giovedì, marzo 31, 2005

Le convergenze parallele tra i poli opposti di due scrittori

Mi sono chiesto che cosa unisca Vitaliano Brancati a James Ellroy. Qualcuno dirà: suvvia, è una battuta, una provocazione. Forse. In effetti sembrano due scrittori agli antipodi. Ellroy è considerato il maestro del noir americano, Brancati è italiano che più italiano non si può. Ellroy è freddo, cupo, Brancati è meridionale, ironico. Eppure hanno in comune più di quanto si pensi. Le ambientazioni e il tempo per esempio: Ellroy si muove nel buco nero della Los Angeles degli anni ’40, Brancati nella Sicilia profonda, oscura benché inondata da un sole cocente, degli anni ’30. Entrambi hanno il gusto di scavare negli aspetti più nascosti, più torbidi del territorio.
Ma ciò che davvero li unisce è la cappa. Vivono sotto una campana a chiusura stagna che non fa passare aria né luce. Non si respira là sotto. In Ellroy tutto è oscuro, maledetto; i personaggi sono criminali, o quanto meno disonesti; i poliziotti sono marci. Non vi è un filo di speranza, né la prospettiva di un riscatto. Tutto si avvita su se stesso, implode nel fango e nella morte. Brancati ci mostra i siciliani schiavi dei loro pregiudizi, ossessionati dal gallismo fino alla macchietta, alla pazzia. Le convenzioni spinte agli estremi, l’ipocrisia, l’accidia stringono i personaggi in una morsa e li riducono in poltiglia.
Leggendo questi due scrittori provo emozioni simili. Lo stesso senso di soffocamento, e vedo lo stesso paesaggio disturbato, asimmetrico. E respiro gli stessi miasmi di infelicità. In Ellroy l’infelicità di non avere un futuro, un amico. In Brancati, come scrive Sciascia in coda al Bell’Antonio, "l’infelicità di vivere sotto un dispotismo più o meno blando, nella corruzione, nella cortigianeria".

mercoledì, marzo 30, 2005

Televisioni

La mattina, mentre faccio colazione, accendo la tele e guardo per qualche minuto Istruzioni per l’uso, che va in onda su RAI 3. Emanuela Falcetti, simpatica e ruvida, parla al telefono con dottori, commercialisti, avvocati, funzionari, li incalza, li interrompe, li sgrida. Poi, verso le sette, dice: "bene, e ora lasciamo la linea al giornale radio e ci trasferiamo in televisione!" Segue qualche secondo di pausa, la Falcetti lancia un’occhiata verso la regia, infine muove un braccio in direzione del video e fa: "ecco! Ora siamo in televisione, buongiorno!" Ma c’era già in televisione. Ogni volta mi chiedo: ma quelli di RAI 3 lo sanno cosa trasmettono?
* * *
Un altro appuntamento fisso in casa mia è il telefilm americano Una mamma per amica, su Italia 1 circa alle 19.40. E’ il programma preferito di mia figlia, e quindi non si transige. Io lo guardo per una decina di minuti, poi mi causa una sorta di febbre cerebrale e devo andarmene fisicamente, oppure distrarmi, occuparmi d’altro (perlopiù finire di cucinare e apparecchiare la tavola). E’ la storia di madre e figlia (la figlia, di circa sedici anni, è praticamente la sosia si Vanessa Paradis, qualcuno la ricorda?) in una cittadini americana, con contorno di amici, college, hamburger, qualche storiella di cuore sempre sofferta. Quello che mi sconvolge sono i dialoghi: da un punto di vista letterario sono interessantissimi, e cerco di studiarli, finché resisto: sono ultranevrastenici, valanghe di parola sparate da una mitragliatrice verbale che non ha mai sosta. Sono notevoli, davvero. Solo che mi fanno letteralmente friggere il cervello. Mi viene il terrore che si possa veramente parlare così. Che io possa parlare così. E’ una fantasticheria insostenibile.

lunedì, marzo 28, 2005

La macchia umana

E' considerato il romanzo più controverso di Phip Roth. Alcuni scrittori alla moda l'hanno stroncato (Piperno l'ha definito "un romanzo mancato"). Continuiamo il dibattito con l'intervento di una nuova collaboratrice del Blog.

La Nico

Il professor Coleman Silk è stato quel che si dice di un uomo illuminato. Ha svecchiato i princìpi baronali dell’università dove insegnava letteratura greca, è diventato preside. Ha spiegato ai suoi allievi che la letteratura inizia con una lite feroce fra Achille e Agamennone per banali motivi di corna: le più grandi tragedie nascono per ragioni futili, se dietro ci sono abbastanza malizia e energia repressa. Coleman Silk si è fatto molti nemici ma di onore nemmeno l’ombra. I colleghi biliosi non aspettano che un piccolo passo falso per poterlo far fuori, e un giorno, inaspettatamente, succede. Il professore fa l’appello e nota che due studenti non si sono mai presentati a lezione. Fa un’affermazione innocua: “Do they exist or are they spooks?” (“Esistono o sono spettri?”). Il significato più comune della parola “spooks” in americano è “spettri”, ma può voler dire anche “negri”, in senso spregiativo. Coleman vuole intendere la prima accezione, naturalmente, ma vuole il destino che i ragazzi siano proprio di colore, e che lo denuncino per razzismo. Parte una surreale macchina del massacro e Coleman lascia annichilito e furente l’università; vede morire la moglie che non ha sopportato l’onta, o la rabbia, o il disgusto. E da quest’uomo apparentemente finito inizia la strabiliante costruzione narrativa di Roth.
A monte dell’ineccepibile Coleman Silk, tanto per cominciare, c’è un segreto. Non tanto un’azione che ha svolto in passato, quanto un’azione che ha svolto verso il suo passato; una macchia che si porta addosso e che nessuno al mondo conosce, nemmeno sua moglie o i suoi figli. E poi, Coleman Silk ha un’amante. Un’amante con meno della metà dei suoi anni, selvatica e analfabeta, che gli è capitata improvvisa dopo la morte della moglie. Quando sembra che niente possa più somigliare alla vita, si attacca a tutto ciò che può diventarlo; e nell’estate in cui Clinton rischia l’impeachment per le effusioni di una stagista, Coleman trova grazie al Viagra una parvenza di vita nuova. Fa sesso con la sua giovanissima amante, sesso unicamente fine a sé stesso, sincero e appagante come deve essere. Al sesso non si deve chiedere altro, non a settantadue anni, e forse neanche prima. Ma è un altro passo verso il linciaggio, perché neppure i suoi figli accettano che un vecchio possa ancora vivere di soli spensierati orgasmi, con la navigata e naufragata esperienza della vita e i balli nel salotto su vecchie canzoni di Sinatra che gli ricordano com’era vigoroso, indomito e perfettamente felice a vent’anni. Nessuno capisce che quello di Coleman non è un flirt, ma un testamento, perché alla sua saggia e inverosimile amante decide di dare tutto ciò che ancora possiede: quel po’ che resta del suo corpo, e il suo segreto, la macchia.
La macchia umana (Einaudi) è stato tacciato di sessuomania, e mi permetto di dissentire. Roth non tesse l’elogio degli amplessi di Clinton né di Coleman: parla piuttosto dell’invecchiare senza averne le armi, dell’impossibilità di sopravvivere al devastante ricordo della giovinezza. Allora il sesso sintetico - la pastiglia di Viagra che inghiotte, disperatamente solo, mentre aspetta l’amante – non è la soluzione, è piuttosto l’estremo appiglio cui aggrapparsi quando tutto il resto è finito.
Roth crea un affresco imponente, poliedrico eppure compatto, pretenzioso perché in grado di esserlo. Piazza la retorica solo esattamente dove serve, stempera la magniloquenza nel flusso cristallino di parole ironiche e perfette, giusto un attimo prima che inizi a pesare. Erge il fatto personale a tragedia, epopea. La vita è un dramma in cui ognuno avrebbe voluto che qualcosa fosse andato diversamente, è un intrico incomprensibile di eventi che non abbiamo la minima capacità di comprendere, o di arrestare, o di penetrare, e che quasi ci appare inverosimile. Ed esattamente in questo sta la forza e la bellezza di Roth. Il lettore crede consciamente al parossistico e al paradossale perché decide di credere nell’essenza tragica della vita. Uno dei motivi, forse il più forte, del romanzo.

venerdì, marzo 25, 2005

Destra Sociale al governo

Su Il Diario della settimana c’è una inchiesta – a cura di Luigi Settembrini - molto dettagliata sui cinque anni di governo regionale di Francesco Storace, leader di Destra Sociale. Ne riassumo i punti salienti.

