mercoledì, giugno 15, 2005

Le tue mani amore

racconto frigidairiano

Quel giorno che Antò arrivò in redazione eravamo solo io e il segretario Gino. Erano le dieci del mattino, l’alba praticamente, considerando che era stato chiuso il numero del giornale alle due di notte. Io e Scozzari raramente tiravamo così tardi, perché il montaggio, che aveva una valenza soprattutto grafica, era seguito dal direttore e da Stefano Tamburini, che davano le indicazioni al montatore Franco Circosta, chino per ore e ore sul foglio di carta millimetrata a impaginare servizi.
Antò era già entrato in quella fase di depauperamento psicologico che lo avrebbe portato a un ritiro dal mondo, dalla vita e dal lavoro, fino all’isolamento e al silenzio che precedono il nulla, la fine.
Era ancora attivo, comunque. Portava storie e tavole meravigliose, curate e splendide, in cui il suo talento di disegnatore di fumetti e creatore di storie si esprimeva al meglio. La sua arte, la sua creatività furono le ultime a essere travolte dalla crisi. Tuttavia era iniziata una transizione verso il suo progressivo indebolimento, come una perdita di consistenza dell’aura che lo avvolgeva e lo rendeva più indifeso, più vulnerabile, attirando intorno a sé degli strani individui, dei parassiti che lo seguivano continuamente, e forse gli spillavano denaro, energie e droga.
Quel giorno lo accompagnava un tipo di bassa statura, dall’aspetto trasandato e dai modi nevrotici. Si muoveva a scatti e lanciava intorno a sé occhiate improvvise e aggressive, come un uccello predatore in caccia di vittime.
Appena entrato Antò ci salutò frettolosamente e si rinchiuse in bagno. Il suo accompagnatore restò in piedi nella redazione, una sala con quattro scrivanie, la mia, quella di Gino, di fronte a me, quella di Scozzari, vuota perché lui veniva a Roma due settimane al mese, e la quarta, vuota, che apparteneva al secondo redattore, in quel momento vacante dopo i passaggi veloci di Flores D’Arcais e Stefano Bonilli. Parlottava, muovendo bruscamente la testa, intercalando il suo discorso, abbastanza incomprensibile per i frequenti borbottii, con “peso” e “storia pesa” e “non c’è pezza”, tutte espressioni tipiche bolognesi.
Antò uscì dal bagno e si catapultò nella stanza come se dovesse sfondare una porta. Aveva gli occhi dilatati, frenetici, e contraeva le mascelle, producendo un “mmggr” con lo strofinamento dei denti. “Devo telefonare!” gridò. Attraversò di corsa il disimpegno e si rinchiuse nella stanza del direttore. Udimmo delle grida, delle esclamazioni, poi si catapultò di nuovo nella stanza, sferrò un calcio sul portone d’ingresso e tornò in bagno. Uscì dopo qualche minuto, agitato, digrignando i denti, mentre il suo accompagnatore gli saltellava intorno, borbottando parole confuse. “Vaffanculo!” urlò…“adesso le ritelefono!” Tornò nella stanza del direttore, chiuse la porta con un calcio, e udimmo nuovamente delle grida, più prolungate, più rabbiose. Si precipitò fuori dalla stanza del direttore, si rinchiuse in bagno, tornò in redazione in uno stato di semiparossismo. “Perché?” urlava, misurando la stanza a grandi passi, e sferrando calci al portone, “perché mi sono messo con una stronza? Perché?”. Uscì in giardino, seguito dal tipo saltellante, rovesciò una sedia e si prese la testa tra le mani, continuando a gridare “perché mi sono messo con una stronza, perché!”
Io e Gino lo raggiungemmo, imbarazzati e preoccupati, mentre il tipo che lo accompagnava saltellava agitatissimo e borbottava. Gino gli posò una mano sulla spalla, cercando di consolarlo. Antò, accasciato, con la testa che quasi sfiorava i ginocchi, ripeteva, come una litania: “perché mi sono messo con una stronza? Perché proprio io, io, con una stronza?”
