martedì, febbraio 27, 2007

A tutti
Mi scuso coi lettori e gli amici di Baldrus, ma sto trascurando questo spazio.
Impegni, deliri vari mi sottraggono tempo ed energie.
Non è facile mantenere alta la tensione.
Però sono sempre qui, anche se in stato di semisonno. Ogni tanto emergo dalle nebbie.
Come si suol dire, teniamoci in contatto. Restiamo connessi.
Un caro saluto a tutti.

mercoledì, febbraio 14, 2007


Criptoblog

Loris Pattuelli

Cucù. Cucù. E se spengo la televisione cosa succede? "Affari tuoi", dice il coro di with a little help from my friends. Ne convengo. Accendo internet explorer e faccio un giro per i blog letterari. Questa sera ho voglia di frugare nei cassetti degli altri, voglio vedere se c'è ancora qualche scarabocchio da leggere. Buon Natale, buon Natale per tutto l'anno. Il coro di with a little help from my friends dice che sono "affari miei", ma io non demordo. Quando spegni la luce, queste cose esistono, incominciano ad esistere per davvero. "Je suis jeune, tendez moi la main", diceva Rimbaud. Io entro nei blog in un modo non molto diverso da come entro nelle botteghe dei barbieri. E cioè spero che il titolare non abbia mai letto i Delitti esemplari di Max Aub. Per adesso mi è andata bene, ma non si sa mai. La letteratura fa meraviglie. Le fa sopratutto con i suoi homeless più rinomati. Entro nei blog e cosa succede? "Affari tuoi", dice il coro di with a little help from my friends. Vado avanti. Ma siccome Rimbaud è così giovane e ha ancora bisogno che qualcuno gli tenda una mano, forse è il caso di ricordare che la televisione fa molta luce ma non abbronza e che le botteghe dei barbieri e delle parrucchiere sono sempre piene di debuttanti assoluti. Per il resto è notte, notte fonda. Basta un piccolo cambio di consonante e il blog diventa un blob. E il mondo va avanti, avanti, sempre più avanti. Stesse compagnie di giro, stesse ronde, stesse comari armate di spranga e cestino della merenda. E poi che altro, perché c'è dell'altro, non è vero? Adesso faccio un complimento a Baricco, a Faletti, a Serra, a Sofri, a Galimberti e vediamo chi abbattono per primo. Cucù. Cucù. E se li mandassimo tutti in gita da Bruno Vespa?

domenica, febbraio 04, 2007


Fuga

Quello che sto per dire non è una boutade o un artificio letterario ma la pura verità. Rovistando in uno scatolone ho trovato una busta con dentro un dattiloscritto di tre facciate. La carta era ingiallita, i caratteri quelli di una macchina per scrivere che corrispondono a quelli della macchina che avevo prima di passare il computer. In cima il titolo “Fuga”, in coda una data: ottobre 1970. L’ho letto con emozione e con stupore. Sono quasi certo di averlo scritto io all’età di 17 anni e quattro mesi, ma non ne sono assolutamente sicuro. Ho un vago ricordo di me stesso che sto scrivendo questo racconto, ma potrei sbagliarmi. Sembra strano ma è così. L’ho ricopiato integralmente e così lo pubblico, anche se avrebbe bisogno di qualche intervento – seppure lieve – di editing.

