giovane dottoressa coi capelli al vento e il camice svolazzante; parlavano animatamente di pianificazioni, di rapporti con altri reparti, forse di soldi. Ormai i prof che dirigono i reparti sono dei managers, più che dei luminari della medicina.
Mi alzavo, andavo alla finestra, tornavo a sedere, sospiravo. Così è. Il tempo è lentissimo nelle sale d’attesa, i minuti sono almeno di 100 secondi.
La visita prevedeva un prelievo di sangue e le “urine 24 ore”, cioè un campione della raccolta delle urine che escono da noi in 24 ore, che vanno conservate in un apposito bidone graduato (io sono sempre sopra i 4 litri). A un certo punto è arrivato un signore anziano con una tanichetta da cinque litri che conteneva una quantità minima di liquido scuro, poco più di un bicchiere di roba. E’ arrivato un infermiere, ha indicato la tanica, ha detto “e quella?” E l’uomo anziano ha detto “sono le urine”. E l’infermiere ha detto “delle 24 ore? Un campione?” E l’uomo anziano ha detto “no-no, è tutto qua”. L’infermiere ha fatto una faccia stupita, e anch’io. L’infermiere ha detto “ma co-ome, solo quella in 24 ore?” L’uomo anziano ha allargato le braccia, ha detto “cosa devo fare, delle volte ne viene fuori un subisso, questa volta solo questa roba qua”. Davvero impressionante. Com’è possibile che un uomo urini così poco?
Poi ho letto l’intervista di Fedele Confalonieri su Repubblica. Terrificante. Un testo da incubo. Questa è gente cattiva nel profondo dell’animo, ammesso che il buco nero che hanno dentro, una caverna maleodorante affollata di mostri, possa definirsi “animo”. Non mi ha colpito particolarmente la difesa del suo padrone Berlusconi, quella è robetta, sono le piccole, avvilenti miserie dell’italietta dove i padroncini da operetta curano i propri interessi privati; certo, usano e rovinano ciò che resta delle istituzioni, già violentate e calpestate da decenni di malgoverno, ma è cosa da poco in confronto a frasi come: “Li voglio vedere presentare a Bertinotti, a Diliberto, ai Verdi una riforma del paese in senso liberista. Penso alle pensioni, al lavoro, al Tfr, al taglio delle tasse (sic), alle infrastrutture. Guardi cosa sta succedendo con la Tav, dove c’è una opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese”.
Mi è venuta l’angoscia. Opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese. Questa è gente cattiva, è gente che stermina la vita, che oscura la luce del sole. L’Emilia Romagna è sventrata dai cantieri, ed ora devono fare fuori intere montagne. Sono stati spesi capitali enormi, e altri ne spenderanno, coi quali si potrebbero ristrutturare le linee esistenti, o sfamare interi popoli, e tutto per far guadagnare venti minuti, mezz’ora ai managers. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Giorgio Bocca, in uno dei suoi indignatissimi corsivi. E’ gente pericolosissima, una minaccia mortale a tutte le forme di vita del pianeta. La riforma liberista. Gli artigli sulla sanità, con le compagnie di assicurazioni che si attaccano ad ogni cavillo legale per non pagare le cure ai malati di cancro, come in America. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Tiziano Terzani in uno dei suoi libri, lui che l’America la conosceva bene. E le pensioni. E il mercato del lavoro.
Mi alzo in preda all’ansia, torno alla finestra. Vedo un mondo sterile, dove la vita è estirpata, dove il sole non riesce più a perforare la cortina di fuliggine che avvolge il pianeta. E loro, i demoni, le creature del Buio che hanno provocato tutto questo scorazzano per la terra brulla massacrando gli ultimi umani ancora in vita. Quegli umani che li hanno lasciati agire indisturbati, che li hanno addirittura mandati al potere.
Chissà dove andrebbe a parare la mia fantasia febbricitante, già eccitata da tre ore di attesa. Per fortuna una voce di donna pronuncia il mio cognome, e mi scuoto. E’ arrivato, finalmente, il mio turno.

sabato, novembre 26, 2005

Ancora sul giornalismo all’italiana

Se c’è una cosa che mi infastidisce è lo svolazzo mondano, l’elzeviro arzigogolato, quel dare un colpo al cerchio e uno alla botte, quel “più o meno”, quel “adesso lo scrivo, tanto si bevono tutto ‘sti coglioni di lettori’”. I nostri giornalisti eccellono i quest’arte di arrangiarsi, sono dei maestri. Tempo fa, per esempio, Mario Luzzatto Fegiz attribuì, sul Corriere, un pezzo di Jimi Hendrix ai Cream. Mi è arrivato un colpo al cuore: va bene sbagliare, l’errore è intorno a noi, è in noi; non dice forse Krishna nella Baghavad Gita:

“Tutto viene da me, la memoria, la conoscenza e l’errore”;

e qualcuno forse dirà: insomma, esageri, tutti sbagliano. E’ vero, ma come fa un giornalista che scrive di musica da oltre trent’anni a prendere uno svarione del genere? E’ come attribuire la Nona Sinfonia a Mozart. E poi è recidivo: quando vivevo a Milano leggevo sempre il Corriere, c’era la new wawe, e ricordo il suo pressapochismo nei titoli, nelle date, nei riferimenti.
Il fatto è che ci provano, quello che non sanno lo inventano, oppure lo copiano. Non si prendono la briga di verificare, di consultare i testi. Troppa fatica, troppo tempo. Non c’è la tradizione, questa è roba per gli anglosassoni, non per gli italiani. I nostri grandi quotidiani non hanno mai avuto, come ci ha invece raccontato Jay Mc Irney in quel romanzo americano anni Ottanta che era Le mille luci di New York, un “ufficio analisi dei fatti”, che aveva (parlo al passato perché, con l’attuale involuzione della stampa americana, non so se queste istituzioni siano ancora attive) come unico compito quello di passare al microscopio ogni articolo per verificare con puntiglio le date, le citazioni, i nomi.
L’ultimo esempio di questo artigianato giornalistico all’italiana l’ho trovato su Repubblica qualche giorno fa, in un articolo firmato Ernesto Assante. Costui è persona rispettabile, ama veramente la musica, e, benché, per cause di forza maggiore debba occuparsi di fenomeni deteriori e deprimenti come Laura Pausini o Eros Ramazzotti, o il cantautore-horror Biagio Antonacci, è uno serio. Però l’altro giorno ha scritto:

“C’è stato un Dylan prima di Bob Dylan. E non era un cantautore. Il giovane Robert Zimmerman, quando era uno studente in un college del nativo Minnesota, voleva essere un poeta e si esercitava scrivendo piccoli poemi”.

