mercoledì, dicembre 20, 2006
Scampagnata in moto prenatalizia
racconto di Fabio Baldrati
Presto sarà Natale, ancora una volta.
Mentre ascolto musica osservo dalla finestra merli, passeri e pettirossi calare silenziosi sulle briciole di pane che quotidianamente spargo in giardino. Pochi sanno che il pettirosso è un solerte messaggero invernale e preannuncia il freddo con infallibile puntualità, non esiste meteorologo più efficiente.
Fuori una mattinata “norvegese”: molto fredda ma limpida, illuminata da un sole vincitore sulla coriacea nebbia della bassa Romagna, e questo è un evento inconsueto negli inverni color piombo di queste zone.
Un pensierino crescente mi stuzzica senza darmi pace; cerco di autoconvincermi che fa un freddo maledetto, che è meglio abbandonare quell’idea, che certe stupidate si pagano a caro prezzo,…ma non riesco a sopprimere la vocina: che sarà mai! Per un po’ di freddo! E poi non è davvero freddo: zero gradi. Ma sì!
Quando scendo le scale con la tuta invernale addosso e il casco infilato in un braccio ecco che arriva puntuale un coro unanime: “Hei!... sei diventato matto?” E rispondo serafico: “Da legare!”. Tutti scuotono la testa fra il rassegnato e il compatito (compreso Lillo, il cane).
Pochi minuti e sono in garage. Appena apro il portone la luce del mattino scaccia via l’oscurità ed ecco apparire, come al solito, la sagoma inconfondibile della mia Guzzi California. Mi chiudo addosso cerniere e bottoni automatici, con cura metodica indosso il sottocasco a lambire il colletto della giacca, poi il casco, infine gli spessi guanti i cui “manicotti” sormontano abbondantemente i bordi-maniche. Quando si va in moto in inverno nulla deve essere sottovalutato, un solo spiffero può fregarti. Non si scherza col Generale Inverno.
In paese i coloriti addobbi natalizi celebrano un innocente concorso di fastosità. Poi, finalmente davanti al manubrio la campagna: costeggio a bassa velocità brulli frutteti canuti, fossi ghiacciati, i vitigni “inzuccherati” di brina mi ricordano certe stampe giapponesi. Le scure terre hanno ormai vinto gli ultimi residui di una passata nevicata, qua e là ancora resistono poche chiazze bianche.
Non c’è anima viva, tutto è immobile e imprigionato nel freddo, qualche passero frulla fra i cortili e spero di non essere l’unico a spargere granaglie in terra.
L’aria fredda mi punge il volto mentre gli occhi lacrimano, se chiudo la visiera del casco questa si appanna…ecco, così va meglio, un po’ aperta ma non troppo.
Un vecchio luogo comune impone alla moto una collocazione esclusivamente estiva… be’, forse una volta era davvero così e bisogna ammettere che le moto cosidette “naked” (nude ed essenziali) avvallano un simile preconcetto; ma oggi vi sono tute termiche e accessori efficaci, così come la protezione aerodinamica adottata in molte moto difende il motociclista da quella brutta bestia (il vento) che spinge in mezzo al petto.
Eppure nemmeno l’inverno è il diavolo, non è poi così cattivo se ne abbiamo rispetto: scegliamo possibilmente le giornate soleggiate, equipaggiamoci con metodo, soprattutto evitiamo di strafare. Chi ha partecipato a qualche edizione del mitico raduno germanico dell’ Elefanten-Treffen, oppure si è sottoposto a lunghi viaggi nella stagione rigida, non è affatto pazzo, al contrario denota l’intelligenza di chi sa programmare.
Presto sarà Natale, ancora una volta. E per l’occasione qui dalle mie parti, nella Romagna del “mutòr”, due rossi Babbo Natale infiocchettati a bordo di un Sidecar portano caramelle e dolcetti ai bambini; oggi mi piacerebbe davvero incontrarlo quel Sidecar.
A circa trenta chilometri, in direzione nord, esiste una autentica rarità: una vasta zona disabitata in cui lo sguardo si estingue in orizzonti ancora liberi da costruzioni. Per molti chilometri la strada panoramica di “via Agosta” costeggia la valle di Comacchio (l’ultima rimasta), mentre sulla sinistra c’è la distesa del “Texas”: così chiamano quella infinita pianura agricola strappata all’acqua valliva nel dopoguerra. Dopo cinquant’anni quelle terre asfittiche a causa dei residui salini nemmeno rendono il valore del concime usato, mentre la vallicoltura con i “lavorieri” per le anguille e le spigole avrebbe potuto costituire una importante economia. La bonifica delle antiche valli comacchiesi fu una scelleratezza che solamente oggi possiamo comprendere.