Non eravamo mai stati in Città prima d’ora, Johnny ed io, i due lupi fottuti.
“Senti, io non mi sono ancora ripreso, ho bisogno di farmi curare” disse con la sua barba unta.
“Mi spiace, ma temo che si dovrà aspettare. Siamo appena arrivati, non possiamo bussare alla prima porta che capita.”
Guardai i suoi occhi vitrei, secchi di lacrime e di espressione, osservai il pallore del suo volto.
“Dico sul serio...” ansimò, “hai visto la mia colica”.
“Ora vediamo cosa si può fare”.
Ficcai una mano in tasca estraendone un foglietto sbrindellato.
“Ecco, questo è un indirizzo che mi ha dato un tipo. Pare che abbia certe conoscenze”.
Ci fermammo nel grigiore di una piazza e appoggiammo pesantemente a terra il nostro bagaglio.
“Aspetta” dissi a Johnny mentre si accoccolava tremante, “ora ti compro una porcheria calda”.
Mi diressi verso un sudicio bar, una specie di tavola calda col pavimento cosparso di segatura, dove una baldracca arruffata sciacquava bicchieri lanciando occhiate folli a destra e a manca. Le porsi la mia borraccia pregandola di riempirla di brodo caldo; me la strappò dalle mani e prima di rendermela volle accertarsi che il pagamento fosse corretto.
Uscii nuovamente in quella tragica piazza rabbrividendo a una folata gelida e umida. Johnny era piccolo, piccolo, con la testa tra le mani, e si dondolava tristemente fra i due grossi sacchi da montagna. La gente passava, chi col cappello sugli occhi chi col bavero alzato e i pugni in tasca. Nessuno si curava di lui. Notai che aveva vomitato.
“Cristo, bevi, ma lentamente. Ora si va da costui” dissi guardando il foglietto.
Non mostrò di avere udito la mia voce. Sussultava e tossiva. Sorbì penosamente un sorso di brodo.
“Andiamo via” disse con gli occhi fissi a terra, “via, via! Fa un freddo fottuto. Oh, sono stufo di continuare così. Voglio fermarmi per un po’. Penso...”
“Piantala ora. Qui è freddo. Dici giusto, ma ne parleremo più tardi. Andiamo”.
Lo aiutai a rialzarsi in piedi e presi anche il suo bagaglio. Ora si doveva trovare quell’indirizzo. Ci vollero quasi tre ore, tutti coloro cui chiedevo passavano oltre cercando goffamente di non sentire i miei “scusi”, o scuotevano la testa spaventati o isterici. Di tanto in tanto Johhny restava indietro squassandosi il petto tossendo. Finalmente suonai il campanello di un palazzone scuro, con tutte le finestre accuratamente sbarrate. Suonai una, due, tre volte senza risultato. Eppure dall’interno giungevano voci, musica,. Stavo per fare il giro della casa quando il portone si spalancò con violenza e un gigante biondo, sudaticcio e barcollante, con la faccia violacea a egli occhi ebeti, apparve sulla soglia con un rutto disumano. Una valanga di urla, fumo, musica e tintinnare di bicchieri precipitò fuori dal portone spalancato, infrangendo il silenzio nebbioso e innaturale del quartiere.
“Ehm” attaccai, muovendo un passo verso di lui, “ci dispiace disturbare durante una festa, ma il mio amico non si sente bene. Questo indirizzo mi è stato dato...”
“Bah!” mi interruppe boccheggiante, “entrate, un bicchiere e tutto passerà”.
Entrammo cauti e Johnny, che durante tutto il tempo aveva continuato a tossire, sputare e gemere, stramazzò come un cencio.
Corsi a sollevargli la testa e mi girai per chiedere aiuto al tipo di prima, ma lo vidi tuffarsi tra le braccia di una ragazza muscolosa, e sparirono come risucchiati dal mucchio. Fu allora che mi soffermai a guardare all’interno dello stanzone, con la testa inerte di Johhny sul palmo della mia mano.