Non è vero. Oppure, per essere un po’ meno intransigente, diciamo che è altissimamente impreciso. Troviamo Bob nel 1957, al liceo, totalmente invasato dalla musica di Bill Haley e Little Richard. Voleva suonare come loro, essere come loro. Fondò addirittura un gruppo per tentare di suonare alle feste universitarie, ma quando i selezionatori vedevano questo ragazzo che si contorceva e si dimenava e urlava come un pazzo si spaventavano. E la fidanzata Echo Hellstrom racconta che nel 1958 “Bob aveva già stabilito che il suo futuro era nella musica”. Nel 1960 poi lo troviamo a Minneapolis che suona in un locale musica folk già col nome di Bob Dylan. E’ quindi una balla, uno svolazzo mondano scrivere che Bob non sapeva di essere un musicista, che doveva ancora scoprire la sua strada. Il fatto è che Assante doveva commentare la notizia che questi poemetti sono andati all’asta, così deve avere pensato: “dai, scrivo che prima di cantare era un poeta, magari è vero”.
Già, chi se ne accorge in fondo? Io, che ho letto la mitica biografia di Anthony Scaduto, uno dei migliori testi biografici mai scritti (è stato recentemente ripubblicato e lo consiglio a tutti gli amanti di Dylan).
Negli Usa di Mc Irney l’analista dei fatti sarebbe immediatamente intervenuto, qua da noi si passa oltre, e si accende la TV.

domenica, novembre 20, 2005

Il giornalismo all’italiana del giovane Santi Piotta

Sono sempre titubante nell'inserire questi racconti, perché sono un po' lunghi per il video; però, riflettendo, se risultano faticosi si può immediatamente interrompere la lettura, è questa la libertà dei blog, non si prova rancore (come io lo provo) per un testo acquistato, pagato e lasciato per strada.

