venerdì, aprile 30, 2010

La lunga attesa di Cachi

Questo racconto di Mauro Baldrati è compreso nell'antologia Il Magazzino delle alghe

Cachiti Sandro detto Cachi, 51 anni portati malissimo, osservava la planimetria della città che si avvicinava, si inclinava sotto di lui. Gli era capitato un posto in coda, lontano dall’ala, per cui poteva contemplare il panorama.
Non che gl’importasse, in realtà. Aveva mal di testa, e una sete atroce. Aveva anche fame, ma questo non costituiva un problema. Era abituato ai lunghi periodi senza cibo, durante i viaggi sugli autobus indiani che duravano giorni, o sui treni stipati di persone e di animali. Il suo fisico lo testimoniava: magro, di una magrezza quasi anoressica, le guance scavate, gli zigomi sporgenti. Aveva passato giorni interi senza mangiare, e anche nei periodi “normali”, quando oziava nella sua casa di Goa, mangiava poco: un po’ di riso con pesce, e frutta. Ma la sete era orribile, impossibile sopportarla. Eppure doveva farcela, perché gli era assolutamente proibito introdurre qualcosa, qualsiasi cosa, solida o liquida, nello stomaco. Non poteva rischiare un conato di vomito, sarebbe stata la fine. Era già accaduto ad altri, era risaputo. I boli formavano una barriera compatta e impenetrabile, il liquido ristagnava nello stomaco finché l’organismo decideva di espellerlo, con tutto il resto. No, doveva resistere ancora qualche ora. Il vecchio charter della Ghana Airlines stava per atterrare, e una volta sbrigate le formalità doganali sarebbe andato alla stazione dei treni, dove, finalmente, avrebbe potuto liberarsi.

  Era un veterano Cachi, uno specialista di quei viaggi, ma ogni volta era sempre più difficile. Si assestò sul sedile: anche la supposta era ingombrante, e dolorosa. Le prime volte, ricordava, dopo averla introdotta non la sentiva per ore e ore. Adesso invece era una sofferenza. E dire che aveva ridotto la dose. Un tempo ne introduceva fino a quattro etti, e c’era chi arrivava a mezzo chilo, addirittura a sei, sette etti. Lui no, lui non voleva esagerare. Aveva confezionato una supposta di tre etti di afgano purissimo, molto malleabile, avvolta in un preservativo lubrificato e l’aveva introdotta lentamente, meravigliandosi, come sempre, per le sue dimensioni, stentando a credere che quell’affare potesse entrare così facilmente e assestarsi nell’intestino. Eppure entrava, e ne entravano di molto più grosse.
    Un altro mezzo chilo era diviso in boli da circa cinque grammi, che aveva inghiottito. Circa otto etti di fumo quindi: forse non era una quantità per cui valesse la pena di rischiare la galera, ma Cachi aveva rispetto di se stesso, non voleva esagerare, non voleva farsi del male.
    E poi aveva un’altra risorsa, un nascondiglio segreto e sperimentato di cui era molto orgoglioso, che gli permetteva di raggiungere, e anche di superare, le quantità che altri come lui, i suoi amici, i suoi compari, riuscivano a trasportare su se stessi, dentro se stessi. Era lì, tra le sue gambe: un bastone da passeggio di legno intarsiato, con alcune figure brahminiche in rilievo, un oggetto finissimo, di alta fattura, che gli aveva costruito un artigiano di Calcutta. Aveva sempre pensato che in India vi fossero degli artigiani geniali, dei veri artisti, che non avevano eguali in Occidente. Il bastone era fatto a mano, e con un lungo attrezzo che sembrava un cucchiaino era stato scavato, svuotato, tanto da renderlo cavo. Un lavoro di alta precisione, che aveva richiesto tre giorni di lavoro. Il risultato era uno scomparto che poteva contenere mezzo chilo di fumo, accuratamente arrotolato in una sorta di lungo spaghetto. Quindi, pensava Cachi mentre l’aereo, dopo l’ennesimo scossone, atterrava, aveva un chilo e trecento grammi di fumo con sé. Una quantità sufficiente per pagarsi il viaggio, la permanenza in Italia, e alcuni mesi di vita in India, di gran vita, andava detto, perché coi soldi che in Italia sarebbero bastati a malapena per l’affitto di un appartamento, a Goa poteva addirittura pagarsi un domestico tuttofare, che cucinava, serviva e puliva la sua casetta di legno e muratura. Il resto del bilancio annuale l’avrebbe integrato con un altro viaggio, come faceva ormai da una decina d’anni. Quella era la sua storia, il suo lavoro, la sua vita.