Privatizzazioni: Storace, detto “lo Schwarzenegger de noantri”, ha messo in vendita 950 appartamenti delle ASL affidandoli a una società privata che ha immediatamente sfrattato 150 famiglie. Di questi, 41 ( i più belli, tutti in centro storico) sono stati affittati discrezionalmente a vip amici suoi. Costoro potranno acquistarli con uno sconto del 30%, mentre gli altri affittuari non vip dovranno pagarli a prezzo intero. Commento di Storace: “e allora?”.

Ambiente: nei primi 100 giorni di governo ha subito approvato quattro provvedimenti: eliminazione del nulla osta sanitario per l’installazione di antenne per telefonini; preapertura della caccia e aumento delle specie cacciabili; eliminazione sul versante laziale di 34.000 ettari di aree contigue al Parco nazionale d’Abruzzo; possibilità di edificare in zona agricola. Nel 2001 ha sanato tutte le cave abusive che operano in zone paesaggistiche e le occupazioni abusive di aree demaniali e fluviali; infine la leggendaria “legge tagliaparchi”, con la quale ha cancellato 18.000 ettari di parchi e riserve naturali, aprendoli alla caccia, alle cave e all’edilizia. In alcune aree archeologiche sarà possibile costruire palazzine. Ovviamente queste aree sono di proprietà di vip e amici vari: Todini, parlamentare di Forza Italia, Ligresti, vari nobili romani.

Finanziamenti alla cultura: dopo avere tagliato i fondi a tutte le associazioni antifasciste ha finanziato tra gli altri: La fondazione Julius Evola, la lista universitaria del MSI degli anni Sessanta, la Fondazione Tremaglia, l’associazione Don Chisciotte per un convegno sulla produzione canora della Destra con pubblicazione di un CD dal titolo Cantieri Ruggenti (il meglio delle canzonette della Destra).

Dirigenti: dopo quattro anni di governo Storace il costo totale dei dirigenti è passato da 17 milioni di euro a 40 milioni. I dirigenti della precedente Giunta erano 286, con lui sono diventati 442, quelli del Consiglio sono passati da 33 a 84. Costoro, perlopiù personaggi senza titoli, in base a una leggina ad hoc, hanno avuto un immediato aumento di stipendio di 11.000 euro annui.

Edilizia scolastica: il 90% dei fondi sono stati stanziati ai comuni governati dalla destra, in una regione in cui il 50% dei comuni è di Centrosinistra.

Gli amici e i kamerati: Paolo Stamegna, nominato direttore del Parco degli Aurunci, nell’aprile 2004 è stato condannato a sei mesi di reclusione per abusivismo edilizio. Ha diretto un cantiere per l’edificazione di quattro villini abusivi (confiscati poi dal Comune di Itri). Domenico Gramazio, detto Il Pinguino, di Destra Sociale, quello che ha definito “innocue” le leggi razziali fasciste, è stato comodamente sistemato all’Agenzia regionale della Sanità. Un servizio delle Jene ha immortalato le auto acquistate e attrezzate dall’Agenzia per le emergenze sanitarie utilizzate in realtà dai dirigenti come auto di servizio. Marco de Vincentiis, otorino personale di Storace, è diventato professore ordinario alla Sapienza di Roma grazie a un concorso truccato per il quale suo padre e altri 7 noti otorini sono stati condannati con sentenza definitiva per abuso di atti d’ufficio e falso ideologico. Il Consiglio di Stato ha giudicato falso il verbale del concorso e la Corte d’Appello ha annullato il concorso. Tuttavia De Vincentiis continua a ricoprire il suo incarico alla Sapienza ed è candidato nella lista Storace.

E molto, molto, molto altro ancora.
Per solaris (commento alla recensione su Maggiani):

sì, questi casi editoriali così pompati ci irritano e ci respingono, ma noi siamo una minoranza, e poi loro, i "pompatori" ci accusano di essere invidiosi del successo altrui. Non è detto che non vi sia un fondo di verità in questa affermazione. Comunque cercherò di capirci qualcosa su Piperno, prima o poi.

giovedì, marzo 24, 2005

Volevo leggere Piperno e poi…

Il Viaggiatore notturno di Maurizio Maggiani

Di Riccardo Bigi

Sono andato in libreria, ho preso in mano il libro da una delle tre pile alte dal pavimento alla mia spalla, l'ho guardato, soppesato... Poi ho girato lo sguardo e ho visto, defilato, su un espositore, Maurizio Maggiani, Il viaggiatore notturno (Feltrinelli). Maggiani è uno scrittore complesso, poco alla moda. Su questo libro avevo letto solo qualche piccola segnalazione (non certo i servizi di sei pagine con foto in copertina come quelli dedicati al Caso Piperno). Ero lì, in mezzo alla libreria, da una parte il caso letterario, dall'altro uno che ci mette anni a scrivere un libro, perché deve prepararsi, viaggiare, conoscere i luoghi e le persone. Un anarchico, un grande raccontatore di storie. Scegliere era obbligatorio: per motivi economici (i libri non costano poco) ma anche di tempo. Non riesco a leggere tutto quello che vorrei, devo discernere, vagliare. Così ho afferrato Maggiani, ho pagato e sono uscito.
Se non avete mai letto nulla di questo magro cinquantenne, nato sulle montagne tra Liguria e Toscana, Il viaggiatore notturno è un’ottima occasione per cominciare. "Maggiani", recita la sua scheda, "vanta un curriculum da scrittore americano dei tempi eroici: è stato maestro carcerario, maestro di bambini ciechi, operatore cinematografico, aiuto regista, montatore, fotografo, pubblicitario, costruttore di pompe idrauliche, impiegato comunale". Ha raggiunto una certa notorietà una decina di anni fa, quando Il coraggio del pettirosso vinse qualche premio letterario; lo ricordo anche affacciato al balcone del Costanzo Show, un po’ spettinato, sembrava un uccellino caduto dal nido. Il suo nuovo libro parte dal deserto africano dell’Hoggar, anzi esattamente dalla tomba di Charles de Foucauld, soldato, viaggiatore, eremita e poeta, e arriva fino al sanguinoso assedio di Tuzla, durante la recente guerra di Bosnia, con un volo di rondine che attraversa paesaggi, storie, personaggi. È un libro che parla di animali (il protagonista è un etologo che studia le migrazioni di uccelli e mammiferi) e di uomini, che fra tutte le bestie sembrano essere le peggiori. Ma è un libro che parla anche di pietà umana, della ricerca del bello, del vero e del buono nella tragedia della guerra, della ricerca del Semplice nel disordine del mondo. Maggiani usa una prosa molto bella, mai banale, racconta storie fuori dal tempo come quella del fiero popolo africano dei Tagil, abitatori del deserto, o dell’antica setta balcanica dei Bogumili, che per sopravvivere mescolano islam e cristianesimo.
Piperno lo leggerò quando esce in edizione economica.

mercoledì, marzo 23, 2005

Malizia fascista

Gianfranco Fini ha definito Alessandra Mussolini "il cavallo di Troia della sinistra". Dico, l'avrà pensata o gli è venuta così?

martedì, marzo 22, 2005

La Sacra Rota? E che è?