Non una sola persona era in piedi, ed erano tante, tante, e mi parve che nessuno fosse completamente vestito. Una magnifica donna coi riccioli rossi, sfolgoranti sotto il pazzesco lampeggiare di luci colorate, ballava, o meglio, si contorceva, sulla superficie lucida di un enorme tavolo rotondo. Un grassone ingioiellato fino alle caviglie le solleticava le natiche con un bastone da passeggio. Alcuni battevano il tempo con le mani, i piedi, i bicchieri, di una muscia indefinibile, inascoltabile per il volume assurdo. Un ragazzino esile, dallo sguardo frenetico e sanguigno, tracannava un liquido rossastro, gettando via il bicchiere ogni volta. I mobili erano pochi, ma tutti molto grandi: un tavolaccio rustico, lunghissimo, qualche cassapanca massiccia, ripiani carichi di bicchieri, bottiglie e siringhe; poi c’era un lugubre credenza e tante sedie rovesciate. E poi il mucchio: una catasta di carne guizzante in pozze di liquidi, vetro, sangue, capelli fradici, mani adunche, bocche bavose e scene di un erotismo agghiacciante.
I tremiti di Johhnny mi scossero da quella fissità. Una bava verdastra gli orlava le labbra. Gli sistemai qualcosa sotto la testa e mi avventurai in quella palude umana, alla ricerca di un goccio di cognac. Mi feci strada con calci, spinte, sottraendomi a fatica a tutte quelle braccia viscide che tentavano di afferrarmi. Scovai una bottiglia e tornai nel vestibolo. Accanto a Johhnny c’era un uomo, nudo all’infuori di una lunga pezza rossa infilata in una cintura di stoffa. Non sembrava sbronzo, solo un po’ alticcio. Una guancia era segnata da un profondo graffio.
“Eroina?” disse indicando il corpo esangue con un cenno del capo.
Negai con un rapido cenno del capo.
“Non dovresti farlo bere, gli fa male”.
“E cosa dovrei fare? Lasciarlo crepare? O portarlo in ospedale, per vederlo trasportare in galera? Mi è stato detto che qui avrei ricevuto aiuto...”
L’uomo sospirò, fissando lo sguardo nello stanzone.
“Foste arrivati solo stamattina... guarda, quello è un medico, pensi che potrebbe aiutarlo? Guardalo, quello con la canottiera rossa”.
Supino, l’uomo che mi aveva indicato succhiava il collo di un fiasco ormai vuoto, allungando ogni tanto un ceffone a un altro individuo quasi privo di sensi.
“Comunque vedo se trovo qualcosa” disse l’uomo scomparendo nella stanza.
Cercai di praticare un po’ di respirazione artificiale a Johhnny. Sempre più smunto e inerte. Forse conveniva portarlo davvero in ospedale, sembrava in agonia. Forse avevo sbagliato tutto, ancora una volta. Sorseggiai del cognac, cercando di riflettere, ma tutto quel rumore, quel fumo denso... lo guardai con indifferenza: da quando eravamo insieme mi aveva dato solo un sacco di grane.
Il campanello suonò, come una fucilata. Chi poteva essere? Udii una voce secca e balzai in piedi. Polizia! Il campanello suonò ancora, doloroso, assassino. Poi, silenzio. Un istante dopo sentii rumore di vetri infranti, e da un finestrone irruppero cinque o sei giganti in divisa, afferrando i presenti terrorizzati per i capelli. Ecco, quello che temevo stava accadendo: farmi pizzicare stupidamente, senza difese. Dovevo svignarmela. Ma come? E Johnny? Lo coprii con alcuni cappotti. Non potevo portarlo con me. Raggiunsi una porticina, sganciai il catenaccio e socchiusi il portone. Tre di loro erano lì. Allora mi nascosi alla meglio tra i soprabiti nell’attaccapanni. Come prevedevo un poliziotto dall’interno andò a chiamare gli altri, che entrarono sbuffanti, fermandosi nell’atrio a godersi il pestaggio.Ecco il momento buono. Impegnati dalla scena e dalle urla non guardavano l’uscita e sgattaiolai fuori. Un altro poliziotto stava facendo il giro della casa. Aspettai nell’ombra e poi via!
Fuori, una notte gelida, maligna, deserta. Le luci delle case erano assediate dalla nebbia, dalla solitudine delle strade, delle piazze. Nelle case si mangiava, si parlava, si stava nascosti. Uno sparo proveniente dal palazzo si rifiutò di lacerare l’abbraccio freddo e nero del silenzio e morì nel vuoto.
La notte mi risucchiò senza curarsi di me.