lunedì, gennaio 09, 2012

Autopsia di un poeta

Non sappiamo cosa abbia veramente spinto Jean Paul Sartre a scrivere di Baudelaire: “questo solitario ha una paura spaventosa della solitudine, non esce mai senza un amico, aspira a una casa, a una vita familiare, ostenta disprezzo e fin odio per i gravi personaggi incaricati della sua tutela, eppure non ha mai cercato di liberarsene né mancato una sola occasione di subire i loro ammonimenti paterni. E’ dunque tanto diverso dall’esistenza che ha condotto? E se l’avesse meritata la sua vita?”

Non conosciamo il vero motivo che ha convinto Sartre a prendere colui che è considerato il cantore del Male come esempio di un destino cercato, e non subìto, perché, pur tra mille trucchi e mille menzogne, realizzato con le proprie mani, con determinazione. L’opera che gli ha dedicato nel 1947, Baudelaire, ripubblicata nel 2006, è infatti un’analisi spietata, al limite della crudeltà, del personaggio Baudelaire, del suo essere asservito ipocritamente a tutto ciò che sembra disprezzare, il Potere, i Giudici, l’Autorità; quel suo essere “sempre al guinzaglio, sempre in catene, un eterno minorenne, un adolescente invecchiato, un bambino imbronciato, che pesta i piedi e si vanta delle proprie mancanze (...) un uomo curvo, curvo su se stesso, come Narciso”. Sartre scava nella sua vita con l’ostinazione di un archelogo, o forse nel suo corpo morto, di uomo morto mentre è ancora in vita, con la precisione e il distacco dell’anatomo-patologo quando esegue l’autopsia. Il mito del maledetto viene fatto a pezzi, e ciò che resta è un uomo piccolo, che non si è mai assunto una responsabilità, un uomo pigro, narcisista, che afferma una cosa e subito la rinnega, perché l’affermazione, portata fino in fondo, è sempre una scelta, un’azione: “Quand’anche Dio non esistesse” scrive Baudelaire in Fusées, “la Religione sarebbe sempre santa e divina”; una delle riflessioni su Dio che hanno spinto molti critici cattolici a rivendicarlo come uno di loro. Ma Sartre riporta anche una lettera del 1864 che capovolge l’enunciato: “Quando sarò assolutamente solo cercherò una religione... e, al momento della morte, rinnegherò quest’ultima religione perché sia chiaro il mio disgusto per l’idiozia universale”.

Affermare e poi  negare, questo sembra essere il suo gioco. Baudelaire, scrive Sartre, scatta in avanti ma immediatamente si ferma, si affloscia. Queste brusche risoluzioni ad agire, rapide e violente, che Sartre chiama “atti istantanei” o “atti gratuiti”, si stemperano quando si tratta di passare all’atto: scrive cinque lettere in un giorno solo alla madre dove dice, grida che vuole schiaffeggiare il suo tutore: “è un miserabile che schiaffeggerò davanti alla moglie e ai figli. LO SCHIAFFEGGERO’ alle 4 (sono le 2 e mezzo)”. Sartre sembra ghignare mentre osserva: “le maiuscole sono usate per incidere la sua decisione nel marmo, tanto ha paura che essa gli coli via tra le dita”. Infatti, alle 4, l’ora fatidica, ecco la seconda lettera: “oggi non andrò. Acconsento ad attendere prima di vendicarmi”. Il progetto è già neutralizzato: “se non ottengo una riparazione clamorosa lo picchierò, picchierò suo figlio”. In serata tutto è ormai sfumato: “schiaffeggiare un vecchio in casa sua è senza dubbio una brutta cosa; occorre tuttavia che io abbia una riparazione; che cosa dovrò fare se non la ottenessi?” L’azione è un fardello pesantissimo, la responsabilità una minaccia. “Gli occorreva una riparazione immediata e clamorosa “scrive Sartre, “adesso muore di paura all’idea che potrebbe non ottenerla. Perché allora si vedrebbe costretto ad agire”. Ora tutto questo pasticcio lo annoia e lo stanca. Scrive nell’ultima lettera: “In quale impiccio mi hai cacciato, mio Dio! Mi occorre assolutamente un po’ di riposo, non domando più altro”.