Dunque la Chiesa, per bocca del card. Bertone, ha lanciato un anatema contro Il Codice da Vinci, invitando tutti, cattolici e atei, a non comprare il libro. La scelta dei tempi è un po’ strana, perché intanto ha venduto venticinque milioni di copie, e sono usciti addirittura vari testi interpretativi, le guide al Codice. Oppure i tempi sono stati studiati a tavolino? E’ probabile infatti che, con l’anatema lanciato poco dopo l’uscita, i venticinque milioni sarebbero diventati trenta, o quaranta. Comunque non intendo entrare nel merito del libro – che ovviamente ho letto, essendo io un amante di romanzoni e feuillettons – ma sottolineare il fatto che la Chiesa prende posizione su certi fenomeni e tace totalmente su altri che pure la coinvolgono in maniera diretta.
Prendiamo un altro romanzone, anche se televisivo: la soap Orgoglio. A mio avviso vi si narra un fatto di una gravità inaudita - lo dico senza ironia - e mi sbalordisce che la Chiesa non abbia speso una sola parola di condanna. Sono costretto a riassumere: la marchesa Anna Obrofari sposa, in un matrimonio combinato, il malvagio conte Ludovici (interpretato da uno strepitoso Franco Castellano). Vi è una doppia, reciproca aspettativa: Ludovici spera di mettere le zampe sulla ricchezza degli Obrofari, mentre il marchese-padre (un bravissimo Paolo Ferrari) si aspetta di immettere i capitali freschi di Ludovici (che invece non ha una lira) nella sua banca in crisi. Il matrimonio va subito a rotoli, perché Ludovici è una specie di demone, inoltre Anna (Elena Sofia Ricci, che dà il suo volto a una tontolona tutta sospiri e sguardi in tralice) è innamorata di Pietro Pironi (un attore che mi ricorda Andrea Pazienza). L’unico modo per sciogliere il matrimonio, essendo gli Obrofari degli ultra-cattolici praticanti (quasi in ogni puntata li riprendono mentre escono da messa) è ottenere l’annullamento dalla Sacra Rota. Iniziano dunque le pratiche, con l’intercessione di un cardinale loro amico (grandi scambi di salamelecchi, baci dell’anello ecc.), ma vi è un problema: per la Sacra Rota, che ha regole rigide e antiche, il matrimonio non deve essere stato consumato. Invece lo è stato, lo sappiamo dalla prima serie. Ebbene, la marchesa Anna si presenta davanti al giudice ecclesiastico dichiarando il falso. Proprio così, dice il falso, spudoratamente. Gli Obrofari, sempre col capo chino di fronte all’autorità della Chiesa, sempre inginocchiati sul confessionale, mentono con premeditazione. Io lo trovo semplicemente scandaloso. E’ un monumento alla superipocrisia italiana, al menefreghismo imperante. Tutti gridano che sono cattolici e poi fanno quello che gli pare: ci si sposa in chiesa con l’abito bianco, il tight, si dice "sì" di fronte a una istituzione che riconosce solo l’indissolubilità del matrimonio e poi si divorzia allegramente. Chi se ne frega? Tanto è solo apparenza, solo convenzione. Orgoglio è un incitamento all’ipocrisia e al sacrilegio. Mi chiedo dove sono tutti quei preti televisivi, e i cardinali opinionisti, e il Sant’Uffizio.

lunedì, marzo 21, 2005

A Papero…

…che scrive: "mi devi spiegare perché tutto questo è letterario" (commento riferito al post su Vendola), cerco di rispondere.
Ogni tanto entro in un bar (Bar Sport, ovviamente) e mi capita tra le mani qualche giornale-fogna, cioè uno di quegli strumenti di aggressione e di calunnia che vengono usati come arma offensiva politica. Li sfoglio interessato, e la mia attenzione cade subito sugli articoli dei cosiddetti "commentatori". Questi testi sono interessanti per me. Redatti in uno stile secco, con periodi brevi, parole forti, ritmo sostenuto (lo stile definito popolare), spesso sono ben scritti, sono dei piccoli capolavori di pura arte maligna; perfetta espressione del Male. Cosa è infatti il Male se non l’espressione dei sentimenti bassi dell’umanità? Ed io leggo tra le righe la profonda cattiveria che li ha generati, la malafede, la malevolenza. Il Negativo è sempre stato uno degli argomenti preferiti della ricerca letteraria. E’ parte di noi, e quindi l’arte cerca di capirlo, di rappresentarlo. Il Negativo è molto presente nella scrittura, più del Bene, del Positivo, che ha uno spazio minore. Ho sempre pensato che uno dei massimi capolavori del Male sia Les fleurs du mal di Baudelaire, dove l’uomo, il poeta, ne è sedotto, si abbandona al suo fascino, vi si inchina, ne celebra la bellezza perversa. Ma molti non sono affatto d’accordo con questa lettura. Comunque spero di averti risposto.
E dopo gli Jesurum i Montefoschi...

...respiriamo finalmente una boccata d'aria fresca d'alta quota con Milan Kundera (da la Repubblica di sabato):
"Contro il nostro mondo reale, che è per natura fugace e degno di oblio, le opere d'arte si ergono come un altro mondo, un mondo ideale, solido, dove ogni particolare ha la sua importanza, il suo significato, dove tutto, ogni parola, ogni frase, merita di essere ricordato ed è stato concepito per questo scopo".

venerdì, marzo 18, 2005

Nel paese dove passeggiano le mucche

L’edizione Adelphi di Aforismi di Zurau, uno dei testi più misteriosi di Franz Kafka