Io andai in bagno a controllare. Sul davanzale della finestra c’era la spada: una siringa posata su un fazzoletto di carta, un cucchiaino, un batuffolo di cotone. Passai un dito nel cucchiaino, lo assaggiai: non c’erano dubbi, cocaina. Si iniettava coca in vena, uno dei demoni più spaventosi di tutte le droghe pesanti. L’effetto dura solo pochi istanti, poi cala di colpo. L’organismo, come impazzito, ne chiede ancora, in dosi sempre maggiori. Quando la roba finisce, e c’è il calo totale, drammatico, viene la febbre, dolori muscolari, tosse.
Tornai in giardino. Antò era afflosciato, sembrava privo di forze. Probabilmente nella soluzione aveva messo anche eroina, uno speed-ball, dunque, ed ora “veniva su” la “merda”, l’eroina.
Mi sedetti accanto a lui. Inutile consolarlo, come tentava di fare Gino. La droga pesante è un essere totalitario che controlla tutte le funzioni mentali e nervose, le parole sono inutili. Gli chiesi solo: “come stai?”
Antò alzò due occhi arrossati, esausti, su di me.
“Dovevamo...” disse, ansimando per l’affanno, “andare in Umbria questo fine settimana. E’ da mesi che non stiamo un po’ insieme in vacanza. Io devo studiare degli sfondi medievali, ho bisogno di sporcare un po’ di tela e di cartoni... adesso invece vuole andare a Firenze, per la mostra di Fiori. E il prossimo fine settimana io sono a Roma, e quello dopo lei deve studiare per un esame. Così salta tutto. Non vuole mai stare da sola con me, questo è il punto. E’ una stronza, pensa solo agli amici.”
Antonello Fiori era un pittore fiorentino che da qualche tempo collaborava col giornale. Portava delle tavole molto originali, sembravano delle immagini iperrealiste, o delle foto, elaborate, stravolte con interventi pittorici.
“Che devo fare?” disse Antò, con la testa tra le mani. “Fiori è certamente un caro amico, ma lei... e va bene, ci andrò” disse, come se rispondesse a una domanda che nessuno di noi aveva formulato. A quelle parole il suo accompagnatore si agitò oltre ogni immaginazione. Gli saltava intorno, gridava “peso” e “storia pesa” con frasi smozzicate, e forse disse “vengo io”. A quel punto Antò gli sferrò un calcio. L’altro sembrava in guardia, perché balzò indietro, ma non abbastanza in fretta da evitare del tutto il colpo. “Fottiti, pezzo di merda!” gridò Antò. “Smettila di ronzarmi intorno!” L’altro si dondolava da un piede all’altro, e borbottava “storia pesa” e “oh!”, e “fuori di cranio”. Antò si alzò faticosamente in piedi. “Ci andrò” disse. L’altro individuo si teneva a distanza di sicurezza, ma non gli staccava gli occhi di dosso. “E’ ovvio, è la mostra di Fiori...” Si strofinò la faccia con le mani e inspirò una profonda boccata d’aria. Sembrava distrutto dopo uno sforzo fisico enorme. “Voglio che vieni anche tu” disse, mettendomi una mano sulla spalla.
“Io?” chiesi, colto di sorpresa. “A Firenze?”
“Ma sì, ci sarà tutto il circo equestre fiorentino, porta la macchina e fa’ un po’ di foto. Dai, vieni”.
Boccheggiai. Ero abbastanza stanco, o meglio, stufo, in quel periodo. Avevo appena realizzato un servizio fotografico impegnativo sulle notti romane, le feste, i ritrovi, e dovevo stampare una montagna di foto in bianco e nero. Ma alla fine la mia vocazione di curioso, di esploratore, e le insistenze di Antò, ebbero la meglio. Accettai.
Antò si mosse a fatica, come se una febbre alta gli tagliasse le gambe. Ci salutò, aprì la porta e uscì in strada. Il tipo lo seguiva saltellando e borbottava, grugniva parole incomprensibili. “Va’ farti inculare, gran pezzo di merda!” lo sentimmo gridare, prima che il rumore del traffico li inghiottisse.