I giornalisti italiani, è noto, hanno fama di essere piuttosto pigri. Soprattutto quelli alla moda, le grandi firme. Non hanno voglia di sbattersi per produrre servizi, non amano operare sul campo, e rischiare. Preferiscono avere la pappa pronta, riscrivere i flash di agenzia, tradurre articoli dall’estero, becchettare qua e là. E’ meglio stare al calduccio nel proprio studio, o in albergo, che mettere il naso fuori in questo mondo cattivo. Che ci pensino gli altri, gli stranieri, o i giovani, a muovere le chiappe. Giornalisti come Giuliana Sgrena, o i poveri Baldoni, Ilaria Alpi, Tiziano terzani, Ettore Mo, sono una minoranza in Italia.
Era così anche nei primi anni Ottanta, quando noialtri del Frigido ci facevamo il mazzo per scandagliare le schiume sotterranee del mondo.
Io avevo sempre la macchina fotografica in mano. Forse era perché avevo appena comprato la leggendaria Nikon F2A, tutta nera, massiccia, con un otturatore che sembrava una macchina da guerra, che tenevo in mano con una sorta di voluttà; fatto sta che non me ne separavo mai. Oggi, anche sulla base della lettura di Sulla fotografia di Susan Sontag, so che era una sorta di chiave di accesso per la realtà, ma questa è un’altra storia.
Fotografavo soprattutto i giovani: gruppi musicali, le feste trendy, le ragazzine con le stanze tappezzate di poster di Marilyn Monroe, giovani teppisti col coltello e gli occhiali neri, motociclisti. La F2A mi apriva tutte le porte, mi permetteva di essere un esploratore e un navigatore.
Sfogliando le riviste illustrate ammiravo le immagini dei punk inglesi, bellissimi. E i punk italiani, mi chiedevo, dov’erano le foto? Si narrava che un fotografo, a Milano, era stato preso a sassate mentre cercava di ritrarli col teleobiettivo. Erano inavvicinabili, ostili.
Inavvicinabili per me e per la mia F2A? Impossibile. Non esisteva ambiente in cui noi due non potessimo entrare. Non avevo dubbi: avrei fotografato i punk italiani.
Così telefonai al direttore del Frigido Vincenzo Sparagna e gli proposi la cosa. “Ma bene!” disse subito. “Molto interessante. Cerca anche di intervistarli, non c’è niente in giro su di loro”.
Le interviste, certo. Mi piacevano le interviste. Cioè, io sono sempre stato un pessimo intervistatore, questo va detto, mi ingarbugliavo, facevo domande contorte, andavo fuori tema, ma proprio questa mia difficoltà, questa mia crisi perenne era avvertita dai soggetti che intervistavo i quali, per aiutarmi – o forse per togliersi dai guai – mi aprivano il loro cuore e non la smettevano più di parlare. Sì, avrei fotografato e intervistato i punk italiani.
A quei tempi vivevo ancora al paese, così andai nell’armadio di mio padre e presi il suo vecchio impermeabile degli anni Quaranta, larghissimo di spalle e stretto in vita da un cinturone con la fibbia dorata. Gli attaccai sul bavero due badges rasta che avevo comprato in un mercatino, poi andai a rovistare in un cassettone in cantina che conteneva ancora le mie cose da ragazzino e la trovai: la fascia elastica ricamata che mi mettevo intorno alla fronte quando avevo i capelli lunghi, dieci anni prima. Quindi scesi in garage, aprii l’armadietto delle cianfrusaglie di mio padre cacciatore e presi le due bellissime penne di fagiano che conservava come trofeo (grazie a Dio mio padre non è mai stato uno di quei dementi che imbalsamavano gli uccelli uccisi). Tornai nella stanza da letto dei miei genitori, dove c’era uno specchio a figura intera, infilai le penne nella fascia elastica e mi guardai: ero una via di mezzo tra Humphrey Bogarth, un indiano sioux e un rastafari. Perfetto. Sapevo che l’aspetto fisico era importante in certi casi. Una volta per avvicinare dei teppisti molto temuti, dei ragazzotti che avevano fatto saltare in aria per errore l’acquedotto di un paese vicino, accendendo una sigaretta nella vasca piena di metano (restando miracolosamente incolumi) e lasciando la cittadinanza furiosa senz’acqua per un mese, mi ero presentato zoppicando vistosamente; trascinavo una gamba, come se fossi uno sciancato grave, ma portavo la mia menomazione con dignità, anzi, con durezza. Li guardavo con aria di sfida, e parlavo bruscamente, come se non avessi tempo da perdere con le loro idiozie. Loro mi fissavano dietro gli occhiali scuri, con volti inespressivi. La cosa funzionò. Realizzai delle foto meravigliose, immagini in posa con esibizioni di coltelli, una pistola (era finta, d’accordo, ma sembrava vera) e le immancabili pose da bullo.
Aspettai che tornasse la mia fidanzata Lucilla da un paese del Polesine dove lavorava tutta la settimana (era venerdi), intanto mi rollai un paio di canne di erba romagnola coltivata in un luogo segreto sull’argine del fiume, tanto per sciogliere le ultime resistenze.
Lucilla arrivò alle otto, trascinando il suo valigione, stanca dopo otto ore di lavoro nell’ufficio contabilità di una cooperativa edile e 150 chilometri di macchina. Salì faticosamente le scale della casa semidiroccata dove abitavamo ed entrò nella stanza disadorna e disordinata che, secondo i canoni dell’abitare, era il salotto.
“Lucy” dissi, balzando in piedi, “andiamo a Bologna”. La borsa con l’attrezzatura era già pronta sul pavimento.,
Lucilla mi guardò a bocca aperta, ancora col valigione in mano.
“A Bologna? Adesso? No, sono stanca morta”.
“Dobbiamo andare adesso” dissi con enfasi. “Andiamo a fare delle foto. Partiamo subito, sennò si fa tardi”.
Lucilla lasciò cadere la valigia e sospirò. Quando dicevo “a fare delle foto” non c’era speranza di farmi cambiare idea, lei lo sapeva, io lo sapevo; era nelle cose, era il destino.
“Non potremmo andare domani?” disse, ma senza convinzione.
Domani? Non se ne parlava. Ero pronto adesso, in quel momento preciso; ero in tiro, l’energia era al massimo, impossibile perdere quell’occasione.
“No, Lucy, si va subito. Andiamo a fotografare i punk, e anche a intervistarli. Prendi il registratore”.
“Ma io ho anche fame” disse, debolmente, guardando il pavimento di piastrelle a orribili chiazze marroni che chiamavano graniglia e che era di gran moda nelle case del dopoguerra.
“Uh. Anch’io. Ci mangiamo un panino per strada”.
Non aspettai la sua replica, mi catapultai in camera da letto, inforcai l’impermeabile, la fascia sulla fronte, le penne di fagiano e mi presentai a lei. “Che ne dici?”
Lucilla mi guardò stranita. “Oh” disse. “Ah”.
"Ok“ tagliai corto. “Andiamo, dai”.
Presi la borsa con la F2A, l’inseparabile 28mm, la mia focale preferita, le pellicole e il flash, mentre Lucilla faceva una puntata in bagno. Scendemmo le ripide scale di travertino sbrecciato, salimmo sulla mia R4 e partimmo per Bologna.
Percorsi i 70 km immerso in una sorta di sogno, come sempre mi accadeva prima di un servizio impegnativo. Era un magma caotico di paura, eccitazione, gusto della sfida e chissà che altro. Ero assente, incapace di ascoltare il resoconto della settimana di Lucilla, di rispondere alla sue domande. Ero sospeso nello spazio, brancolavo nella notte profonda.
Arrivammo a Bologna, dopo una breve sosta in un desolato bar sulla statale, e puntai subito verso Via Marconi. Era lì il punto di ritrovo, davanti a un negozio di dischi. Parcheggiai a una certa distanza, perché volevo arrivare a piedi, volevo vedere le loro immagini che ingrandivano progressivamente.
Mentre Lucilla ed io avanzavamo sotto il portico affollato, li vidi: erano una decina, forse di più, al bivacco. Molto bene. Il materiale umano c’era. I giubbotti di pelle nera, i chiodi, brillavano sotto la luce dei lampioni; niente creste colorate, quelle erano cose per i modaioli inglesi. Gli italiani erano più sobri, più duri, più politici.
Arrivammo nel gruppo e ci fermammo. Mi guardai intorno, li fissai per bene. Anche loro mi fissavano. Guardavano le penne di fagiano, l’impermeabile enorme, i badges rasta. I miei occhi, duri e aggressivi, dicevano: “e allora? C’è qualche merdoso punk che osa stupirsi del mio aspetto?”
Mi avvicinai a un tipo alto e massiccio con una faccia da bravo ragazzo. Era appoggiato al muro in postura di puro disgusto, ma il viso era buono. Poiché anch’io ero un tipo buono, cercavo istintivamente i miei simili. E il mio istinto non sbagliava mai.
Mi presentai: siamo del Frigido eccetera. Lui sbatté le palpebre. “Urgh” fece.
“Senti un po’, voglio farvi delle foto”. Intanto aprii la borsa, tirai fuori la F2A e montai il 28.
“Urgh” ripetè lui.
“Delle foto, così” dissi, infilando il manico del flash nella baionetta, “delle foto di voi, roba buona, roba forte, in bianco e nero”.
“Urgh. Argh” disse.
“Bene, stai così, non ti muovere”. Lo inquadrai e scattai. Il flash lo accecò. Quello era un momento molto delicato, dalla sua reazione poteva dipendere la riuscita del servizio. Si irrigidì, guardò per aria, come se avesse difficoltà a respirare, poi si rilassò, e fece tutto quello che gli ordinai: girati di spalle (facevo spesso le foto di spalle col soggetto appoggiato al muro con le braccia alzate, come in stato di arresto), di fianco, guarda in macchina e così via.
Bene, era andata. E ora volevo gli atri, li volevo tutti.
“Ok ragazzi, facciamo un po’ di foto come si deve adesso”.
Sentivo le penne di fagiano che vibravano sotto la leggera brezza che scorreva sotto il portico come in un corridoio. Li tenevo in pugno. Li avevo colti di sorpresa, non potevano resistermi. Mi dedicai a due ragazze molto giovani, di non più di quattordici anni, che scoppiarono a ridere e si lasciarono fotografare in maniera meravigliosa, offrendosi completamente, senza riserve né timidezze.
Coi tipi più duri, quelli che si chiudevano a riccio, mandavo avanti Lucilla. Lei era avvolta da un’aura molto particolare, come un riverbero di candore infantile che faceva breccia nei cuori più duri e scioglieva ogni resistenza. Un gigante biondo con un paio di anfibi che sembravano due dragamine le ciondolava intorno docilmente e si lasciava sistemare come un manichino contro una colonna.
E io scattavo, scattavo, felice perché vedevo il servizio che prendeva forma, e la F2A assorbiva vorace tutti quei neri scintillanti, quei grigi, quei bianchi luminosi.
Mentre concludevo quella documentazione stupenda, la più fantastica di tutta la mia produzione, una voce mi apostrofò.
“Ehi, sei fortunato, sai?”
Un ragazzo magro, con un faccia ironica, mi squadrava ridendo. “Stasera siamo in parecchi qua. Non capita spesso, di venerdi”.
Aveva una voce dolce, un timbro garbato. Si chiamava Giampi, ed era il leader, disse (per la verità non usò il termine leader, ma era quello il senso) dei punk anarchici. Accanto a lui c’era un tipo più massiccio, coi capelli rapati quasi a zero. Era Steno, il referente dei punk nichilisti.
Li fotografai di fronte e di spalle, under arrest, come gli altri. Ed ora era il momento delle interviste. Giampi e Steno mi illustrarono, come degli oratori consumati, le posizioni degli anarchici – politicizzati, pacifisti, ecologisti – e dei nichilisti – rabbiosi, pessimisti, provocatori: i loro gruppi di riferimento, il loro guardare al movimento punk di Berlino come il più avanzato del mondo. La chiacchierata con loro sarebbe andata avanti per ore, ma c’erano anche gli altri da intervistare. Ci diedero appuntamento per l’indomani, sabato sera, in un magazzino occupato per un concerto. Non potevo assolutamente mancare, disse Giampi, sarebbero venute delle foto “fantastiche”.