Kafka scrisse gli Aforismi durante un soggiorno di otto mesi – dal settembre 1917 all’ aprile 1918 – a Zurau, un minuscolo paese della campagna boema. Aveva appena ottenuto una lunga licenza dall’Istituto delle Assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori, per curarsi dalla malattia, la tubercolosi, che si era manifestata un mese prima con uno sbocco di sangue.
Qui, dove “le mucche con estrema naturalezza attraversano la piazza”, e i contadini, “gentiluomini che si sono salvati nell’agricoltura”, sono “i veri cittadini della terra”, nella casa dell’amata sorella Ottla, in una stanza che si affaccia sulla piazzetta del villaggio, attraversa l’unico periodo sereno della sua esistenza. “Non mi sono mai sentito meglio” scrive, in maniera forse un po’ provocatoria, all’amico Oskar Baum.
Certo, non tutto fila perfettamente liscio; qualcosa, o qualcuno, turba la sua tranquillità: a Zurau ci sono i topi. Kafka, ipersensibile ai rumori, li sente strisciare, squittire, ne segue le corse e le danze. “Che popolo spaventevole, proletario, oppresso”, scrive a Felix Weltsch. Lui, creatura notturna, è costretto a condividere la notte con quegli esseri che non scendono a patti. Pensa di liberarsene con un gatto; ma poi, si chiede, chi lo libererà dal gatto?
Però, tutto sommato, a Zurau si sente libero, alleggerito dal peso greve della vita. La malattia, che Kafka accetta quasi con sollievo, e della quale intuisce perfettamente l’origine psicosomatica (“ho l’impressione che il cervello e i polmoni si siano messi d’accordo a mia insaputa” scrive a Max Brod), è una barriera protettiva che finalmente può alzare contro il temuto, sofferto fidanzamento con Felice Bauer, motivo di inesauribili tormenti, di sensi di colpa laceranti, di fughe, di chiusure autodistruttive. Proprio a Zurau, infatti, si consumerà l’ultima, definitiva rottura, dopo che Felice, il 21 settembre, gli farà una visita, portandosi sulle spalle “il colmo dell’infelicità”. Ora può affermare che non solo la sua vocazione di scrittore, il suo essere “pura letteratura”, gli impedisce di essere un buon marito: ora c’è il suo nuovo stato di malato. La malattia dunque lo difende: dalla schiavitù del lavoro alle Assicurazioni, dai legacci della famiglia, dalla figura incombente del padre (col quale i rapporti diventano sempre più tesi), da Praga. La malattia è una certezza, una figura forte. E’ un’estranea, ma anche un’amica che finalmente può decidere per lui e toglierlo dai guai. Così protetto, nascosto, leggero, passeggia nelle campagne e osserva la vita e il lavoro dei contadini. E gli animali: è incuriosito, incantato dagli animali che vagano semiliberi per la campagna e per il villaggio (“le capre assomigliano a ebrei polacchi, allo zio Siegfried, a Ernst Weiss, a Irma”).
Non scrive opere di narrativa (tranne alcune parabole come La verità su Sancio Panza o Confusione di ogni giorno), anche se il Wagenbach, forse il più illustre dei biografi di Kafka, interpretando un accenno dei Diari a un “romanzo progettato”, sembra convinto che proprio in questo periodo risalga la gestazione del Castello (la cui stesura inizierò quattro anni più tardi). E il tormento dei topi, che darà origine a una ricca – e per certi aspetti divertente - corrispondenza, è il preludio di capolavori futuri come La Tana e Il popolo dei topi.
I mesi di Zurau rappresentano una prova, una sperimentazione di scrittura e di vita. Kafka si propone di rompere col mondo, si avventura in una lunga lotta per “la felicità di sollevare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile”. Riflette sul peccato, sul male, sui demoni, sugli dei, sul paradiso. Tanto che Max Brod descrive il periodo di Zurau come un “sottrarsi al mondo nella purezza”. E pubblica il testo nel 1953 con l’edificante titolo: Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita.
Tuttavia sarebbe riduttivo considerare gli Aforismi unicamente come una sfida della purezza e della fede. Kafka ci ha abituato a navigare nell’intrico dei suoi mimetismi, lungo sentieri disseminati di reticenze e di trappole. In realtà la lotta per la felicità, fallita secondo Wagenbach, vinta secondo i lettori che ne hanno interpretato l’opera in chiave teologica, produce il testo forse più misterioso, enigmatico e ingannevole di tutta la sua opera. Sono aforismi anomali, come avverte Roberto Calasso nella prefazione (e nella postfazione, che altro non è che il capitolo XV di K.). Lapidari, criptici, straordinariamente nitidi come tutti i prodotti della macchina di scrittura kafkiana, si discostano dalla forma classica dell’aforisma alla Kraus per assumere identità letterarie mutevoli: immagini, parabole, riflessioni rapide e taglienti sulla libertà e le catene, la vita e la morte. Mai come negli Aforismi Kafka ci spiazza, ci smarrisce, si rifiuta di compiacere il lettore. Alcuni sono perle preziose di scrittura: “la nostra arte è un essere abbagliati dalla vita: vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient’altro” (63), quasi haiku giapponesi. Altri sono immagini violente, di rottura: “una cagna puzzolente, che ha partorito molte volte, qua e là in decomposizione...” (8-9, questo brano tra l’altro fu eliminato da Max Brod, forse perché non tornava nel suo calcolo sulla purezza raggiunta). Oppure verità paradossali, persino provocatorie: “la verità è indivisibile, perciò non può riconoscere se stessa: chi vuole riconoscerla deve essere menzogna” (80).
Questa edizione rispecchia l’impostazione del manoscritto originale. Scritti su due quaderni di scuola a penna e matita, secondo la sua abitudine di sempre, nel 1920 li trasferì su foglietti di carta velina, con un numero in alto a destra. Non sappiamo con certezza se intendeva imprimere davvero un ritmo, organizzare una successione ragionata in vista di una pubblicazione. Comunque quella progressione, e la scelta di isolare ogni brano su un foglio bianco, forse per dare spazio e aria a testi che, pubblicati di seguito, sarebbero “irrespirabili”, per la prima volta sono state rispettate.
Contort Yourself

Stefano Jesurum su Magazine del Corriere:
“A forza di sostenere perennemente il contrario di quello che si presume si dovrebbe dire se si fosse nel branco dei pecoroni conservatori plebealmente abbarbicati ai Valori – peggio che mai quelli fastidiosissimi cresciuti nell’Italia-nata-dalla-Resistenza – si rischia di tornare alla casella di partenza, e cioè che per essere politicamente scorretti bisogna dar contro ai politicamente scorretti d’ordinanza”.

Augh!!

giovedì, marzo 17, 2005

Killers infangati

Sulla candidatura di Nichi Vendola in Puglia si sono da tempo scatenate le forze oscure di quella regione. Per me è interessante, è letterario assistere a questo spettacolo. Qualche tempo fa don Ciotti prese pubblicamente posizione e scrisse: "sogno di vederlo presidente della Regione". Immediatamente è iniziata un’opera furibonda di spargimento di fango sul "prete rosso". Però hanno agito troppo in fretta, senza riflettere. Avrebbero dovuto chiedersi: "questo Vendola è un supercattolico osservante, è igienico attaccare così, a testa bassa?" Non era igienico. Adesso con Vendola si sono schierati anche don Guido, don Palmese e don Cozzi, sacerdoti bene in vista della Chiesa pugliese. Che faranno adesso i killers? Fango anche su di loro?
La voce del barone

Sull’ultimo numero di Nuovi Argomenti Enzo Siciliano scrive: "ahimè, l’inflazione dei giallisti, degli scrittorelli noir e della loro pappa di cosiddetta realtà ecc". Mi sono lambiccato il cervello per scoprire chi sono questi "scrittorelli". Non poteva fare qualche nome, tanto per chiarire? Se si ha coraggio, lo si abbia fino in fondo. Non sono assolutamente un esperto, ma ho idea che i giallisti italiani portino avanti un’operazione di onesta scrittura di genere. Non saranno dei grandi scrittori ma neanche si atteggiano tali. E allora? Con chi ce l’ha il prof?