  
L’aereo si fermò. Cachi impugnò il bastone, soppesandolo soddisfatto, e prese la borsa da viaggio di tela indiana dal piccolo scomparto portabagagli. Intanto faceva il solito calcolo mentale: un chilo e tre etti di afgano di prima qualità li aveva pagati circa seicento dollari; venduto al dettaglio a Milano, in “stecche” da un grammo, avrebbe fruttato venti euro a stecca. Ovviamente c’erano delle perdite, per così dire, e il chilo si riduceva a sette, otto etti. Una parte infatti doveva riservarla per il suo uso personale, perché doveva fermarsi in Italia almeno un paio di mesi e non poteva neanche immaginare di vivere in quella schifosa città senza un etto di fumo al mese. Poi c’erano i regali, a qualche amico, che ricambiava sempre, prima o poi, e alle sbarbine, anche se, pensò Cachi con una smorfia, passandosi una mano tra i capelli grigi, lunghi e sfilacciosi, non era più come una volta. Le sbarbine se ne sbattevano dei suoi viaggi, della sua vita avventurosa. E anche del fumo. Un tempo, per il fumo, le sbarbe facevano le carine, pomiciavano con lui, e qualche volta si arrivava fino in fondo. Ora invece... tutte stronzette, tutte, sempre col telefonino in mano. Come i ragazzotti del resto. Quei piccoli tamarri fumavano solo per sballare, fumavano perché non avevano di meglio, le pasticche, la coca, non vi era più alcuna riflessione sul fumo, sui viaggi mentali che portava con sé, niente. Consumo, solo consumo. I tempi erano cambiati, tutto era cambiato. Non c’era più umanità, né pietà, né gioia. Per questo era stufo di spacciare al dettaglio. Era stanco di quei ragazzotti menefreghisti, e anche preoccupato. Perché quando una storia prende una brutta piega bisogna fare molta attenzione, può diventare una storia pesante, molto pericolosa.
    Mentre camminava verso il ritiro bagagli Cachi cercava di resistere a qualche fitta che gli arrivava dallo stomaco e dall’intestino. Coraggio amico, pensava, sei quasi arrivato. Appena hai superato la dogana salti su un taxi e ti precipiti alla stazione, dove prendi una bella cuccetta per Milano. E’ tranquillo il viaggio in treno di notte, nessuno viene a rompere le scatole. Poteva espellere la roba, finalmente, e tenerla nello zaino senza problemi. Era lo sbarco in aeroporto il punto critico. E lì, poi, a Zurigo...
    L’altoparlante non la smetteva di riversare nelle sale la sua voce in tedesco. “Zurich...” Cachi ebbe un fremito. Perché diavolo aveva deciso di prendere un volo Nuova Delhi Zurigo? Non l’aveva mai fatto prima di allora, la destinazione era sempre Madrid, dove i poliziotti erano più morbidi. Nella vecchia Europa, nei paesi tedeschi poi, c’era da tremare. Erano delle belve. Aveva avuto fretta, non era stato saggio, doveva ammetterlo. Il suo volo era stato annullato per sciopero, e non si sapeva quando avrebbe potuto prendere un altro di quei charters supereconomici. Probabilmente c’era da aspettare due o tre giorni, o addirittura una settimana. Per di più a Nuova Delhi, una città dove non conosceva nessuno. Poi aveva scoperto quel volo della compagnia africana, e aveva deciso di prenderlo. Era incerto, era titubante, ma aveva ceduto alla tentazione di partire subito. Zurigo... che roba era? Non ci aveva mai messo piede. Zurigo, un posto buono per i ricchi, i banchieri e i mafiosi. Comunque Zurigo non era Parigi. Quelli come lui non avrebbero mai, per nessun motivo, visitato Parigi col fumo. I poliziotti francesi erano leggendari, erano i più feroci bastardi razzisti del mondo. Appena vedevano uno come lui, coi capelli lunghi, i pantaloni indiani colorati, e tutta la storia di viaggi, di nomadismo senza fine per le nuove frontiere del pianeta, alla ricerca degli ultimi luoghi ancora sani in cui poter vivere, lo smontavano pezzo per pezzo. Erano arrivati a sottoporre dei viaggiatori alle radiografie, per guardare dentro lo stomaco e l’intestino. E li avevano beccati. Quei ragazzi erano finiti in galera in Francia, un incubo orribile.
