domenica, settembre 24, 2006


Sillabe pericolose

Più volte mi sono chiesto come mai le donne della Bassaromagna, in particolare le signore di una certa età, abbiano serie difficoltà a pronunciare le sillabe “au” e “ou”: Laura diventa “Lavra”, autocarro “avtocarro” (ma c’è anche la variante “altocarro”, come “altomatico”), mentre “outlook” assume le forme di “ovtlok!” e così via. Io, per esempio, ho passato l’infanzia e l’adolescenza sentendomi chiamare “Mavro”. E’ una caratteristica singolare, buffa, enfatizzata fino al grottesco dai vari Ferrini, Giacobazzi, che fanno il verso proprio a queste signore, e hanno contribuito a rendere la pronuncia romagnola una sorta di pretesto per abbandonarsi a grasse risate. Da dove viene questa difficoltà? Ho pensato che possa derivare dall’alfabeto del ventennio, quando la “u” si scriveva”v”, come nell’antica Roma; è certamente una spiegazione plausibile, ma non l’ho mai ritenuta davvero esaustiva. La questione è più complessa, non ho mai avuto dubbi. Così mi sono messo ad ascoltare il suono, a considerare cioè l’aspetto fonetico: la lettera “a” è parte della sillaba “ah” che può significare dolore, sorpresa, ma anche piacere, abbandono (“ahhh...”), e così, con qualche sfumatura diversa, la lettera “o” e la relativa sillaba. Poi ho collegato la fonetica alla fisiognomica, perché è il arrivo la novità della “u” che crea le sillabe incriminate: per pronunciare “au” la bocca deve fare una contrazione, e le labbra devono allungarsi sensibilmente quando arriva la “u”; provando, riflettendo, guardandomi allo specchio ho concluso che è una posizione della bocca che ricorda la suzione, sia da un punto di vista fonetico che fisiognomico: succhiare insomma, la tettarella, il capezzolo materno; oppure, più probabilmente, il membro maschile. Sì, ho pensato che le signore della Bassaromagna abbiano introiettato un imbarazzo antico, atavico, verso queste sillabe perché quando le pronunciano una voce ad altissima frequenza nascosta nell’inconscio sussurra loro che stanno effettuando una prestazione sessuale orale, e quindi questa forma di cortocircuito determina una risposta a bassissima frequenza che le obbliga ad ammorbidire, o a neutralizzare, il pericolo.

Ovviamente era solo un’ipotesi, per lo più eccentrica. Ogni tanto riflettevo, e mi veniva da ridere pensando a qualche cliente di mia madre parrucchiera che vedeva se stessa, senza esserne cosciente, nell’atto di prendere in bocca un membro maschile.
Poi mi sono imbattuto nel fulminante capitolo di un libro che stavo leggendo. E’ la descrizione di un rapporto sessuale, e sono 17 pagine (17, sì) prodigiose, va detto: il libro è Caos Calmo di Sandro Veronesi, che ha un’abilità stregonesca nel condurci come viaggiatori incantati, strabiliati, attraverso descrizioni anatomiche che scivolano, senza che ce ne rendiamo conto, in estrosi, affabulatori, paradossali flussi di coscienza. Alcune parti di questo capitolo, che si riferiscono proprio a un rapporto orale, hanno confortato la mia ipotesi. Ora so che non solo è suggestiva, ma è molto, molto attendibile.

“Oh, l’inizio di un pompino – Oh. Ogni volta mi stupisco che una cosa così semplice possa essere anche così infallibile. Una bocca che si apre e via: che ci vuole? Chiunque può farlo. E perché allora non succede di continuo? Perché ne facciamo una merce tanto rara? Siamo pazzi, tutti.

– Vorrei tenerlo in bocca tutta la notte – dichiara Eleonora Simoncini, a voce alta, stringendo il cazzo a un centimetro dalle labbra come fosse un microfono. E questa è una cosa bellissima da sentirsi dire, veramente bellissima e risolutiva, perché è come se mi avesse invitato a lasciarmi andare all’indietro, in shavasana, sull’erba, a guardare le chiome dei pini, se proprio non posso chiudere gli occhi, e le stelle sfocate, e la luna ardente, mentre lei finisce di perseguire il suo ideale di virtù ricompensata. Però, per quanto possa essere rassicurante il senso delle sue parole, c’è stato qualcosa nel loro suono che mi ha sconvolto, qualcosa di smerigliato, sì, e di affilato, come una specie di sacra, lancinante scudisciata che mi ha trapassato il corpo in tutta la sua lunghezza – la sensazione fisica più intrusiva mai provata in vita mia. E’ passata, ormai, è durata un solo istante, e lei ha ricominciato a succhiare, concreta, produttiva, nell’intento ormai lampante di farmi venire nella sua bocca; ma la scoperta che si può provare anche quello sbilancia daccapo tutto.

– Ridillo – sento me stesso ordinare.

Eleonora Simoncini si ferma di nuovo, fa sgusciare il cazzo fuori dalla bocca, vola all’indietro i capelli con una bellissima mossa della testa, e mi guarda, divertita. Poi ripete il giochetto del microfono, ora più smaccatamente, prendendo il cazzo con tutte e due le mani e parlandoci sopra ad occhi chiusi, come fanno i cantanti confidenziali che probabilmente ama.

– Vorrei succhiartelo tutta la notte – ripete.

Stavolta è anche più forte, quasi insopportabile. La vibrazione, sì, la vibrazione che la sua voce emette a un millimetro dalla mia cappella, la ‘u’ e la ‘o’, soprattutto, la vibrazione della ‘u’ e della ‘o’: come un fendente che penetra attraverso il simbolo stesso del penetrare, una frequenza di unghie che raschiano la lavagna, e poi l’eco cavernosa di un lamento micidiale che risuona nella più remota profondità dei lombi, il riverbero di un dolore lontano e disperato...”

1 commento:

Anonimo ha detto...

ciumbia!
Divertente.