lunedì, marzo 14, 2005

Metti una sera al Bar Sport

Vi sono vari livelli di linguaggio: quello ufficiale, quello del potere che trova la sua massima affermazione in televisione, ridondante retorica, dove tutti rilasciano dichiarazioni più o meno ottimistiche, tutti gridano che faranno, che miglioreranno, che chiariranno, perché l’unico ideale che li fa muovere è salvaguardare l’interesse del Paese.
Poi c’è il linguaggio dei giornali, che è più libero, dipende dagli orientamenti politici. Lasciando da parte certi fogliacci, che Ellroy chiamerebbe "spargitori di fango", perché quella è la loro unica funzione, i giornali rispecchiano, più o meno, la posizione dell’intellettuale: questa figura "filtra" gli umori e le tendenze popolari e le sposta "in alto". L’intellettuale guida, spala via i rifiuti, il suo ruolo è condurre, come il postiglione, la diligenza della cultura popolare, che spesso non saprebbe che direzione prendere.
E c’è il linguaggio del Bar Sport, che solo in parte trova spazio nei reality televisivi e nelle trasmissioni spazzatura in cui "la gente" piange davanti alle telecamere e si confessa. In realtà questi programmi sono meno liberi di quanto sembri. Vanno bene le confessioni su fatti di cuore, su abbandoni dei genitori, su tradimenti, qualche parolaccia, cose così, ma bisogna stare composti. Non si tocchi l’intoccabile. Non si citi il non citabile. Non si esca dal seminato. Piangi, lamentati, arrabbiati ma sta’ al tuo posto.
In realtà il parlato del Bar Sport si esprime in libertà totale solo al Bar Sport. Qui si dicono cose che trasferite nel linguaggio ufficiale farebbero inorridire. Al Bar Sport ci si va per sfogare il proprio cinismo, le proprie frustrazioni, per fare gli smargiassi. Al Bar Sport si dicono cose che non si pensano fino in fondo, cose eccessive, si sparano grosse. Al Bar Sport, direbbe l’I King, "il Luminoso se ne va, l’Oscuro se ne viene".
Ecco un paio di dialoghi da Bar Sport. Sono campionati, quindi sono abbastanza esatti. Buona lettura.
"Il calcio fa proprio schifo. Mi fa vomitare".
"Ma cosa dici. E’ lo sport più bello del mondo"
"Ah, sì? Questa merda qua? Guarda i calciatori: sono tutti miliardari, tutti fotomodelli, pensano solo alla pubblicità, poi in campo fanno pena""
"Però si pasturano delle gnocche che te le sogni, te"
"E va be’. Buon per loro. Sono i soldi che contano. Guardali però: sono sempre a insultare questo e quello, a sputare, a sparare cazzate. Sono atleti quelli?"
"Se una faccia purchessia ti offende cosa fai? Gli rompi il muso. E’ giusto."
"Ah, sì? Poi però i tifosi si esaltano. Guarda le risse, i casini. Quanto ci costano a noi? Quanto ci costano tutti quei poliziotti e carabinieri che fanno servizio? E quanto ci costano i feriti, negli ospedali? Chi paga? Io e te".
"Non ci sono mica solo quei dementi lì. Ci sono anche della gente che va allo stadio a vedersi una bella partita fatta bene."
"Ma dai. E dove sono le partite fatte bene? Ieri ho letto sul giornale che il calcio italiano è il più brutto del mondo. Diceva proprio così."
"Umpf. Sì, è peggiorato, è vero, ma insomma, te sei il solito esagerato. In Spagna stanno peggio di noi. No, è bello andare allo stadio, la domenica pomeriggio. Va be’, forse… sarebbe meglio dire che era bello. Cosa posso farci io".
"Vuoi sapere una cosa? Vuoi sapere cosa farei io?"
"Cosa faresti?"
"Alzerei un muro di cemento armato e li lascerei là dentro. Che si scannino finché ne hanno voglia. Niente polizia, niente spese inutili. I miliardari corrono sull’erba e intanto sulle gradinate si menano, si accoltellano, fatti loro".
"Ma dai. Così mi impedisci andare allo stadio".
"Ma che ci vai a fare? A prenderti una bottigliata in testa?"
"Io credo che bisognerebbe migliorare, mettere a posto le cose."
"Sì, e poi? Vuoi sapere cosa succederebbe?"
"Dai, dimmi anche questa".
"Allora, se come dici te mettiamo le cose a posto dove vanno tutti quei dementi? Cosa fanno? Vanno a fare casino fuori. E chi paga? Io e te, come al solito. Invece se stanno là dentro si sfogano, si spaccano la testa tra di loro. Va bene così. Te lo dico io, alziamo il muro e lasciamoli sbudellare. E miliardari, lasciamo che si droghino, così corrono più forte. Chi se ne frega?"
Pausa. Arrivano dei caffè, degli amari. Una volta si sarebbero accese delle sigarette. Adesso è vietato. Che meraviglia, posso rimettere piede nei bar.
"O’, adesso c’è la faccenda di quella giornalista. Hanno pagato un bel riscatto, lo dicono tutti meno che i ministri. Non è mica giusto".
"Come no? Cosa volevi lasciarla là che la accoppassero?"
"Non lo so io questo. Però hanno pagato anche un riscatto per quelle due, le Simone, e per quelle guardie del corpo. Adesso dimmi: chi ha pagato?"
"Come chi ha pagato?"
"Hanno pagato le famiglie?"
"No. Sono della gente normale. E’ logico che ha pagato il governo".
"Appunto. E chi è che paga? Io e te, quando il governo viene a piangere miseria. E’ sempre così"
"Sì, però quei baluba gli tagliano la testa agli ostaggi. Come si fa?"
"Non lo so mica io. Voglio dire: li ha obbligati qualcuno per andare là? Gliel’ha ordinato il dottore? Se stavano a casa sua non era meglio?"
"Che discorsi che fai. Delle volte è il suo lavoro."
"Bah. Sarà così. Io dico che ci vanno perché gli piace fare gli eroi. Scusa, quando rapiscono il figlio di un industriale cosa fanno? Gli bloccano i soldi. Questi qua invece paghiamo noi. Te dì quello che vuoi, io dico che non è giusto".
"Ehi, guarda, si è liberato il bigliardo! Andiamo a farci ‘sta boccetta va là".
precisazione

Giulio Mozzi, editor di Sironi e di Tullio Avoledo, sulla recensione pubblicata su questo sito scrive:
volevo precisare che Tullio lavora ancora in banca (la recensione lascia intendere che non sia più così). I suoi libri hanno avuto un discreto
successo, ma da qui a camparci...

venerdì, marzo 11, 2005

Gastronomia noir

Hieronymus Bosch, detto Harry, l’eroe preferito di Michael Connelly, in Musica dura è nella sua bella casa panoramica sulle colline di Los Angeles e ha appena fatto l’amore con Eleanor Wish, una donna che abbiamo conosciuto in un altro romanzo, La memoria del topo (Harry si fa almeno una storiella a libro). Si mette a cucinare. Ecco una bella ricetta americana. Non si dimentichi questo particolare: americana; quindi non ci scandalizziamo per l’aglio in polvere e il concentrato di pomodoro.

Sbucciare una cipolla e tritarla insieme a un peperone verde. Poi rovesciare il tutto dentro una padella e fare rosolare con burro, aglio in polvere e altre spezie. Posarvi due petti di pollo e fare cuocere per un po’. Aggiungere un tubetto di concentrato di pomodoro, un barattolo di pelati, ancora spezie e terminare con una generosa spruzzata di vino. Fare sobbollire e intanto in un’altra pentola cuocere il riso.

Questo, precisa Connelly, è il piatto migliore del suo repertorio. Me lo faccio. Giuro che me lo faccio.

delusioni cocenti

The same, old story

Pur non avendo ancora letto nessun libro avevo stima di Giorgio Montefoschi. Pietro Citati, per il quale provo rispetto, in una recensione l’ha addirittura paragonato alla creatura della Tana di Kafka. Ma il suo intervento sul Corriere del 10 marzo mi ha fatto cadere le braccia e anche qualcos’altro. E’ un impressionante, rancoroso ammasso di luoghi comuni sul Sessantotto. L’ho letto due volte, per essere sicuro di non sbagliarmi, ed è proprio così. Non ho voglia di riassumere, né di controbattere. Sono stufo di questi commentatori che si scagliano con toni vendicativi contro un movimento che non hanno vissuto né capito. A questo punto mi chiedo: può un valido scrittore scrivere robaccia in un commento di politica? Francamente non so rispondere. Nell’animo dello scrittore dovrebbe esistere, almeno speravo, una fievole voce che gli sussurra che qualcosa non va, che sta scrivendo una schifezza, perché il vero scrittore si eleva dai sentimenti bassi; ma forse non è così. Comunque non ho voglia di verificarlo in Giorgio Montefoschi.