Mentre tornavamo verso la macchina, a mezzanotte e quaranta, mi complimentai con Lucilla: i suoi modi garbati, il suo fascino avevano fatto parlare dei tipi chiusi come crostacei. Lei rideva, cadeva dalle nuvole. Non si rendeva conto delle proprie qualità.
Guidai verso casa in uno stato di trance, pensando furiosamente alle immagini, ai problemi tecnici, alle interviste da sbobinare. Sapevo che la notte non avrei chiuso occhio. Lucilla invece dormiva profondamente, si era addormentata di colpo mentre giravo la chiave dell’accensione.

Mi alzo alle otto, distrutto dalla veglia, ma mi riprendo con un fiume di caffè e due brioches laidissime al cioccolato. Il cuore mi martella nel petto, ho un’unica esigenza totalitaria da soddisfare: sviluppare il materiale. Prendo i rullini e, mentre Lucilla dorme, scendo le scale, esco in cortile, giro intorno alla casa ed entro nel miniappartamento al piano terra, che si trova accanto alla stanzona dove vive la mia vecchia nonna svalvolata. Sono due locali, camera più cucina, privi di mobili, a parte il tavolo che regge l’ingranditore e le vaschette coi bagni di sviluppo. Qui infatti ho allestito la mia camera oscura, qui lavoro per ore, per giorni e per notti quando ho del materiale importante.
Benché sia tormentato da questo entusiasmo frenetico, da questa tensione che mi spacca in due quando un servizio è ancora nel limbo delle pellicole non sviluppate, i miei gesti sono precisi, attenti: sviluppo i quattro rullini, li lavo, li asciugo e li guardo controluce: subito un senso di calma inizia a diffondersi nel mio animo febbricitante: tutto bene, anzi benissimo; i negativi sono perfetti. Saltello sul pavimento e prendo a pugni l’aria: sììì!!! E’ una documentazione superinteressante, nessuno in Italia ha niente del genere, ne sono sicuro!
Bisogna stampare adesso. Preparo gli acidi, accendo la luce gialla, mi metto al lavoro.
A mezzogiorno scende Lucilla. Ha gli occhi gonfi di sonno, la voce rauca. Guarda le stampe appese al filo ad asciugare. “Belle” dice.
“Sì!” esclamo. “Hai visto che roba?” Sono davvero belle: dei 30 X 40 ad alto contrasto, come nel mio stile.
“Dunque...” dice Lucilla, “stasera... cos’è, torniamo a Bologna?”
“Ehm sì” dico, immergendo una stampa nel fissaggio. “C’è un concerto importante”.
Silenzio. La sento sospirare. “Volevo chiedere all’Antonella e Piero se uscivamo a cena insieme...” Di nuovo silenzio. Le vado vicino, le prendo le mani. Le mie puzzano di fissaggio.
“Lucy, ti prego, cerca di capire. Devo concludere il servizio, è importante”.
China il capo. “E’ sempre importante” mormora, a testa bassa. Non insiste. Conosce la mia febbre cerebrale. Sa che sarebbe inutile. “Va bene” dice. “Vado a preparare da mangiare. Vieni su tra un po’”.
“Eh?” dico, mentre faccio scorrere la pellicola nella maschera dell’ingranditore.
La sento mentre sale le scale. Canta.