    Cachi ritirò il grosso zaino da montagna, che conteneva un sacco a pelo, biancheria, effetti personali e ciò che, pensò con un sospiro, lo rendeva particolarmente ansioso. Forse anche per quello, per gli oggetti che aveva portato con sé, una novità rispetto agli altri viaggi, era stato un errore atterrare a Zurigo. Se gli avessero ordinato di svuotare lo zaino, e la cosa era possibile, anzi probabile, come si sarebbero comportati quei tedeschi? Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero infilato un dito nell’ano, lo avrebbero sottoposto a una radiografia...
    No, pensò con una smorfia. Era stupido andare fuori di testa proprio adesso. Visto che non aveva avuto il coraggio di bivaccare tre o quattro giorni a Nuova Delhi ora doveva affrontare i poliziotti svizzeri. E doveva farlo con calma, per non rovinarsi. Pensa bene, si disse, pensa come gli indù: andrà come deve andare, perché è questo che vuole il Cielo, e il Cielo ascolta il tuo spirito.
    Si caricò lo zaino sulle spalle e si incamminò verso la barriera del controllo documenti. Gli sembrava di sentirne il peso, e la loro immagine si stagliò nitida nella sua memoria visiva: erano otto chilum meravigliosi, dei pezzi unici che nessuno al mondo possedeva. Ed erano sue creazioni, anche se le mani che li avevano realizzati non erano le sue. Erano quelle di un vasaio, molto famoso a Goa, uno che sapeva lavorare la creta col tocco di un grande scultore. Lui l’aveva assunto, e insieme erano andati in una regione del Nord famosa per la sua argilla. Erano partiti in treno, con uno zaino vuoto, adibito unicamente al trasporto del mitico materiale. Avevano viaggiato una settimana, sui vecchissimi treni indiani, praticamente degli accampamenti viaggianti di uomini e animali, avevano riempito lo zaino di argilla ed erano tornati a Goa. Un viaggio tranquillo, a parte la difficoltà di mantenere l’argilla umida, per non farla seccare. A Goa l’artigiano aveva iniziato a plasmare i chilum, seguendo le sue indicazioni. Per quattro giorni aveva impastato, modellato, cotto, e il risultato erano quegli otto pezzi superbi. Quattro, in particolare, erano dei capolavori: massicci, neri come l’afgano che erano destinati a bruciare, due col Ganesh in rilievo, e due con un serpente che li avvolgeva, dall’imboccatura superiore al boccaglio; erano così belli che lo faceva soffrire l’idea di separarsene. Eppure li aveva creati per venderli, e a caro prezzo. Conosceva alcuni tipi, a Milano, dei vecchi freaks come lui che avevano fatto fortuna col commercio, coi computers, ma erano rimasti degli accaniti fumatori di hashish, che li avrebbero pagati settecento euro l’uno senza battere ciglio. Sì, non aveva dubbi su questo: non potevano resistere al fascino di quegli oggetti. Gli altri quattro, più piccoli, e con decori più semplici, li avrebbe venduti a trecento l’uno. Era un businness di tutto rispetto, in totale poteva ricavarne più di quattromila euro. Ma c’era l’inghippo dei poliziotti: come si sarebbero comportati coi chilum tra le mani?
    Ed eccoli, gli svizzeri in divisa: un biondastro con una faccia squadrata gli aveva ordinato di far passare lo zaino sotto il rilevatore a raggi. Dalla sua posizione poteva sbirciare nel video che si trovava in cabina, dove intravedeva lo zaino che diventava trasparente, un sacco grigio che conteneva involti informi, e quei tubi neri, inquietanti, così nitidi. Il poliziotto addetto al video fece un cenno verso lo schermo, un altro poliziotto osservò attentamente l’immagine e quindi, come da copione, gli fu intimato di svuotare lo zaino. A operazione ultimata il biondastro teneva in mano uno dei quattro più grossi, uno di quelli col serpente, e lo osservava accigliato.
    “Cosa è questo?” disse, ad alta voce, una sorta di ringhio.