mercoledì, marzo 09, 2005

recensione

Lo Stato dell’Unione di Tullio Avoledo

Di Riccardo Bigi

Lo hanno già inserito tra i Grandi Scrittori Italiani. Il ragazzo ha uno stile molto personale, fantasia da vendere, e conquista il lettore con la semplicità di uno che scrive soprattutto perché si diverte a farlo.
Lui è Tullio Avoledo, classe 1957, friulano: lavorava come avvocato nell’ufficio di una banca di Pordenone prima di essere travolto dal successo del suo primo romanzo, L’elenco telefonico di Atlantide (il cui protagonista, guarda caso, era legale di una banca). Il suo terzo libro, Lo Stato dell’Unione (Sironi), prosegue sul filone dei primi due ma mostra di aver trovato finalmente l’equilibrio che gli altri non avevano. Avoledo ha grandi doti di immaginazione, tanto da rischiare a volte di farsi prendere la mano. La sua cifra stilistica (o il suo trucco narrativo) è apparentemente semplice: prendere un personaggio “normale”, un po’ sfigato, tormentato da varie vicissitudini familiari e professionali (raccontate con buona vena umoristica) e seminare nella sua vita, via via che il racconto procede, una serie di indizi che fanno pensare a qualche complotto cosmico, o almeno internazionale, in cui il personaggio in questione finisca, suo malgrado, per essere coinvolto.
Stavolta il protagonista è Alberto Mendini, pubblicitario in declino, oppresso dai debiti, da una moglie sempre ingrugnita e dai figli ingovernabili, al quale capita l’occasione che può tirarlo fuori dai guai: un incarico dalla Regione per risvegliare l’”identità celtica” dei cittadini. Identità che non esiste, ma che con qualche trucchetto da mago della comunicazione può essere facilmente evocata. La domanda è: fino a quando si può mistificare la realtà? E dove può portare una catena di falsi storici?
Da un lato quindi ci sono Mendini e la sua famiglia, dall’altro un progetto eversivo su scala europea per creare un’unione delle regioni celtiche. In mezzo, un ex astronauta in incognito, un marchingegno elettronico che intercetta le voci dei morti, una collega di lavoro dai capelli biondi e le gambe lunghe e sode. L’elenco telefonico di Atlantide aveva l’aspetto di un sogno, che un avvocato si inventava per distrarsi da un lavoro frustrante. Qui appare tra le righe una concezione filosofica più sottile: che l’uomo di oggi, disincantato e qualunquista, incline ad accettare compromessi e a misurare tutto secondo il guadagno che ne può ricavare, si scopre invece pedina di un gioco più grande di lui, ingranaggio di un motore che porta l’umanità verso direzioni allarmanti.
Definire Lo stato dell’Unione un romanzo “politico” sarebbe senz’altro scorretto: ma certo uno dei piani di lettura è anche questo, i rischi che potremmo correre se qualcuno decidesse di usare gli strumenti di propaganda che le nuove tecnologie mettono a disposizione per attuare piani diabolici. Cosa sarebbe successo – è la domanda di uno dei personaggi del libro – se Hitler avesse avuto a disposizione le televisioni, i sondaggi, internet?
Ma Lo Stato dell’Unione non è solo questo. Lo spunto “politico” è uno strumento che nelle sapienti mani di Avoledo serve a creare una storia che attrae, stupisce, sconcerta. E il finale, poi, è un colpo di genio.

lunedì, marzo 07, 2005

risposta a un commento


Ad Anonimo, che scrive: quanto di autobiografico? E ...davvero si viveva cosi? Ed ora? Lo so che non e' un commento...
rispondo: la questione della scrittura di racconti (o romanzi) è complessa e anche delicata. Dove termina la ricostruzione reale dei fatti e dove inizia la fantasia? Spesso anche l’autore ha le idee confuse ed è in affanno quando cerca di definire con precisione la border line. Diciamo che per questi racconti frigidairiani mi sono dato come traguardo la fedeltà ai fatti. E’ tutto reale quindi: solo dove il ricordo mi tradisce attiverò la fantasia, ma solo nei dettagli. Ovviamente cambierò alcuni nomi, perché sarebbe scorretto e sgradevole coinvolgere persone scomparse.

domenica, marzo 06, 2005

Baldrus frigidairiano

Il tesoro di Skrunc

Durante le mie (rare) deambulazioni sociali mi capita di incontrare dei giovani di 20-25 anni che mi guardano un po’ stralunati e mi chiedono: “com’era a Frigidaire?” Questa domanda mi lascia sempre di stucco. Mi stupisce che dei ragazzi così giovani conoscano quella rivista che, vent’anni fa, ha sancito la nascita di una vera editoria underground italiana. Esiste ancora il mito, chissà perché. C’è curiosità, interesse, e quando mi lancio in qualche racconto li vedo rapiti, come quando si cerca di entrare nell’epica di una Frontiera scomparsa ma non dimenticata.
Fatto sta che ho deciso di pubblicare alcuni racconti frigidairiani, un po’ per mantenere viva la memoria storica di quegli anni, di quell’esperienza e di quei personaggi, e un po’ per divertirmi. Alcuni saranno di taglio hard, soprattutto nel linguaggio, ma era così che si parlava nell’ambiente (in seguito ho scoperto che il linguaggio non era poi dissimile da quello dei giornalisti dei periodici “perbene” milanesi, dove ho lavorato per dieci anni); e poi erano tempi hard, esperienze hard, per cui ho deciso di essere fedele agli stili, senza reticenze né autocensure. Se qualcuno trova questa scrittura imbarazzante abbandoni la lettura dei racconti frigidairiani.

Come tutti certamente sanno io ho lavorato in redazione a Roma, per circa un anno, occupandomi praticamente di tutto: foto, testi, titoli, rispondere al telefono, aprire e chiudere la redazione (ma non le pulizie, quelle me le sono evitate). Bene, una sera eravamo io e il disegnatore principe del giornale, il creatore di storie giovanili che sono entrate nel mito, una matita sopraffina, un colorista eccelso; lo chiamerò, per convenzione, Antò. Il lavoro in redazione era terminato, e noi, seduti nel bel giardino dell’elegante sede di Monteverde vecchio, eravamo alla ricerca di un po’ di droga pesante per alleviare il senso di fredda solitudine che ci mordeva l’anima, e anche per nutrire il nostro mai sopito istinto autodistruttivo, così vorace, così insaziabile in quegli anni. Le telefonate non avevano dato esito: i pusher erano tutti irreperibili, o era troppo presto o era tardi. Chi ha avuto la ventura di precipitare nella spirale delle droghe pesanti conosce la paranoia micidiale che toglie il respiro quando i dannati pusher non si trovano.
“E adesso che cazzo facciamo?” chiese Antò.
“Cazzo ne so” ho detto, al colmo della depressione.
“Vabbè” disse Antò, andiamo da Skrunc, ma senza telefonare, è sempre incazzato nero. Ha certamente della roba”
Skrunc, altro nome convenzionale, era un vignettista che collaborava col giornale. Oggi è un affermato vignettista che, dalle pagine di un grande quotidiano, ogni giorno disegna una scenetta in cui i politici vengono doverosamente sbertucciati. Roba fine comunque, niente a che vedere con la volgarità di un Forattini
Così saltammo su un taxi e andammo da Skrunc. Era in casa, per fortuna, da solo, in soggiorno, con una musica jazz in sottofondo.
“A’ Skrunc” disse Antò, con l’irruenza che lo contraddistingueva, una sorta di entusiasmo infantile irresistibile che creava il suo fascino particolarissimo, “Skrunc, abbiamo bisogno di un po’ di roba. Aiutaci, non troviamo nessuno!”
Skrunc mi lanciò un’occhiata in tralice. “Cazzo fai?” ringhiò, “ti ho detto mille volte di non piombare qua con della gente”.
“Ma Skrunc” ribatté Antò, “lui non è della gente, lo conosci, è il redattore del giornale”.
In effetti mi conosceva benissimo, avevamo anche parlato di lavoro varie volte al giornale. Però continuava a guardarmi storto, come se mi vedesse per la prima volta. “Non me ne frega un cazzo!” strillò, “tu qui devi venire da solo, chiaro?”.
Poi lo afferrò per un braccio e con uno strattone lo trascinò in un’altra stanza, sbattendo la porta. Lo sentivo, che gridava: “sei una testa di cazzo! Porti sempre della gente! Io non voglio rotture di coglioni, lo capisci o no?”
Antò non diceva niente, e cosa poteva dire? Il coltello dalla parte del manico era in mano a Skrunc, lui aveva la roba. Intanto io avevo capito che per me si metteva male. Alla fine della sfuriata Skrunc mi avrebbe invitato a togliere le tende e loro due si sarebbero strafatti. Mi salì una rabbia violenta: oltre alla paranoia dei pusher irreperibili dovevo anche inghiottire la frustrazione avvelenata del rifiuto, e del festino da cui sarei stato escluso!
Mi guardai intorno, soffiando dal naso come un torello che vede rosso, quando la vidi: sul tavolino porta riviste, su uno specchio con una cornice dorata, c’era una gigantesca pista di brown sugar pronta per essere sniffata. La gola mi si seccò. Di là Skrunc continuava a inveire, ma il ritmo era in calo, non c’era molto tempo. Così presi dal portafogli una banconota da diecimila e, tenendo d’occhio la porta, mi sniffai la roba. Era una dose eccessiva per me, che facevo un uso saltuario di polvere, ma l’ingordigia, e il pericolo di restare all’asciutto, mi spinsero a spazzarla via tutta in un’unica sniffata. Comunque non ero preoccupato: è estremamente difficile andare in overdose per uno sniffo. Tuttalpiù avrei vomitato.
Valutai l’ipotesi di lasciare le diecimila lire come parziale pagamento della roba, ma la scenata di quell’egoista di Skrunc mi fece desistere. Così imparava a chiamarmi della gente!
Proprio mentre la discussione (o meglio, l’invettiva di Skrunc) stava terminando aprii la porta d’ingresso e corsi giù dalle scale. Era fatta. Avevo avuto il mio nutrimento, e che nutrimento. Tra poco il calore avrebbe iniziato a diffondersi nella schiena, e, se fossi riuscito a ritardare il più possibile l’inesorabile rimbambimento che segue il flash iniziale, magari con una birra e un panino piccante, e a non dare di stomaco, il mondo, e la solitudine nella città tentacolare, mi avrebbero fatto ridere a crepapelle.