Secondo Sartre in questo suo scrivere continuamente alla madre, per stupirla, sta forse uno degli aspetti più importanti di tutta la sua esistenza. Baudelaire è nato da un padre sessantenne e da una madre poco più che ventenne. Quando il padre muore lui vive un rapporto strettissimo, di amore totale, con la madre. Poi lei si risposa col generale Aupick e Baudelaire viene mandato in collegio. E’ un bambino sensibile, femmineo, delicato, e subisce ogni tipo di angheria dai compagni-bulli. Coltiverà in eterno un istinto di vendetta, di odio verso il patrigno (quando, durante i moti del ’48, lo troviamo sulle barricate, è unicamente per “fucilare Aupick!”, che comanda le truppe della repressione) e di amore idealizzato verso la madre. A tratti vuole gridarglielo, il suo amore infinito, ma vuole anche ferirla: “quando, tribolato dalla madre e dal tutore” osserva Sartre, “improvvisamente s’impenna, non è mai per gettare loro in faccia l’atroce stupidità delle loro virtù borghesi: è per fare il fanfarone del vizio, per strombazzare che lui è cattivissimo e che potrebbe esserlo ancora di più”. E cita una lettera del 17 marzo 1862: “Credi comunque che, se volessi, non potrei rovinarti e gettare nella miseria la tua vecchiaia? Non sai che sono abbastanza astuto ed eloquente per farlo? Ma mi trattengo...”

E’ un bambino che pesta i piedi, che strilla, dice Sartre, e tuttavia mai una volta, una sola volta mette in discussione i valori della coppia madre-Aupick, quei valori che gli hanno rovinato la vita. Al contrario, li accetta, addirittura li rivendica. Così come “non una volta” scrive Sartre, “tenta di difendere il contenuto del suo libro (I Fiori del Male furono condannati e censurati per oscenità ndr); non una volta tenta di spiegare ai giudici ch’egli non accetta la morale dei poliziotti e dei legulei. Addiritura la invoca”. E’ arrivato a scrivere all’Imperatrice: “sono stato trattato dalla Giustizia con una cortesia ammirevole...” Desidera una riabilitazione sociale, una onorificenza cavalleresca, la candidatura all’Accademia di Francia. “Contro tutti coloro che hanno aspirato a liberare gli uomini” scrive Sartre, “contro Victor Hugo, i democratici, si è schierato dalla parte dei suoi aguzzini, gli Aupick, i poliziotti del Secondo Impero, gli accademici; ha reclamato la loro frusta”. Chiede persino che lo si costringa col terrore a praticare le loro virtù: “se, quando un uomo prende l’abitudine della pigrizia, della fantasticheria, una mattina un altr’uomo lo svegliasse a suon di nerbate e continuasse a frustarlo senza pietà fino a che egli, non potendo lavorare per gusto, lavorasse per paura, codest’uomo, il fustigatore, non sarebbe in realtà il suo amico e il suo benefattore?” Il patrigno, odiato a morte perché gli ha portato via la madre, è depositario di una cultura che Baudelaire non esita a fare sua: in Igiene, Morale, Condotta, prende queste risoluzioni: “Toeletta, preghiera, lavoro... il lavoro genera forzatamente i buoni costumi, sobrietà e castità”.