Tutto il circo equestre fiorentino era una definizione perfetta. Era riunito l’ambiente trendy della città, tutti i personaggi glam sembravano essersi dati appuntamento per l’evento: c’erano ragazzi coi capelli irti come spilli, cosparsi di lacca, o gel; altri ragazzi truccati pesantemente da donna, con rossetto, ombretto e smalto neri, pur non essendo necessariamente gay (e quei tempi molti ragazzi alla moda si truccavano in quel modo); camicie aperte sul petto rigorosamente depilato mettevano in mostra tatuaggi cancellabili con scritte come “Chanel” e “Vogue”; le ragazze erano perlopiù bellissime e appariscenti, con minigonne, calze a rete, oppure abitini anni ’50 color crema, o pistacchio, borsette a scacchi sgargianti; una ragazza bionda, tenuta a guinzaglio da un ragazzo truccato con unghie lunghissime e laccate, si metteva in posa davanti alla mia Polaroid SX 70 con atteggiamenti aggressivi, mostrando gli artigli, confondendo così il suo ruolo di cagnetta con quello di gatta; c’era anche qualche signora molto distinta, molto mondana, per nulla a disagio tra tutti quei personaggi variopinti e trasgressivi.
Io scattavo delle Pola molto forti, anche perché quando i miei soggetti imparavano dove lavoravo si eccitavano, esclamavano: “sei di Frigidaire? No, veramente?” e assumevano pose pazze. C’era questa voglia di stupire, di trovare uno stile a tutti i costi, di essere “di più”, per essere notati, apprezzati, chiacchierati. Ed io mi stupivo, ma per un altro motivo: era singolare il contrasto tra l’immagine esterna del Frigido, così prestigioso negli ambienti modaioli, e la redazione che lo pubblicava, composta da mezzi guerriglieri malvestiti, ignari delle tendenze e delle mode, spesso di cattivo umore, cupi o nevrotici. Forse erano proprio loro, i fumettari, con la loro arte, la loro fantasia, a creare il mito.
Ed eccoli là, le star: Fiori, in forma smagliante, era addirittura ubriaco di attenzioni. Era così conteso che non poteva intrattenersi con nessuno per più di venti secondi. Alto, bello, indossava un abito nero con giacca a quattro bottoni e una camicia grigia col colletto abbottonato. I lunghi capelli castani, vaporosi come quelli di Christopher Cross, ogni tanto gli coprivano un occhio e allora li scostava rovesciando indietro la testa. Sembrava una creatura generata apposta per il successo: era sempre di buon umore, sempre misurato nei modi, nel parlare, nel mangiare e nel bere. Credo che non avesse mai assunto alcuna droga in vita sua, né bevuto alcoolici al di fuori di qualche calice di champagne. Non ne aveva bisogno: era amato da tutti, ricco, adorava la mondanità, i salotti, i party, le prime, e le belle ragazze, che non chiedevano di meglio che farsi vedere in sua compagnia. Si diceva che la donna più tradita del pianeta doveva essere proprio la moglie di Fiori, che cercava di darsi da fare per galleggiare in quell’acquario di pesci esotici multicolori: lei, che sembrava una piccola, inelegante carpa di fiume: di bassa statura, svelta, pratica, era così inadeguata come moglie di Fiori. In quegli anni in cui l’immagine sembrava l’unico obiettivo di vita lei era la rappresentazione vivente della contadinotta finita chissà come accanto a un giovane aristocratico di successo.
E poi c’erano loro, ammantati di leggenda, di fascino, desiderati e ammirati quanto o addirittura più dello stesso Fiori: Antò e la mitica fidanzata Fiorella detta Fiore: bellissimi, circondati da un’aura di eleganza ma anche di mistero. La crisi di Antò, quel suo essere out, i suoi occhi spenti, quasi vitrei, tutto era travolto da una curiosità cieca che si disinteressava della realtà e non chiedeva che di essere soddisfatta dalla contemplazione, dall’assimilazione della coppia più in del momento. L’essere vicini alla loro immagine era l’unico traguardo da raggiungere, perché arricchiva, migliorava la propria immagine. Ciò che erano veramente, i loro desideri, i loro drammi, non aveva alcuna importanza.
E infine c’erano i quadri, che quasi nessuno aveva il tempo di contemplare, perché troppo urgente era il bisogno di parlare, ridere, guardarsi intorno ed essere guardati, e soprattutto non ritrovarsi mai da soli, neanche un attimo. Io non riuscivo a trovare altra definizione, per quanto mi sforzassi di collegarli alle tavole fumettistiche di Fiori, alla grafica moderna, che: quadri cubisti. Erano puramente, semplicemente cubisti. Sembravano rifacimenti di certe tele di Braque, o di Picasso. Non mi sembrava un difetto, né un pregio. Non trovavo altro da dire.
Scattai trenta Polaroid, tre scatole. Una bella collezione di tipi alla moda, forse si poteva fare un piccolo servizio sul giornale, una cosa del tipo i minireportage mondani con foto istantanee di Vogue Italia. Un lavoretto maledettamente costoso, pensavo mentre camminavo verso la casa di Fiori, con loro quattro, a sera ormai tarda, perché non era stato facile disimpegnarsi, rifiutare decine di inviti ad altre feste, cene, vernissages vari. Le Pola erano le pellicole più care di tutte, ormai le avevo pagate di tasca mia e non avevo nessuna speranza di farmele rimborsare dalla misteriosa, oscura entità finanziaria che stava dietro il giornale e che solo il direttore, a quanto sembrava, conosceva.