venerdì, marzo 04, 2005

Oriana Fallaci al Bar Sport

L’avevano presentata così: “Enrico Mentana intervista Oriana Fallaci”. Si pensava, dunque, a un faccia a faccia tra i due. Invece il programma si è rivelato un montaggio di documenti degli anni Settanta e Ottanta: la Fallaci in Vietnam, in Messico, mentre intervista i potenti della terra, oltre a spezzoni di un’intervista rilasciata alla televisione americana. Il tutto tenuto insieme dalla voce di Mentana che spiega, racconta, e dalla voce della stessa Fallaci – una voce grave, maschile, da fumatrice incallita – che legge brani dei suoi ultimi libri. Si è seguito lo stile di molte quarte di copertina di libri insomma, dove si spara alto raccontando cose mirabolanti che poi nella lettura non troveremo. Peccato. Avrei visto con curiosità l’icona della terribile signora. Forse le condizioni di salute non gliel’hanno permesso.
Alcune riflessioni, comunque, sul programma e sul personaggio: sui suoi libri controversi hanno già scritto in molti, in troppi; da Valerio Evangelisti a Piero Ottone scrittori e giornalisti hanno analizzato in profondità gli scritti fallaciani, mettendone in rilievo l’arbitrarietà, la mancanza di ricerca storica e sociale, la superficialità. Le spara così, io dico, io so, io affermo e guai a te se osi contraddirmi. Non c’è nessuna vera riflessione supportata da dati oggettivi, è totalmente assente il distacco dello studioso. Sarebbe oltremodo scontato, quindi, aggiungere nuove analisi. Però, guardando il programma, un’idea fissa si faceva strada, o meglio, un’emozione: quella donna ha avuto una vita intensa, segnata da episodi drammatici: in Vietnam ha avuto accanto la violenza e la morte, e la morte l’ha quasi ghermita, quando è stata gravemente ferita in Messico e l’hanno portata addirittura all’obitorio; da bambina ha conosciuto l’oppressione del fascismo e l’orrore del nazismo; ha avuto una storia d’amore importante con un grande libertario, un uomo che ha combattuto fino alla fine per le sue idee; ha intervistato tutti i più importanti capi di stato della terra, e altro ancora. E’ sconvolgente scoprire come, da una vita così “forte”, e dal coraggio indiscutibile che l‘ha sempre spinta avanti, non abbia imparato niente. E’ una cosa molto triste. Avrebbe potuto riflettere a fondo sulla sua esistenza, e diventare una vecchia donna saggia e malata, una che riflette sulla vita e sulla morte, e impara dal dolore, e dalle terribili contraddizioni che devastano la specie umana. Avrebbe potuto, in qualche modo, appartenere alla razza dei Tiziano Terzani, delle Susan Sontag. Invece si è lasciata andare alla deriva. I suoi sono scritti da bar. Come al bar, con un mazzo di carte in mano, ci si lascia andare all’emotività e al cinismo, e si sparano cavolate sul calcio, la politica, i popoli, tutto, così la Fallaci riassume in sé la paura e l’emotività popolare, il rancore, il pressapochismo, i bassi sentimenti; il tutto amalgamato da una bella scrittura, perché una cosa le va riconosciuta: sa scrivere, e bene. Però che vita buttata, che svilimento, che patrimonio sperperato nel nulla, e per cosa? Per qualche miliardo, quando si è ormai alla fine. Tiziano Terzani ha scelto di terminare il suo lungo cammino in un ashram sul Tibet, Oriana Fallaci al Bar Sport.
Questo pensavo mentre guardavo scorrere le immagini. E come non ridere per l’ironia al vetriolo di Dario Fo e Franca Rame indignati di fronte alle deliranti affermazioni sul meeting dei movimenti giovanili pacifisti di Firenze (“Fiorentini! Chiudete i negozi, sprangate le porte, tenete i figli a casa!”); però che vergogna quando, durante una parodia di Sabina Guzzanti, un imbecille ha gridato: “che ti venga un cancro!”, e la Guzzanti non l’ha neanche preso a sberle. Perché la Fallaci il cancro la sta davvero divorando. E, nel bene e nel male, lei non è un essere-non-vivente come i politici e i giornalisti di regime; non è un’Anima Morta, ma un’anima rovinata, perduta. Il cancro è un’entità misteriosa che aggredisce con violenza l’anima, per distruggerla. E ci vuole un po’ di pudore, e di rispetto, di fronte a questa guerra mortale.