Il locale è un seminterrato, in centro. E’ molto ampio, disseminato di colonne verniciate di nero. Anche i muri sono verniciati di nero, ma in molti punti l’intonaco si stacca, così ci sono delle chiazze color pietra non ancora verniciate. E’ stracolmo: ci sono i punk, quelli che ho fotografato ma anche altri, ragazzi giovanissimi stipati sotto a un palco allestito con delle assi grezze da muratore; gruppi di studelinquenti, militanti din Autonomia Operaia. Sul muro dietro al palco è appeso uno striscione con la scritta: “Occupare le case sfitte”. Gli occhi mi lacrimano per il fumo, così denso che oscura persino la luce delle brutte lampadine che pendono dal soffitto.
Due punk ben piantati non ci mollano un istante. Sono le nostre guardie del corpo. Uno di loro, un ragazzo coi capelli cortissimi, la gonna e le calze a rete (era un particolare stile punk berlinese quello di inserire elementi femminili nel proprio aspetto) dice che la mia macchina fotografica è troppo bella, potrebbe suscitare tentazioni troppo forti. Ride, lanciando occhiate intorno a sé. Guardo la F2A: sono d’accordo.
Dopo mezz’ora inizia il concerto. Sono in quattro: cantante, chitarra, basso e batteria. Il bassista è a torso nudo e tiene il basso con la tracolla allungata al massimo, come Sid Vicious. Nella sala si riversa subito un ruggito furibondo, una materia sonora solida, selvaggia che ingoia ogni ritmo, ogni melodia. I ragazzi sotto al palco ballano e si spintonano, come fanno i punk, mentre gli autonomi e gli studelinquenti vagano per la sala, con aria assente.
Dopo quaranta minuti decido che ho scattato abbastanza. Le orecchie mi fischiano, la testa mi scoppia. Faccio capire a gesti a Lucilla che possiamo andare. Salutiamo i due nostri accompagnatori e usciamo all’aria aperta. Respiro a pieni polmoni, mi sembra di essere in montagna dopo l’oppressione di quella cantina fumosa. Ho il tam-tam della musica cavernosa ancora nelle tempie.

Spedisco le foto e le interviste con un corriere. Non me la sento di andare a Roma. Non ho dormito per due notti, e quando la tensione che mi sosteneva è calata mi è venuta una febbricola e un mal di schiena che mi ha costretto a letto per un giorno e una notte.
Telefono al direttore. E’ entusiasta. Gli va dato atto che, se un servizio gli piace, non lesina le lodi. Forse perché in questo modo compensa l’esiguità del compenso. Infatti me lo paga una miseria, una cifra che basta appena a pagarmi i viaggi a Bologna e una parte del materiale fotografico. Ma è inutile protestare. Col direttore è così: prendere o lasciare; e siccome il servizio è in mano sua, e non lo mollerebbe per nessuna ragione al mondo, è inevitabile lasciare. E poi sono troppo contento del lavoro, la mia documentazione sui giovani adesso è monumentale, unica.


Il servizio uscì dopo due mesi. Bellissimo. Era su sei pagine, uno standard elevato per la fogliazione di quel periodo, in cui i servizi raramente superavano le quattro. Bologna punk, questo il titolo. Ne comprai due copie e le riposi gelosamente nella mia collezione.


Dopo due settimane mi telefonò Giampi.
“Eilà” dissi, sorpreso.
“Bellissimo il servizio” disse. “Complimenti. Le interviste sono così... fresche, sincere. Le foto poi... splendide”.
“Grazie” dissi.
“Hai visto l’#*+?” chiese, e nominò uno dei settimanali più diffusi.
“No. Perché?”
“Te l’hanno copiato completamente. Va’ a comprarlo, è pazzesco”.
Riattaccai in preda a emozioni contrastanti: mi divertiva l’idea che i giornali ricchi sfruttassero il lavoro di avventurieri squattrinati come noi, questo confermava alla perfezione che su questa terra il Potere vince sempre le sue battaglie, mentre noi, gli ultimi eroi solitari, i cavalieri del Santo Graal, siamo sempre sconfitti, derubati, perché così vuole la Storia, così vuole Dio. Ma domani noi saremo i primi, mentre loro, i ladri e i furbi, razzoleranno nella merda. Però provavo anche rabbia, disprezzo, voglia di vendetta.
Andai all’edicola e comprai la rivista. Il servizio era molto esteso, firmato Santi Piotta. Con stupore lessi le nostre interviste inserite nell’articolo, che era il solito svolazzo mondano, salottiero; le interviste erano diventate sue, le aveva realizzate lui. L’impianto del testo poi si basava sul fatto che i punk italiani si dividevano in anarchici e nichilisti, e facevano riferimento al movimento di Berlino.
Scoppiai a ridere. No, era troppo buffo, inutile arrabbiarsi. Seduto al suo bel tavolinetto, col telefono in mano, gli era stato servito su un piatto d’argento questa bella pietanza già cucinata e condita. Doveva solo consumarla. Che fortuna, eh?