L’appartamento di Fiori era in un palazzo del ‘500 in pieno centro storico. Dal grande salone col soffitto affrescato, che si affacciava su un ampio terrazzo invaso da piante e vasi di fiori, si dominava la cupola di Brunelleschi.
La moglie di Fiori, che era estremamente attiva, pratica, e gentile, attenta a me che, da solo tra due coppie, rischiavo di essere un po’ emarginato, ci preparò spaghetti al pomodoro e basilico. Ma non avevamo fame, ci eravamo rimpinzati oltre ogni limite nel sontuoso buffet della galleria d’arte.
Dopo cena, stravaccati su tre divani di pelle bianca, chiacchieravamo pigramente di arte, pittura, cinema, ma anche di pettegolezzi su questo e quest’altro, malignità varie, che era un costume molto diffuso tra noi del Frigido, pettegoli, invidiosi e maligni come eravamo.
“E’ tua questa casa?” chiesi a Fiori, in un momento in cui gli altri erano in cucina a bere champagne.
“Nooo, scherzi?” disse Fiori, divertito. “Come potrei avere una casa simile? Non ha prezzo. Guarda gli affreschi dei soffitti: sono opera della migliore scuola di decorazione fiorentina del Rinascimento. Appartiene a un principe, ultimo discendente di una casata antichissima, mio ammiratore. In cambio gli consegno dieci quadri all’anno. E non è tutto. Ho anche uno studio sulle colline, un intero piano di una villa medicea, due saloni luminosi e panoramici”.
Mi guardai intorno. Tutto era curato in quella casa, ogni particolare, ogni dettaglio era firmato da un artista, o un architetto.
“Suoniamo qualcosa?” disse Antò, entrando dalla cucina con un calice in mano. La proposta fu accettata con entusiasmo. Un pianoforte che stava appoggiato al muro fu portato al centro della sala e Antò e Fiori si sedettero uno accanto all’altro
Quello che seguì mi lasciò a bocca aperta: i due suonavano divinamente, a quattro mani, sembravano due esperti musicisti perfettamente affiatati da anni di concerti. Suonarono dei pezzi jazz e gospel, e anche di classica. Poi partì La donna cannone di De Gregori, cantata a due voci. Un’esecuzione fantastica, struggente. Antò stava curvo sul piano, e scuoteva la testa seguendo il ritmo della musica; Fiori invece la rovesciava indietro come se respirasse a pieni polmoni, libero e felice, grato alla vita. Fiore, seduta con la schiena dritta, era assolutamente immobile. Il viso chiaro, coi grandi occhi tristi, incorniciato da capelli nerissimi, quasi blu, era enigmatico, malinconico, impenetrabile. Mentre Antò e Fiori cantavano “e le tue mani amore...” io fui travolto da una strana, violenta tristezza che mi chiuse la gola. I due amici cantavano a squarciagola, e battevano sui tasti col massimo dell’energia; Fiore fissava il vuoto, come rapita da un mistero che forse solo lei poteva svelare. La moglie di Fiori era in cucina, la sentivo muovere degli oggetti metallici, forse delle stoviglie. Era tagliata fuori da quell’atmosfera incantata, da quella malinconia cosmica, da quella oscurità, proprio come me.
Mi sentii così stanco che mi stesi sul divano. “Le tue mani amoreee...” Chiusi gli occhi. Cercai di disattivare anche l’udito. Volevo spegnere tutto, dormire profondamente protetto dal buio e dal silenzio.