    Cachi si fece piccolo. Mantieni la calma, si disse, tieni un profilo basso, non irritarli. “E’...” bofonchiò, con tono mite, troppo mite; non doveva esagerare col servilismo, quei tedeschi svizzeri sicuramente se la godevano a schiacciare un tipo molle. “Souvenir” disse, col tono più calmo che riuscì a trovare. In realtà lo sentiva debole, supplichevole. Ma Cachi era così, non poteva cambiare la sua natura. Era un buono, un pacifico, un mite, era incapace di fronteggiare un poliziotto, il suo avversario di sempre, con la dovuta dose di calma e di forza.
    “Souvenir, eh?” disse il biondastro, duro. “Tu viene con me!” abbaiò.
    “Ma...” protestò Cachi, debolmente, “e... il mio zaino?”
    “Tu viene con me!” ripeté il biondastro, senza degnare di uno sguardo lo zaino.
    Così Cachi seguì lo svizzero lungo un corridoio con grandi finestre che si affacciavano sulle piste. Camminava spinto da una sorta di rassegnazione, o fatalismo, appoggiandosi al bastone ripieno di afgano, pensando che ormai i giochi erano fatti, che era inutile opporsi, sperare in un miracolo. Intanto però faceva attenzione a non maltrattare il bastone, a non sbatterlo con forza sul pavimento: era cavo, poteva spezzarsi. E, anche se tutto sembrava ormai perduto, il suo fumo era sempre lì, al sicuro, al riparo dal fiuto di qualunque cane poliziotto, perché era un mito da sfatare...
    “Tu aspetta qua!” gli intimò il biondastro indicando una panca fuori dal posto di polizia. Cachi gli lanciò un’occhiata interrogativa, ma lo svizzero era già entrato nell’ufficio, col suo passaporto.
    Affranto, Cachi si lasciò cadere sulla panca. Inutile soffrire, disperarsi. Pensa da indù, accetta la volontà del Cielo. Perché il Cielo ascolta i tuoi pensieri, sente la tua volontà, rispetta le tue speranze.
    Intanto guardava il bastone ripieno del suo piccolo tesoro, lo soppesava. Sì, quello degli infallibili cani poliziotto era un mito che andava sfatato. Era sufficiente adottare alcuni accorgimenti. Il bastone per esempio: il fondo era sigillato col silicone, nessun cane avrebbe sentito il minimo odore. Poi bisognava lavarsi con cura le mani dopo avere manipolato il fumo, più volte, e non toccarne più una briciola per almeno 24 ore, e gli abiti che si indossavano durante la preparazione della roba andavano lavati. In questo modo i cani non sentivano alcun odore. L’aveva già sperimentato. La pubblicità intorno agli infallibili cani poliziotto era stata creata ad arte, per scoraggiare i corrieri.
  
Il tempo passava, e Cachi avvertiva una sgradevole pressione contro le pareti dell’ano, e un senso di oppressione allo stomaco. Conosceva quei sintomi: la roba era dentro da troppe ore, tra poco avrebbe dovuto espellerla. C’era un limite alla resistenza. L’organismo non tollera troppo a lungo dei corpi estranei, lavora con sempre maggiore energia per liberarsene. E se non ci riesce, se qualcosa glielo impedisce, inizia a stare male, per indebolire la forza che si oppone alla sua liberazione. Cachi valutò che non gli restava molto tempo, forse un paio d’ore. E poi doveva bere, era riarso, disidratato. Pensò che, se l’avessero chiamato per una visita medica, si sarebbe liberato subito. E poi via in galera.
    Si alzò, per limitare la pressione della panca contro le natiche. Dalla cabina del posto di polizia non usciva nessun segnale. Il biondastro era sparito, nessuno si faceva vivo. Certo che quell’attesa era stressante, era una sofferenza. No, pensa da indù: se c’è da aspettare aspetta con calma. Non fare confusione, non spezzare l’equilibrio.
    Comunque doveva ammettere che era stanco di quei viaggi. La sofferenza che stava provando gli diceva che non era più tempo di inghiottire decine di boli avvolti nella plastica e di introdurre supposte giganti nell’ano. Erano anni che andava avanti così. Aveva bisogno di una svolta. Il suo organismo, e anche la sua psiche, lo reclamavano. Sì, anche la psiche: e non era solo per la violenza dell’introduzione dei corpi estranei, c’era dell’altro: era stufo di spacciare. Per due mesi doveva sbattersi con ritmi da incubo per vendere tutto il fumo, e gli acquirenti erano quasi esclusivamente i ragazzotti. Non li amava, anzi, ne aveva paura: ai giovinastri non gliene fregava un cavolo di niente e di nessuno, non erano affidabili. Prima o poi qualche testa di rapa avrebbe cantato e la polizia sarebbe venuta a cercarlo. Oppure, e questo se lo aspettava quasi ogni giorno, una masnada di piccoli delinquenti l’avrebbe pestato e derubato. Quelli erano i tempi, quelle erano le storie. Voleva piantarla con lo spaccio al dettaglio. Si stava avviando verso i cinquant’anni, un’età a dir poco impressionante. Se lo beccavano a spacciare a un minorenne l’avrebbero massacrato, specialmente in un paese proibizionista come l’Italia, specialmente se non aveva un ricco avvocato maneggione che lo tirava fuori. Doveva cambiare vita, sistemarsi. Doveva pensare in grande.