venerdì, novembre 18, 2005

Avanti tutta

E’ il momento dell’indignazione per gli sprechi della politica. Tutti ne parlano, i giornali, la tv, tutti si indignano, questionano, puntano l’indice, poi, tra qualche settimana, tutto finirà in quel grande contenitore interrato dove c’è la mucca pazza, l’aviaria, e tutti gli altri tormentoni stagionali, e si continuerà come prima, anzi, peggio, in allegria e leggerezza, come sempre.
Comunque stamattina su La 7, nel programma Omnibus, Antonello Pirroso presentava un libro di due DS (uno è Cesare Salvi, l’altro non ricordo) che faceva un elenco impressionante di sprechi scandalosi, nazionali e locali: opere finanziate e mai realizzate, eventi assurdi (e costosissimi), consulenze d’oro e tutto il resto. Poi c’era un altro DS, credo un senatore, un soggetto con un gran faccione, che si è messo a questionare sul "populismo" che viene regolarmente utilizzato per attaccare gli stipendi e i privilegi degli onorevoli. Anche loro, diceva, hanno dei problemi. Ci sono degli industriali che, poverini, perdono un sacco di soldi mentre sono parlamentari; lui, poi, perde scatti e carriera, perché sarebbe direttore generale della sua azienda, invece deve trascinarsi nel logorante mestiere del parlamentare. Stiamo attenti ad attaccare, a criticare, perché i poveri parlamentari sono sotto pressione, e si sacrificano.
Quello che mi ha colpito di questo individuo DS era la boria che traspirava dal suo faccione. Erano offensive le cose che diceva. Mai avevo assistito a una tale esibizione spudorata di privilegio. Credo che, con quella apparizione, questo personaggio avrà fatto perdere centinaia, se non migliaia, di voti al suo partito.

mercoledì, novembre 16, 2005

Una situazione imbarazzante

La Corte Costituzionale ha bocciato i tagli agli enti locali, e l’opposizione esulta. I "governatori" delle Regioni poi parlano di sentenza storica. Ecco, vedete, il governo non ne imbrocca una su una, e Tremonti crea solo disastri. Come non condividere queste affermazioni? Però vediamo nel dettaglio quali erano i tagli bocciati: 50% per spese di consulenze esterne; 50% per spese di relazioni pubbliche e rappresentanza; 50% per spese di auto blu; 10% per le indennità dei sindaci e gov di Regioni e Province; 10% per le indennità dei managers di aziende controllate dagli enti locali. Bene. Non si può essere d’accordo con questo governo, con questi personaggi, perché è contronatura. Le creature del Buio non possono avere ragione, mai. Però io taglierei almeno il 75% delle spese per consulenze esterne, perché gli enti locali con queste trovate buttano via miliardi di euro; e i sindacati, quelli ufficiali, non solo gli autonomi, sono furiosi, perché in questo modo si sviliscono le professionalità interne, si fanno "regali" agli amici, e anche le giunte di sinistra non scherzano. Taglierei minimo il 50% delle spese di relazioni pubbliche e rappresentanze varie, perché questo è un enorme buco nero di cui nessuno è in grado di vedere il fondo. Taglierei almeno il 50% delle auto blu perché tutti ne abusano, è stranoto; e taglierei più del 10% delle indennità varie, perché tutti sanno che i politici italiani sono i più pagati d’Europa. Dunque: è contronatura essere d’accordo coi demoni, però come la mettiamo?

lunedì, novembre 14, 2005

Sono arrivati i calendari

Sì, siamo in pieno periodo. I mensili presentano la brava velina di turno, la starlette doverosamente nuda, o seminuda. Posare per un calendario "in", cioè allegato a un giornale "importante", è un segno di sicuro successo, un segnale di arrivo, o di partenza per una sfolgorante carriera di soap televisive, di film pecorecci di natale (anche se spesso è un percorso accidentato e di breve durata). Poche rifiutano, qualche attrice con un look impegnato, o, cosa rara, di temperamento serioso. Ovviamente poche tra quelle calendariabili, perché non tutte hanno i requisiti giusti: che sono abbastanza rigidi, non tanto sul piano fisico, perché tutte le starlettes sono belle, morfologicamente adeguate; no, il requisito fondamentale è che la sua immagine contenga già un messaggio di peccato, abbia qualche scomparto segreto in cui la fantasia dell’osservatore possa scatenarsi. La modella-calendario di turno deve fare parte del piccolo squadrone di veline, soubrettes, presentatrici che già appaiono semisvestite in video, e che l’osservatore potrà finalmente svestire del tutto, spiare, frugare. Le foto sono studiate accuratamente per questo scopo, e la tecnica è ormai acquisita solidamente e senza alcuna incertezza. Sono ripetitive, sempre uguali da oltre vent’anni. I corpi sono tesi, ritratti perlopiù in pose drammatiche e spesso innaturali. Il nudo è integrale, ma non viene mostrato il pube. C’è questa meticolosa autocensura, questa pruderia mascherata da trasgressione. Sono foto per consumo voyeuristico, non hanno nulla in comune con le cosiddette "foto artistiche"; non sono immagini di ricerca; non sono oggetto di studio della bellezza, dell’armonia (o della disarmonia, perché no), dell’erotismo; appartengono a schemi fissi, e nonostante le luci calde, da spiagge tropicali, sono fredde, distanti, negative. E non cambieranno mai, almeno finché non cambierà la subcultura che genera la domanda; il che, considerando il nostro paese, mi sembra abbastanza improbabile.