Io e Fiori pranzammo in un piccolo ristorante vicino a casa sua. Le cameriere, e il proprietario del locale, lo adoravano. Se lo mangiavano con gli occhi, sembravano ansiosi di servirlo al meglio, di non fargli mancare nulla.
Antò e Fiore erano partiti per l’Umbria. Alla fine Antò l’aveva convinta a passare qualche giorno a Perugia e Gubbio, loro due soli, finalmente.
“Sai, mi sta accadendo una cosa stranissima” disse Fiori, quando arrivarono i caffè.
“Ah, sì? E cosa?”. Sembrava immerso in una profonda riflessione, era distante, serio, quasi cupo. Era strano in un tipo come lui, sempre così solare.
“Ho... una storia... sì, una storia d’amore, con la ragazza di uno dei miei migliori amici. Oserei dire col mio migliore amico”.
“Oh” dissi, e non seppi aggiungere altro. Ma d’altro canto Fiori non cercava opinioni, o solidarietà. Sembrava solo interessato a riflettere ad alta voce, ad ascoltare se stesso.
“E’ così... strano. Io penso tra me: lui è un amico carissimo, è un fratello. Ama quella ragazza, sogna di sposarla, di avere dei figli con lei. Ed io ci vado a letto. La cosa mi emoziona, mi... come posso dire? mi taglia a fette. Eppure continuo a vederla, neanche mi sfiora il pensiero di troncare. Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile”.
“E lei?” chiesi.
“Lei... soffre. Molto. Forse lo ama, comunque lo ha amato alla follia. Però ama me adesso. E forse anch’io la amo. Almeno credo. Deve essere così. Nulla è chiaro. L’unica cosa certa è che ci vado a letto, e questo mi taglia a fette, ma non posso rinunciare a lei”.
“E tua moglie?” domandai. In quel racconto tutti i pezzi erano fuori posto e la cosa mi mandava in uno stato confusionale. Cercavo di mettere un po’ d’ordine, di capire.
“Oh, Gianna...” disse Fiori, fissando la tazzina vuota. “Lei... non sa cosa vuole. O forse sì, lei è l’unica che lo sa. Vorrebbe una vita stabile, una vite semplice. Con me”, soggiunse, storcendo la bocca. Era uno strano ghigno su quel volto così allegro, soddisfatto di sé e del mondo. “Sì, con me, ma io... non la amo per niente”. Mi piantò in faccia due occhi sfavillanti, mobili, che sembravano bruciare di un sentimento violento e tenebroso. “Non la amo, non l’ho mai amata. Forse questa è l’unica certezza di questa storia”.
“E non riesci a decidere se ami l’altra?”
Fiori distolse lo sguardo e tornò serio, assorto. “Mah... me lo chiedo ogni giorno, ogni minuto. L’unica cosa di cui sono davvero cosciente è che è la ragazza del mio migliore amico, che io ci vado a letto, e non ho nessuna intenzione di troncare. Mi taglia a fette questa situazione, ma non posso, anzi, non voglio troncarla. E’ amore questo? Io non lo so”. Sbattè il cucchiaino sul bordo della tazzina. Quel suono acuto mi fece sobbalzare. “E’ amore? Tu cosa pensi?” mi chiese, fissandomi.
Io guardavo i suoi occhi scuri, mobili, e mi sentivo intorpidire, nel corpo e nella mente. Mi sentivo come se un serpente mi stesse ipnotizzando, prima di attaccarmi. “Eh?” insistette Fiori, “cosa dici amico? Sono innamorato di lei?”
Riuscii a distogliere lo sguardo. Bevvi d’un fiato un bicchiere d’acqua. Quella situazione era così confusa, e squilibrata. Vacillavo.
“Io... non lo so” fu l’unica cosa che riuscii a dire.