    Fece qualche passo. La supposta premeva, l’ano gli faceva male. Si guardò intorno: non vi era alcun posto appartato in cui evacuare, e magari abbandonare la roba. Quanta, non sapeva dirlo: la pressione della supposta era dovuta anche al fatto che parecchi boli erano transitati dallo stomaco all’intestino. Probabilmente più della metà dei boli erano già scesi. Beh, quelli poteva inghiottirli di nuovo. Forse solo la supposta era perduta. Già, ma dove andare?
    Si affacciò timidamente sulla porta. Il biondastro era seduto dietro una scrivania di plastica, con alcuni documenti davanti a sé. Cachi si schiarì la gola. Il poliziotto alzò su di lui uno sguardo severo. “Cosa vuoi?” chiese. Cachi incurvò la schiena. “Ecco...” disse, con una vocetta che lui stesso stentava a riconoscere, “quanto... come... insomma quante tempo io...” Il biondastro storse la bocca. “Tu aspetta fuori!” urlò, puntandogli contro il dito indice. Cachi indietreggiò, tornò alla sua panca. Si sedette, ma si rialzò subito. Non sopportava più il contatto col duro legno sulle natiche, gli sembrava di scoppiare.
    Sospirò. Il cuore ebbe una improvvisa aritmia, sembrò uscirgli dalla gola. Ecco, erano i sintomi del malessere acuto. Doveva trovare una soluzione. Era urgente ormai. Rischiava di trovarsi in piena crisi tra non più di un’ora.
    Tornò ad affacciarsi sulla porta del posto di polizia. Il biondastro lo squadrò come se non credesse ai propri occhi. “Ma cosa vuoi tu ancora?” gridò.
    Cachi prese a gesticolare. Aveva questo comportamento singolare quando si trovava in presenza di uno straniero di cui non parlava la lingua: cercava di esprimersi a gesti, come se di fronte a lui vi fosse la caricatura di un cavernicolo alle prese con la società moderna; in realtà era lui a sembrare tale. “Ecco... io avere bisogno... di bagno, toilette, wc...”
    Il biondastro sembrò riflettere per un istante, poi fece un gesto brusco: “a destra!”. Cachi uscì dall’ufficio indietreggiando, come facevano i sudditi in presenza del re. Vide la doppia porta a vetri con la scritta Toilet e la raggiunse con passo malfermo. Una fitta lancinante di emicrania lo fece gemere. Presto, doveva fare presto.
    Gettò alcune monete alla donna che sedeva con aria arcigna al banchetto ed entrò in uno dei gabinetti. Con gesti rapidi ed esperti strappò dei lunghi nastri di carta igienica che sistemò sul pavimento. Purtroppo non c’erano salviette, ma solo quegli odiosi asciugamani a getto d’aria. Poi si abbassò i pantaloni e si mise in posizione. Strinse gli occhi e trattenne il respiro, preparandosi a una sequenza di fitte dolorose, ma la supposta uscì di getto, quasi non se ne accorse. Purtroppo per i boli fu più complicato. Avanzavano lentamente nell’intestino, e si trascinavano dietro contrazioni atroci, che lo facevano sudare e stringere i denti per non urlare. L’evacuazione dei boli fu lunga, penosa. Per qualche attimo fu sul punto di venire meno, di cedere a un collasso che gli avrebbe fatto perdere conoscenza.
    Quando si rialzò gli girava la testa, e fu costretto ad accucciarsi di nuovo per non cadere. Guardò il mucchietto della roba: la supposta era a posto, non c’erano neanche velature di feci. Aveva fatto le cose bene Cachi, come sempre: il giorno precedente l’introduzione era andato da un amico che un tempo, nella vecchia vita, era stato infermiere, che gli aveva ripulito l’intestino con un clistere, e il giorno dopo non aveva mangiato nulla di solido, limitandosi a bere tè.