giovedì, marzo 03, 2005

castighi2

Un maestro dell’intervista

Va bene, volevo vedere l’interwiew di Mike Tyson.
Pur non essendo stato “uno dei più grandi pugili di tutti i tempi” ( proprio come gli scrittori: “uno dei più grandi scrittori italiani”, “uno dei più grandi della sua generazione”, sempre così), è comunque un personaggio abbastanza appetibile per noi provinciali che amiamo il gossip e le chiacchiere a vanvera. Così mi sono armato di santissima pazienza e, tra uno sbadiglio e l’altro, tra i lamenti del nazional alleato Marco Masini, i guaiti dell’elettore di Tajani Gigi d’Alessio, i languori di Antonella Ruggero, gli avvicendamenti della svampita-uovo di pasqua e della platessa intelligente, stringendo i denti, sempre sull’orlo di un attacco di Male Oscuro, sono arrivato vivo all’appuntamento. Ecco dunque il presentatore-tsunami più amato dalle italiane fare l’introduzione enfatica all’ospite d’onore: innanzi tutto grazie ai dirigenti, grazie, grazie per avere tenuto duro nonostante le critiche, grazie per avere permesso a lui e al popolo di non perdere questo avvenimento epocale: e qui arriva l’inevitabile inquadratura di Fabrizio del Noce in platea, gongolante, trionfante; breve, grazie a Dio, ma sufficiente per provocare uno shock anafilattico. E finalmente arriva Tyson. Un personaggio davvero particolare. Fa certe risate timide, sembra un bambinone beccato con le dita nella marmellata. La fantasia corre, e lo vedi, il bambinone, che si fa travolgere da crisi d’ira, che picchia e insulta questo e quello: un’ira infantile, ottusa, la violenza cieca di una personalità profondamente immatura, ferita da un’infanzia difficile. Poi inizia l’intervista. E qui sono reduce dalla conferenza stampa dello staff del barakkone al completo (con lunghissimi interventi di Del Noce, che Dio mi aiuti) che si è appena conclusa. A un certo punto un cosiddetto giornalista del Radiocorriere inizia a inondare il presentatore-tsunami di complimenti: quanto sei bravo, e intelligente, e preparato; e che intervista che hai fatto, sei un maestro, ma dove hai imparato?
Beh, non è affatto vero. Pippo Baudo avrebbe fatto un’intervista più pungente. Tutto annega nella broda italica sanremese, quanto siamo buoni, quanto abbiamo sofferto, quanto siamo grandi, e generosi ed eroici. Il presentatore-tsunami, che riserva le battutacce triviali e aggressive sempre ai deboli e agli indifesi (alle donne, soprattutto), con un pezzo da novanta come Tyson si prostra, si entusiasma e spreca i complimenti, come va di moda oggi. Non gli chiede, per esempio: cos’hai provato quando hai staccato un orecchio con un morso a un tuo avversario? Quand’è che la violenza esce dai limiti circoscritti del ring e infrange le regole sportive? Dunque tu odi l’avversario? Non gli chiede: tutti gli avversari che hai messo al tappeto erano dei pugili abbastanza mediocri, come te la saresti cavata con Foreman, con Frazier o addirittura con Muhammad Alì? No, si gasa quando Tyson recita la solita parabola americana del vincente: bisogna vincere, vincere! E chiude persino la mano a pugno. Mica gli chiede: e allora cosa provi a salire sul ring a farti massacrare, a fare il clown, lo spettro di te stesso, solo per i soldi? Non gli salta in mente di chiedergli: come diavolo hai fatto a sperperare decine di milioni di dollari in un paio d’anni? Non è facile una simile impresa. Il ragazzo è pagato profumatamente, potrebbe lavorare un po’ di più, rispondere a domande un tantino più impegnative, santo cielo. Macché, il presentatore-tsunami si esalta, diventa addirittura mistico. Alla fine, ispirato a un autentico afflato poetico gli fa: che bella persona che sei, oh, sì. Ora, Tyson è certamente un tipo controverso e interessante, uno che è salito ai livelli massimi di ricchezza e di notorietà e poi è sprofondato nel fango, proprio come Maradona, a cui per certi aspetti somiglia; e anche se non è per nulla chiara la vicenda dello stupro (ricordo che una ragazza è andata di sua spontanea volontà nella sua camera d’albergo, è uscita gridando che l’aveva violentata e si è fatta pagare qualche decina di milioni di dollari come risarcimento), ha comunque massacrato di botte due mogli, mandandole all’ospedale; ha picchiato a sangue il cliente di un ristorante che l’aveva guardato male; oltre alla vicenda dell’orecchio ovviamente, che lo configura come un atleta profondamente antisportivo, una sorta di animale furioso che non si controlla. Ma per il presentatore-tsunami ispirato tutto questo non è neanche preso in considerazione, perché è “una bella persona”. Che classe, che professionalità. E’ un maestro dell’intervista lui.
E con questo – se non vi sono novità importanti – proprio come consiglia un lettore anonimo, con grande sollievo considero chiuso il mio rapporto masoch col barrakkone. Adieu

mercoledì, marzo 02, 2005

castighi

Aiuto! Aiuto!
Adesso chi lo ferma?

E’ iniziato il festival di Sanremo. Per quattro giorni, più non so quanti di dopo-festival, siamo nel delirio. Infatti questo ormai mi sembra l’aspetto dominante dei media italiani: l’isteria, tutti che dicono e scrivono le stesse cose, tutti che cercano di urlare più forte, e le fievoli, isolate voci critiche sono soffocate da questo urlo assordante.
Comunque, impossibile non guardarlo. E poiché non ho via d’uscita, la vigilia riflettevo sui tre problemi principali che rendono il processo masoch-coatto estremamente problematico e denso di sofferenze.
Primo problema: Paolo Bonolis, il più amato dagli italiani (o meglio, dalle italiane). Bercia in TV a tutte le ore del giorno, più gli spot del caffè, e ora eccolo presentatore di Sanremo. Chi lo ferma più questo? Forse solo la politica, quando a Forza Italia capiranno che, con lui in lista, altri cinque anni di businness non glieli cava più nessuno. Il problema n.1 si è rivelato subito molto, molto grave. Prima del festival ha condotto il suo solito programma di quiz, poi è arrivato come un tornado, iniziando subito a prendere a pesci in faccia la Clerici, mentre guardava quella specie di platessa cotta a vapore di Federica Felini con la lingua fuori. Poi sono arrivati i primi spot con lui come protagonista, televendita di Vodafone, Fiat. Poi, tra una battuta greve e l’altra, è arrivato l’ospite Bublè. Qui il più amato dalle italiane ha superato se stesso. Ha straparlato, cantato, ha fatto tutto lui; in pratica il povero Bublè ha potuto solo cantare due canzoncine da copione, per il resto ha assistito alle performances del presentatore scatenato. Di nuovo spot, con Bonolis come al solito protagonista, e via di gran carriera, con battutacce verso questo e quello, parlantina a mitraglia e comizi vari. Non è un uomo, è uno tsunami. Lo tsunami più amato dalle italiane.
Secondo problema: la faccia di Fabrizio del Noce in platea, che la telecamera servile avrebbe inquadrato di continuo. Anche qui, il problema n. 2 si è rivelato gravissimo: non solo c’era lui, era addirittura affiancato dal compare direttore Cattaneo. La telecamera zelante li mostrava felici, trionfanti e gongolanti; per fortuna ci siamo risparmiati le ruffianate alla Fiorello, con baci in bocca e altre schifezze.
Terzo problema: le canzoni, la broda melensa delle canzoni di Sanremo. E ancora una volta il problema n. 3 si è rivelato drammatico. Quando mi ero preparato psicologicamente all’impresa di ascoltare quelle lagne, ecco che arriva Umberto Tozzi, un soggetto del tutto privo di voce che ha “cantato” (ma canta quello?) una delle canzoni più vomitevoli di tutto il panorama della musica vomitevole italiana. Non ce l’ho fatta: quando arrivavano le canzoni cambiavo canale e andavo su Ballarò, mi facevo prendere dalle discussioni e mi dimenticavo del festival e dello tsunami più amato dalle italiane. Poi mi sono fermato definitivamente su Markette e ho mollato per sempre il baraccone.
In appendice ci sono le due vallette. La supersvampita Antonella Clerici era confezionata in vari uova di pasqua multicolori, inventati dal cosiddetto stilista Gai Mattiolo, mentre la platessa Felini era di basso profilo; forse perché, come ho appreso da un programma di gossip, è “intelligente” (sì, hanno detto proprio così), e la prova è che l’hanno vista col libro di Piperno. Intanto non posso che fare i complimenti a Piperno, visto che il suo libro costituisce una patente di intelligenza. Però ho sentito con le mie orecchie la platessa intelligente che dichiarava: “adoro Renato Zero”. Dunque come la mettiamo?

Questo post è pubblicato con ritardo (l'avevo previsto per stamattina) ma sono rimasto chiuso fuori casa e ho impiegato quasi quattro ore per procurarmi un secondo mazzo di chiavi.