Tornai a Roma e fui risucchiato da un vortice furioso di lavoro. Il nostro giornale faceva parte di un progetto comune con altre riviste europee, la francese Actuel, l’inglese The Face, la spagnola El Vibora, l’olandese Koos, che aveva come obiettivo un numero speciale sulla creatività europea. Una sorta di gemellaggio che superava le barriere di razza, di cultura, di lingua. Era un continuo scambio di materiali, foto, disegni, testi da tradurre.
Così, quando arrivò la notizia, fui colto di sorpresa: Fiore aveva lasciato Antò e si era messa con Fiori, che aveva lasciato la moglie. Era andata a vivere con lui, nell’appartamento fiorentino, e adesso Fiori e Fiore erano la nuova coppia mitica del mondo underground-modaiolo. Antò si era ritirato in un piccolo paese dell’Appennino umbro dove, si diceva, aveva una nuova fidanzata, dipingeva, faceva arti marziali e si stava disintossicando dalla droga. La moglie di Fiori si era trasferita dai genitori e stava studiando per concludere l’Università.
Che quella storia squilibrata avesse una conclusione positiva, che portava salute e felicità?
Dopo sei mesi lasciai il giornale e tornai al paese, nella mia casa semidiroccata, a leccarmi le ferite. Là mi arrivò la notizia che a Fiori e Fiore era nata una bimba che avevano chiamato Chiara. Passarono altri due mesi, iniziai a scattare foto per una rivista milanese e stavo pensando seriamente di trasferirmi in quella città.
Proprio mentre ero a Milano per consegnare un servizio lessi sul giornale la notizia della morte di Antò. Sconvolto, telefonai ad alcuni amici comuni, che dissero che le circostanze non erano per nulla chiare. Antò era sparito dal giro, nessuno aveva più contatti con lui. Comunque non sembravano esserci molti dubbi sulla causa della morte: overdose.
Finalmente mi trasferii a Milano, dove cercai di costruirmi una nuova vita. Di Antò si parlò molto, vennero fuori disegni e storie inedite e si organizzarono mostre in varie città. Io vendetti alcune sue foto che avevo scattato a Bologna, lui vestito elegantissimo e con la corazza del kendo.
Pensavo spesso a lui, e quasi sempre i ricordi si indirizzavano verso quella sera, dove una realtà parallela, oscura, galleggiava invisibile e ignota tra le note di quella canzone.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

... ci vuole pazienza in queste storie vero?

maline

Anonimo ha detto...

Mon dieu, che pietosa cazzata...