  Lavò la supposta con acqua corrente, poi contò i boli: trentaquattro. Quindi più metà del quantitativo era ancora nello stomaco, ma sarebbe sceso velocemente nelle prossime ore. E ora che fare con la supposta? In un primo momento aveva pensato di imboscarla per tentare di riprendersela in un secondo tempo, se e quando quella storia con la polizia si fosse conclusa bene. Ma imboscarla dove? No, doveva... la soppesò, la palpò a lungo, mentre un senso di disperazione gli chiudeva la gola: come poteva buttare un pezzo di fumo come quello? Afgano purissimo impastato a mano, un prodotto raro. No, escluso. Doveva reintrodurla, almeno tentare.
    Il sapone liquido sarebbe andato benissimo. Forse avrebbe bruciato un po’, ma funzionava come lubrificante. Sì, tre etti di Afgano valevano il disagio, forse il dolore. Inaudito, impensabile, offensivo buttarlo via.
    Ma prima doveva bere. L’arsura era insopportabile. Inghiottì piccole sorsate, per non inondare lo stomaco ancora pieno di boli, e con altri boli da inghiottire. Poi cosparse la supposta di sapone liquido, si accucciò e... forse una lacrima, una sola sgorgò da un occhio febbricitante quando il grosso cilindro iniziò a farsi strada, ma quella sera tutto sembrava più leggero, meno grave, meno doloroso del previsto in quel tratto di vita di Cachiti Sandro.

    Quanto tempo era passato? Cachi guardò l’orologio: le otto. Fuori era notte. Era bloccato su quella panca da cinque ore. Assurdo. Cosa facevano quei poliziotti? Cinque ore non erano sufficienti per controllare il suo passaporto? Era stanco, nervoso, e stava male. La gola gli bruciava per l’arsura, e la supposta ricominciava a premere; frequenti fitte sembravano tagliargli a fette l’intestino. Si affacciò di nuovo sulla porta del posto di polizia, e notò che gli agenti erano cambiati. Esprimendosi a cenni, coi suoi modi da uomo primitivo, disse che voleva andare in bagno. Un poliziotto anziano lo sogguardò stralunato, poi fece un cenno col mento in direzione della toilette. Cachi tornò in bagno e sorseggiò un po’ d’acqua, trattenendola a lungo in bocca, per permettere alle mucose di assorbirla, e inghiottirne così il meno possibile. Fu tentato di evacuare di nuovo, ma temeva di non riuscire più a introdurre la supposta. Tornò alla panca, cadde seduto e si appoggiò con la schiena al muro, sconfortato. Sentiva di non avere più energie. Non poteva trattenere la roba ancora per molto. Il fisico la rigettava, e anche la mente: non gli importava più nulla, voleva solo liberarsi, mangiare, bere, e dormire. Che andasse tutto al diavolo. Ora sarebbe tornato alla toilette e...
    No. Non poteva farsi sopraffare dalla paranoia proprio adesso. Forse quel viaggio era una prova. O una dimostrazione. Era la conferma che quella storia era finita. Bisognava cambiare, adeguarsi ai tempi, e all’età. Basta coi piccoli quantitativi, con l’alto rischio per gli scarsi risultati. Era stato abile, certo, ma anche fortunato. Non era mai stato in galera, non aveva mai subito una perquisa, niente. Questi erano segnali, messaggi. Non abusare della buona sorte. Doveva fare il salto al quale pensava da anni.