mercoledì, novembre 09, 2005

I Sempregiovani

Quando il tempo passa, e il corpo umano prosegue nel suo spietato declino fisico, perché non sappiamo in quale altro modo chiamare l’invecchiamento delle cellule e dei tessuti, vi sono persone che provano un grande disagio, forse un vero e proprio terrore, nel verificare questo processo su se stessi. Si soffre a invecchiare, non si accetta questo destino che unisce ricchi e poveri, carnefici e vittime.
Il Sempregiovane cerca di opporsi con tutte le sue forze a questo implacabile processo. Durante il ciclo vitale il corpo, l’aspetto fisico, e spesso la mentalità entrano in fasi di sviluppo diverse, procedono per tappe nel loro cammino di crescita, sviluppo e declino. Quando si diventa “grandi” ci si veste da grandi, si parla da grandi, si agisce da grandi. I Sempregiovani intristiscono quando si rendono conto di essere grandi, o quanto meno che dovrebbero esserlo. Si deprimono, si sentono perduti, condannati. Eccoli quindi, a quaranta, cinquant’anni, che frequentano i negozi di abbigliamento per ragazzi, comprano pantaloni militari, da rapper, da skateboardista, jeans stracciati e camicie col collo alto, a righe sgargianti; inforcano occhiali scuri avvolgenti, all’ultima moda, e non è raro che si facciano tatuare simboli Maori o un filo spinato su un bicipite; si sentono un po’ a disagio attorniati da ragazzini, si sentono fuori posto, ma si sentirebbero peggio a entrare nei negozi per babbioni a comprare pantaloni con la riga, e la giacchetta grigia, e la camicia azzurrastra. Più il tempo passa, e il processus si fa evidente, più loro si accaniscono nelle scelte giovaniliste. Il Sempregiovane cerca anche di mantenere il proprio corpo in forma fisica perfetta, con lunghe corse nei parchi, spesso con due pesi in mano, o in cintura - soffrendo come un cane, ma soddisfatto, in fondo, perché l’arresto del tempo va pagato caro - e una frequentazione più o meno regolare di palestre e centri estetici. In questo sono seguiti dalle Sempregiovani, che devono lottare ancora più duramente contro l’invecchiamento e il terrificante rilassamento dei tessuti. Perché, ovviamente, vi è anche la versione femminile: ho conosciuto di persona alcune Sempregiovani, a Milano, quando mi capitava di frequentare le agenzie di pubbliche relazioni, moda e pubblicità. Erano soprannominate “le belve”, o “le fiere”, per gli atteggiamenti aggressivi. La pelle era brunita, seccata dalle continue lampade, e sul torace scarno, con le ossa in evidenza, perché erano mezze morte di fame per le feroci diete, non mancavano mai lussuose e sfarzose collane; il trucco, benché raffinato, era sempre eccessivo sui loro volti scarnificati di donna matura, e le labbra scarlatte, non ancora gonfiate dalle iniezioni di silicone, sembravano ferite sanguinanti. Indossavano corpetti o giacche di tessuto maculato, calze a rete, scarpe con tacco alto rosse, o viola, o blu, o gialle, o a scacchi stile anni Sessanta.
I Sempregiovani hanno difficoltà spesso dolorose in famiglia. Lui, se è accasato, e spesso lo è, si sente oppresso, e tende a rinchiudersi in uno spazio tutto suo, uno studio, o fuori casa, con gli amici. Quando deve occuparsi della famiglia, quando è costretto a uscire con loro, per una cena al ristorante, o per fare compere, si sente raddoppiare di peso, diventa cupo. Vorrebbe fuggire via, ritrovare la libertà della giovinezza, frequentare gente libera, come lui, perché è libero, nell’abisso dell’animo. Lei raramente ha famiglia, spesso è divorziata, o separata. La famiglia la spaventa, perché è attratta solo dai ragazzi: impazzisce per i corpi maschili giovani, in tiro, scattanti; l’uomo che secondo le regole della società sarebbe adatto a lei, l’uomo maturo, che ha superato i cinquanta e si avvia ai sessanta, con la pancia, le guance che iniziano a cadere, i capelli radi, o grigi, e il tono muscolare in fase calante, le ispira una sorta di repulsione, o di tristezza. Talvolta ci pensa, una voce estranea e sgradevole le dice che non può continuare a correre dietro ai ragazzi, perché i ragazzi se ne fregano di lei, o se la guardano, e l’accettano, è per motivi di interesse, perché sono dei fotomodelli, degli aspiranti qualcuno e lei può aiutarli nella carriera; dovrebbe rivolgersi a un uomo adatto a lei, alla sua età; ma questo è un pensiero straziante, che lei scaccia subito, con un guizzo repentino dell’animo.
I Sempregiovani rifiutano, non si adeguano, cercano di mandare in frantumi i ruoli che pretendono di imprigionarli e di rovinarli: quei ruoli che esaltano attraverso i media la bellezza giovanile, e relegano chi è fuori, chi ha perduto per sempre l’età, nella folta, grigia, triste, claudicante truppa dei brutti, dei vecchi, delle persone di serie B. I Sempregiovani si ribellano a questo destino che è loro imposto dalle convenzioni, ma la loro è una ribellione anomala, è implosiva: inseguono una deterritorializzazione della persona, cercano di spezzare la gabbia degli schemi conformisti, ma finiscono per riterritorializzarsi crudelmente assumendo su di sé proprio gli imperativi di quei ruoli, il conformismo della giovinezza, della moda giovanile propagandata dai media spinta ai limiti estremi.
Per questo, per questa sofferenza senza uscita, per questa contraddizione che si avvita su se stessa, i Sempregiovani sono persone fragili, vulnerabili, e meritano tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà.