Sottomissione, punizione: dalla ricerca spietata di Sartre sembra che tutto risalga a lei, la madre, questo giudice, questo angelo freddo e severo, idealizzato e odiato, amato e temuto, che l’ha tradito e abbandonato. Baudelaire non si staccherà mai da lei, ne farà il suo fantasma. O il suo demone. Nel suo rapporto con le donne sempre gli farà orrore il temperamento femminile allegro e sensuale, orrore l’idea di cadere tra le braccia materiali di una delle sue amanti platoniche. “La donna è un animale inferiore” dice Sartre, citandolo, “una latrina; è in fregola e vuole essere fottuta”. L’unica condizione per poterla amare è che sia frigida: “è certo che codesta frigidità tanto vagheggiata imita la gelida severità della madre.” La donna deve essere distante, una statua di marmo. Un cadavere. Solo allora può amarla e godere della “fredda maestà della donna sterile”. Nella sua avarizia onanistica, scrive Sartre, Baudelaire non dà nulla, non si concede. Odia la donna carnale, viva, come odia la natura, il sole, l’acqua corrente (“l’acqua in libertà mi è insopportabile, la voglio prigioniera, alla gogna”), il cielo azzurro; non ama che i cieli grigi, lividi, privi di nubi in viaggio. E’ la freddezza del dandy, il solitario terrorizzato dalla solitudine; il dandy che va in giro agghindato come un lampadario perché chiede di essere guardato; chiede di essere riconosciuto come un diverso, un essere sprezzante, che non si concede all’amore, all’amicizia, alla generosità: perché è un altro. Baudelaire ha scritto, prima di Rimbaud, io sono un altro. Ma, osserva Sartre, implacabile, “quando Rimbaud cerca di farsi il proprio autore e definisce tale tentativo col famoso Je est un autre non esita a operare una trasformazione radicale del proprio pensiero, comincia sistematicamente a sconvolgere i suoi sensi, spezza quella pretesa natura che gli viene dall’origine borghese; non recita la commedia, si sforza davvero di produrre pensieri e sentimenti straordinari. Baudelaire invece si ferma per strada, si spaventa davanti a quella solitudine totale dove vivere e creare fanno tutt’uno (...) Rimbaud non perde tempo a inorridirsi della natura: la rompe come un salvadanaio. Baudelaire non rompe nulla: il suo unico lavoro di creatore è travestire e mettere ordine. Baudelaire è puro creatore di forma; Rimbaud crea forma e materia”.

Sartre con questo studio ha sezionato il personaggio, lo ha analizzato, ne ha trovato le metastasi. Ha fatto di Baudelaire la rappresentazione compiuta dell’uomo asservito al Potere, nell’animo, nella mente; l’uomo sconfitto, che gode con voluttà della propria sconfitta, che indugia nella propria inutilità. E’ dunque contro quest’uomo profondamente borghese che Sartre sembra esseri vendicato con questo saggio? E’ questo ritratto impietoso che ne fa un testo vendicativo?

No. Probabilmente il ritratto è esatto. Molte testimonianze di chi l’ha conosciuto confermano le pagine taglienti di Sartre. La sua operazione è più complessa: Sartre usa le opere per sostenere le sue tesi. Campiona versi dei Fiori del Male, di Mon coeur mis à nu, dei Paradisi Artificiali, dei Poemi in Prosa, de L’Art romantique. Dice: vedete? Ha scritto questo. E confonde totalmente, volutamente, l’uomo con la sua opera. Le opere possono certamente aiutarci nella comprensione dell’uomo. Ma questa operazione ne contiene un’altra, più subdola: una volta acquisita la conoscenza dell’uomo possiamo farci un’opinione su di lui, che ci influenzerà nella lettura (o rilettura) delle opere. E’ la trappola di Sainte Beuve: per conoscere l’opera bisogna indagare nella vita dell’autore, nei suoi studi, nelle sue amicizie, nei suoi natali [concezione contro cui, come sappiamo, si scagliò con decisione Proust (che peraltro adorava Baudelaire)], nella quale in parte sembra cadere Sartre. Ma il canto solipsista di Baudelaire, il suo canto narcisista e onanista, nelle sue opere migliori diventa canto corale, canto universale, in cui noi troviamo il dolore, la solitudine, la pazzia dell’uomo moderno. E lo stesso Sartre sembra rendersene conto, sembra accettarlo nell’ultima parte del saggio, quando, con maggiore distacco, passa ad analizzare l’opera. E se l’analisi feroce del personaggio fa spesso capolino, e l’uomo emerge con le sue miserie nei simboli, nei codici, nell’estetica dei versi, il finale, che si ricongiunge all’attacco, sa di un ultimo, per quanto reticente, inchino: “egli è stato un’esperienza in un vaso chiuso, qualcosa come l’homunculus del secondo Faust; le circostanze quasi astratte dell’esperienza gli han permesso di testimoniare, con splendore ineguagliabile, di questa verità: la libera scelta che l’uomo fa di se stesso s’identifica assolutamente  con ciò che si chiama il suo destino”.


[Questo articolo fu pubblicato su vibrisse nel 2006, quando era un blog multiautore. Ora il sito ha cambiato server, e tutti gli articoli precedenti non sono più visibili in rete. Ho pensato di ripubblicarlo in una versione leggermente riveduta]

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