    Tutti i suoi amici l’avevano fatto. Solo lui si ostinava a tirare avanti in quel modo. Il fatto era che... doveva riconoscerlo Cachi: non aveva una mente imprenditoriale. Gli piaceva la vita tranquilla, la sicurezza. Col grande businness invece... Primo, doveva avere la certezza assoluta degli approvvigionamenti. Non poteva muovere cinquanta chili di fumo dall’India, doveva per forza rifornirsi in Marocco. Conosceva qualcuno, certo, che poteva introdurlo nell’ambiente dei coltivatori ma... là era tutto controllato dalla malavita locale. Il contadino ti vendeva il fumo, del formidabile 0-0 sputnik di ottima qualità, roba potente, ultra speed, ma se eri un outsider poi informava il boss che aveva il controllo della sua zona. E il boss, per tenersi buona la pula, ti denunciava. Così ti sequestravano il fumo, ti sbattevano in galera, la polizia lo rivendeva a prezzi stracciati allo stesso boss e i giochi erano fatti. E in galera, se avevi soldi sopravvivevi, se no... I suoi amici glielo spiegavano di continuo, forse per esorcizzare la paura del pericolo che li minacciava ad ogni viaggio, anche se i loro rapporti coi contadini marocchini, vecchi di quasi vent’anni, li mettevano al riparo da questo rischio. Ma aprire un nuovo canale era estremamente rischioso. Poi, se l’acquisto andava bene, c’era il passaggio in Spagna e infine in Italia. E qui bisognava muoversi con estrema cura. I suoi amici usavano il trucco del camper: c’erano, in Spagna, alcune ragazze madri che, dietro adeguato compenso, si fingevano le tue compagne; così era una tranquilla famigliola quella che passava la frontiera in camper, mamma, papà, un figlio, o una figlia, e cinquanta chili di fumo nel doppiofondo. La storia comunque si faceva sempre più pesante. I pulotti non erano degli stupidi, conoscevano il trucco. Ma in assenza di spiate, o di indizi sicuri, non potevano mettersi a smontare tutti i camper. Tutto stava nella credibilità della situazione, nella cura dei particolari. Era ottimo, per esempio, coabitare veramente per qualche tempo con la donna e col bambino, per sintonizzarsi, per capirsi. Poi non si doveva fumare per almeno due settimane. Certo, questo non era facile; due settimane senza un solo tiro, era pesante. Ma la prospettiva del businnes ti dava la forza.
    Comunque se qualcosa doveva andare storto bisognava pregare gli dei di finire in galera in Spagna. Non si stava male, se non si era al verde. In Spagna gli occidentali erano in reparti tranquilli, dotati di sala cinematografica, palestra, biblioteca, e circolava pure il fumo. Bastava pagare. Un anno di galera in Spagna era una vacanza. Un suo vecchio amico ci aveva passato due anni, e quando finalmente la madre era riuscita a tirarlo fuori, pagando tra l’altro un sacco di soldi, lui era uscito malvolentieri. Uscire per cosa, uscire dove? In quel mondo schifoso in preda alla follia? Dentro non faceva nulla, fumava, giocava a scacchi, guardava dei film. Che c’era di meglio?
  Fu scosso da una fitta orribile all’intestino. Stava ricominciando il rigetto pesante. I boli erano di nuovo scesi. Aveva la nausea. Si alzò, si affacciò sulla porta dell’ufficio di polizia, cercò di dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Il poliziotto lo squadrava con aria sospettosa. Cachi iniziò a gesticolare, mentre un filo di bava schiumeggiava agli angoli della bocca. Il poliziotto scambiò un’occhiata col suo collega, che fece una faccia schifata. Cosa cercava di esprimere Cachi? Lui era il primo a non saperlo. Solo l’urgenza di sbloccare quella situazione assurda lo spingeva.
“Insomma che vuoi?” gridò il poliziotto anziano. “Chi sei?”
Cachi si paralizzò. Come chi era? Lo stavano trattenendo da ore e gli chiedevano anche chi era? Riprese a gesticolare. “Io...” balbettò, “io... volere chiedere quanto tempo ancora... perché io non stare bene...”
Il poliziotto lo guardava senza capire. “Ma tu come ti chiami? Cosa tu fare qui?”
Cachi stentava a capire. “Ma io... io essere là... là fuori, su panca, là fuori...” e continuava a indicare la porta con gesti teatrali, “io essere là fuori da...” guardò l’orologio: “da sei ore!” Si stupì di quella constatazione: sei ore su quella panca!
Il poliziotto si alzò in piedi. “Ma come ti chiami?” esclamò, spazientito. “Dimmi tuo nome!”
“Cachiti... Sandro” disse Cachi, con un filo di voce.
Il poliziotto frugò tra le carte che aveva sulla scrivania. Cachi si agitò. Il suo passaporto non era su quel tavolo, ma su quello del collega. “Mio passaporto...” belò, indicando il tavolo giusto, “è lì mio passaporto, è lì...” L’altro poliziotto, un uomo tarchiato di circa trent’anni, afferrò il passaporto con una sorta di impazienza, lo sfogliò, scambiò alcune parole in tedesco, con tono duro, col collega. “Cachiti... Sandro...” farfugliò Cachi, quasi volesse aiutarlo a leggere il suo nome sul passaporto. Il poliziotto consultò un registro, poi armeggiò a lungo col computer. Infine, dopo avere nuovamente confabulato col collega, gli porse il passaporto. “Prendi!” gridò.