giovedì, novembre 03, 2005

Venite a me

Due interventi di maline e Sergio stimolano alcune riflessioni. Riguardo a Celentano siamo tutti stupiti del successo delle sue prediche, di come uno che cantava "Yuppy Du" e recitava nei film pecorecci stia diventando una sorta di telepredicatore nazionale. In particolare Sergio scriveva: "spara le peggiori cazzate da bar con l'aria di un profeta e tutti accolgono queste cazzate come lampi di genio. Veramente incomprensibile"; e maline: "che oggi poi proprio l'Adriano-da-via-Glück venga "osannato" e "chiamato" a rappresentare una parte della lotta contro Berlusconi... beh, la dice tutta sul punto (e sulla miseria) cui si è giunti". Il punto è proprio questo: i predicatori, le cazzate, le banalità, la retorica da bar. Ci inondano, ci sommergono. Ma non è solo un fenomeno italiano, è tipico di tutto l’Occidente moderno, il mondo post-caduta-del-muro diciamo. L’America ne è piena. E da altre parti, dove vi è povertà, corruzione, infuriano gli integralismi, che vengono utilizzati con astuzia dai governanti locali per coprire i proprio fallimenti e le ruberie. C’è un passo del libro di Terzani Buonanotte signor Lenin che mi sembra significativo: durante il lungo viaggio nelle regioni più remote dell’impero sovietico in sfacelo un prete gli dice: (cito a memoria perché ho prestato il libro) "noi siamo per il capitalismo, perché questo sistema distrugge tutti gli ideali e la morale, e la gente si rivolgerà alla Chiesa per avere conforto e spiritualità".
E’ una grande, tremenda verità. Il trionfo del capitalismo sul pianeta, il sistema fondato unicamente sul consumo di beni non necessari, la rovina dell’ambiente, la paura del futuro, della crisi economica sempre minacciosa, della disoccupazione, della guerra, del terrorismo, ha distrutto le ideologie, ma anche le speranze. Nessuno crede più veramente nel futuro, nello "sviluppo". Il tempo è fermo al presente. Eppure è nella nostra natura guardare avanti, credere, sperare, avere fiducia. A questo ci pensano le religioni, e i predicatori fai da te. Tutto ciò è perfettamente funzionale al Potere, che prospera nell’incertezza, e soprattutto nella paura. E’ un’analisi già ampiamente sviluppata da molti commentatori, ed è abbastanza semplice. Quello che non trovo semplice è il motivo per cui nulla cambia. Sui falsi ideali, sulla tendenza dell’uomo a rubare il pane al fratello per avere piaceri e ricchezze il dio terribile dell’Antico Testamento scaglia i suoi anatemi e le maledizioni; e Gesù caccia fuori a calci i mercanti dal tempio; sono problematiche eterne, già affrontate dagli antichi. Eppure i mercanti tornano sempre, più arroganti che mai. Pochi individuo, furbi, senza scrupoli, controllano le risorse del pianeta e causano la morte per fame di milioni di persone. E nulla cambia. L’uomo non riesce a darsi un’organizzazione sociale positiva, non riesce a trovare un rapporto pacifico coi suoi simili e con la natura. Questo non è per nulla semplice, è incomprensibile e angosciante.
Comunque stasera dal vekkio caciarone c’è Patti Smith, non perdiamocela. Speriamo solo che, come si mormora da tempo, non spunti fuori, lui, sì, proprio lui, il Berlusca in persona.

martedì, novembre 01, 2005

Che fine ha fatto la meraviglia? E i meravigliosi?

Se proprio dovete andare, se il richiamo è troppo forte – come lo è stato per me – scegliete almeno la prima proiezione, perché durante la seconda, dopo le 22.30, se siete un po’ stanchi The interpreter vi farà piombare in sonno tombale. Il film è piuttosto monotono, per due terzi non accade assolutamente nulla, la storia non è particolarmente avvincente né è sviluppata con stile originale. Ero molto attratto dalla grande firma di Sidney Pollack, pensavo: finalmente uno di quelli tosti, in questi tempi di commedie o di kolossal hollywoodiani e qualche italianata sentimentale. Invece niente da fare. Un racconto lento, scarsamente intrigante, con pochi colpi di scena. Sean Penn, nei panni di un poliziotto buono e malinconico, sembra sempre sul punto di addormentarsi, come lo spettatore; almeno Nicole Kidman, ripresa in frequentissimi primi piani che mostrano la trama della pelle, lo strato del trucco e i capillari degli occhi, è molto fotogenica; e la poliziotta socia di Penn ha un viso interessante: sono le cose migliori di questo pizzone surgelato.
Oggi il marketing è padrone dei nostri gusti, determina le nostre esigenze. Confezionano gli spot, i trailers con una tale carica che tutti corriamo a vedere The interpreter, o la burbanzata di turno, e usciamo regolarmente delusi, e magari un po’ arrabbiati; qua a Bologna per esempio il marketing ha martellato sull’ultimo libro di Grisham, The Broker (una volta in Italia si traducevano anche i colpi di tosse, oggi guai a togliere la patina di americano) e tutti corrono a comprarlo, come un oggetto prezioso, raro (mentre è presente, sotto forma di altipiano, in tutte le librerie), poi lo iniziano, e si piantano perché è una noia, fa schifo. C’è sempre questa attesa per l’ultima meraviglia, e questa delusione perché la meraviglia promessa non esiste, è solo fumo, solo packaging. Ma poi si ricomincia, si corre, si compra con una sorta di affanno, e si impreca.
Non esiste più la meraviglia? I freddi managers che hanno occupato le case editrici, le case discografiche e cinematografiche l’hanno uccisa, come si dice da tempo? Può darsi. Solo dalla libera creatività, dalla fantasia liberata, dal coraggio, dalla sfida, e dalla sofferenza, nasce la meraviglia artistica. I prodotti in linea con le mode, con le esigenze del mercato, i prodotti da supermarket, non contengono la meraviglia. Tutto è medio, costruito, manierista.
Ma non è solo colpa dei freddi managers. E’ anche colpa nostra. Se gli artisti, quelli veri, sono in sonno, o gridano nel buio, è anche perché noi, impegnati nell’opera di quotidiana omologazione, noi che corriamo a Mediaword a meravigliarci per le ultima, strabilianti offerte di quel mondo sfavillante di consumi facili, noi non siamo più disposti ad ascoltarli.