Sui lunghi rettilinei “texani” di queste strade, tanti anni fa, venivano a sfidarsi in furiose riprese i motociclisti di mezza Romagna; fra di essi il mitico Silèzi (silenzio) con la sua rossa (e quasi imbattibile) Le mans 850. Sembra ieri…ma quanto tempo è passato. Qui dalle mie parti chi va in moto da molti anni ricorda i bei tempi del “mutor” con nostalgia.“Coraggio, il meglio è passato” diceva Flaiano.
Più volte nel corso dell’anno torno a lambire le “mie” valli, sempre vi sono uccelli di ogni specie in acqua oppure in volo ma oggi anche qui, dove la “vita” è sempre caparbia, tutto è immobile e stregato dal freddo. La valle di Comacchio è una grande distesa azzurrognola piatta come se fosse di olio, alcune “lame” gelate lungo le rive sembrano specchi che riflettono un debole sole in difesa.
E’ una splendida giornata luminosa, ovunque guardo trovo l’orizzonte senza fine. Ma guai a me se oltrepasso i cento orari, il gelo è spietato e non fa sconti, mi fustiga ogni volta in cui provo ad “uscire” oltre la protezione dello schermo trasparente.
Il sommesso borbottare del bicilindrico è l’unico rumore esistente. Per decine di chilometri non incontro anima viva e ciò rende questi luoghi ancora più surreali. E gli uccelli? germani, folaghe, trampolieri…dove saranno finiti? Solo qualche gabbiano vola nell’azzurro pallido. I vecchi pescatori comacchiesi hanno sempre raccontato dell’esistenza di particolari angoli di valle: microclimi meno rigidi in inverno e più freschi d’estate. Chissà quanti segreti custodiscono le valli di Comacchio.
Forse conosco uno di questi luoghi, ci arriverò fra cinque o sei chilometri.
Oltre la valle di Comacchio, dopo il bacino idrovoro, c’è l’oasi Zavelea: un triangolo di valle a carattere paludoso con ampie estensioni di canneti. Per gli appassionati naturalisti è uno dei luoghi più interessanti di tutto il Delta.
Che spettacolo! Subito dopo il bacino idrovoro, sulla destra, una meraviglia degna del National Geografic. Scalo una marcia dopo l’altra e accosto, fermo la moto lungo il ciglio, spengo il motore, apro l’asta laterale, tolgo casco e guanti, poi scendo e vado freneticamente a cercare il binocolo tascabile nella borsa. Questa veduta mi riscalda corpo e anima.
Oltre i canneti dorati dal debole sole… lungo la linea dell’orizzonte in cui l’azzurro dell’acqua e quello del cielo si fondono insieme, c’è la meraviglia del popolo volatile: migliaia di uccelli vallivi si sono dati appuntamento qui per il loro raduno. Scure folaghe sguazzano in una sfida a chi solleva più spruzzi, legioni di germani spiccano il volo creando veloci ventagli nel cielo terso, mentre sugli isolotti i numerosi aironi grigi ritti sulle lunghe zampe sembrano guardiani severi, immobili, con quel loro strano collo ricurvo.
Ma sono le oche selvatiche il vero spettacolo in arrivo dal cielo: sono disposte in ordinati stormi a “V” di dieci o dodici esemplari, la prima oca sulla “punta” fronteggia la resistenza dell’aria e quando è stanca passa in coda, poi un’altra compagna più riposata le dà il cambio. Arrivano dalla Siberia dove vi sono 25 gradi sotto zero per svernare in questa oasi, scivolano esauste sull’acqua con le ali aperte dopo migliaia di chilometri percorsi a chilometri d’altezza, dove l’aria rarefatta richiede meno dispendio di energie. La natura, ha risparmiato solamente le più forti fra loro: saranno forse duecento le temerarie viaggiatrici.
La frustrazione mi assale quando penso che in questa zona cova il progetto di una nuova autostrada (da anni se ne parla: la E-55 Civitavecchia-Mestre). Un’altra.
Prima o poi arriveranno nuovi capannoni, nuovi insediamenti, nuovo “sviluppo”. E’ questione di tempo: ci prenderanno anche il “Texas”, l’ultimo spazio libero rimasto. Infrastrutture, infrastrutture, infrastrutture… tutti le bramano, da destra e da sinistra ne viene rivendicata la paternità, mentre lo scempio perpetrato al nostro paesaggio altro non è che un male necessario, un congruo sacrificio da tributare alla nostra prima divinità: Turismo & Sviluppo.
Non siamo soli, altri popoli ci accompagnano nel viaggio dell’esistenza e dobbiamo averne rispetto, non abbiamo il diritto di devastare i loro abitat, le loro dimore, per soddisfare le nostre onnipotenti necessità.
Ripongo il binocolo e metto il casco, infilo le mani nei guanti, monto in sella e giro la chiave…gnignigni…Wrumm! Un’ultima occhiata alla valle festosa di vita. Clock della prima, via, a casa.
Buon Natale! Tutti i giorni un po’.
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