Cachi restò per un attimo paralizzato, incapace di credere a quel gesto così semplice. Davvero gli stavano restituendo il passaporto? E allora tutta quell’attesa? Tutta quella tensione? Timidamente fece un passo verso il poliziotto, poi un altro, e, come un cane randagio e sospettoso che prende l’osso dalla mano dell’uomo, accolse nelle sue mani tese il suo prezioso, agognato passaporto.
“Va’ via adesso!” disse brusco il poliziotto, senza guardarlo.
Cachi esitò. Voleva andare via subito, fuggire, ma... “Ecco...” disse, riponendo il documento nel borsello di cuoio che portava appeso in cintura.
Il poliziotto anziano lo squadrò nuovamente, con gli occhi sbarrati per l’esasperazione. “Cosa c’è ancora?”. Voleva andare via Cachi, voleva fuggire, ma guardava fisso in fondo alla stanza, verso un banco massiccio appoggiato al muro. “Cosa vuoi?” urlò il poliziotto tarchiato.
“Mio zaino...” disse Cachi, indicandolo, alla base del banco. Temette di vomitare, così, all’improvviso. Si sentiva il volto esangue, senza calore, senza espressione. Si sentiva mancare.
Il poliziotto guardò lo zaino, a lungo. “Quello tuo?” Cachi annuì con ampi cenni del capo. Troppo ampi, il movimento gli causò un conato di vomito che represse a fatica. Il poliziotto si alzò bruscamente in piedi, andò a prendere lo zaino, si diresse verso Cachi e glielo scaraventò sui piedi.
Imperturbabile, Cachi si chinò e frugò dentro il sacco di tela militare che usava da vent’anni. La biancheria, il sacchetto degli effetti personali, i pantaloni di ricambio, il maglione, tutto sembrava a posto ma... i chilum erano spariti. Quegli oggetti meravigliosi, che erano costati tanto lavoro, tempo, e un lungo viaggio, erano spariti. Sentì un colpo al cuore. Amava quei chilum di un amore assoluto, forse persino più del fumo. Li aveva pensati, creati lui; ora erano in un posto di polizia svizzero, forse erano spezzati, sbriciolati, oppure li aveva presi quel poliziotto, chissà. Anche i poliziotti fumavano, in ogni parte del mondo, tutti lo sapevano.
“Allora?” lo apostrofò il poliziotto tarchiato.
Cachi si sentiva come paralizzato. Il suo temperamento sottomesso all’autorità, l’abitudine ormai acquisita di non fare mai, mai arrabbiare un uomo in divisa, gli impediva di esprimere la rabbia che sentiva dentro. “Cosa fai ancora qui?” gridò il poliziotto, osservandolo cupamente mentre continuava ossessivamente a frugare nello zaino.
“No... niente...” disse Cachi, rialzandosi lentamente, barcollando per il violento capogiro. Si issò faticosamente lo zaino sulle spalle. Perduti, per sempre. Ma stava per andare via, finalmente. Stava per uscire da quel maledetto posto di polizia, da quell’aeroporto, da quella città, col passaporto in tasca, in salvo. E col fumo, tutto il fumo. Doveva essere contento, era andata bene. E i chilum... li avrebbe rifatti
Si avviò verso l’uscita, malfermo sulle gambe. Doveva evacuare tutto entro mezz’ora, o sarebbe svenuto. Ora doveva solo cercare un taxi e correre alla stazione. Poteva, doveva farcela.
La voce, alterata, furiosa, gli arrivò alle spalle come un calcio. “Cosa credi?” gridò il poliziotto tarchiato, “credi forse che il governo svizzero abbia soldi e tempo da perdere con uno come te? Vattene! Sparisci!”
Quelle parole bruciavano come frustate. Uno come te. Per un attimo – forse per la prima volta nella sua vita – Cachi ebbe l’impulso di fermarsi, girarsi e rispondere a tono. Ma no, sei pazzo? Pensò. Vattene, corri via, verso la salvezza, che t’importa del disprezzo di costui? Costui non è nulla nell’immensità del Cielo, come te, come i chilum, come tutto su questa terra.
E così Cachiti Sandro uscì all’aperto, respirò l’aria fresca della notte svizzera, strinse con forza il suo bastone istoriato imbottito di fumo, e trovò il suo taxi.

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