Dove sono i grandi scrittori? Una lettera di Pietro Citati
Qualche tempo fa ho letto, in un sito letterario molto interessante, molto moderno e anche un po’ snob, che Pietro Citati sarebbe “un trombone”. Ora non so quale significato attribuire a questa parola, che ha certamente una valenza dispregiativa: se per trombone si intende un uomo d’altri tempi, che fa riferimento a una scrittura d’altri tempi, a uno stile estinto, dimenticato, totalmente non aggiornato sulle mode attuali perché poco curioso, e per nulla entusiasta, allora va bene; Citati rientra nella categoria. Ma se si intende che il trombone è una sorta di maschera inespressiva, un professorone che ascolta soprattutto il suono cupo della propria fama, i brontolii che emergono dal proprio microcosmo fatto di certezze sclerotiche, di patetiche rigidità, allora non sono affatto d’accordo. Citati non è tale. Coltiva una scrittura raffinata, un “bello stile” che pochissimi, ormai, sono in grado di apprezzare e quasi nessuno di produrre. Ha scritto sì un’opera discutibile come Kafka, un libro che è una summa di tutte le letture teologiche, così riduttive, così rassicuranti dell’opera di Kafka; però La colomba pugnalata è un libro struggente, in cui la figura di Proust emerge in tutta la sua gigantesca, ironica genialità; e i saggi contenuti nel Male Assoluto sono notevoli nella loro linearità e semplicità.
Comunque l’articolo mi ha richiamato alla memoria un episodio che vede coinvolto proprio Citati. Ero seduto nel bellissimo giardino botanico di Arco di Trento, di fronte alla sequoia, con un giornale che chiamerò il quotidiano; avevo appena letto un articolo che mi aveva inquietato parecchio. Nel testo si diceva che gli editori puri sono ormai scomparsi in Italia: al posto dei Valentino Bompiani ci sono freddi manager che trattano il libro come un elettrodomestico, come un detersivo. Questa situazione ha di fatto segnato la scomparsa dei “grandi scrittori”, e il loro posto è stato preso da autori medi che scrivono libri di media qualità e di media durata, che è esattamente ciò che cercano i nuovi editori-manager. Guardavo la grande sequoia mentre la malinconia calava in me come una melma che occlude i canali della speranza e dell’allegria; dunque i grandi scrittori sono estinti per sempre? Certo, di grandi libri ce n’è a migliaia, solo pescando nell’Ottocento e nel Novecento c’è da leggere per una intera vita, però... non avremo mai più un Henry James, e tutto per colpa di questi affaristi editoriali? Perché, affermava l’articolista, non si tratta di una normale evoluzione dello stile: i grandi scrittori sono sempre esistiti, così come i grandi pittori e i grandi musicisti, semplicemente attraverso i secoli cambiavano i moduli espressivi; no, la situazione è molto grave, il mercato, il denaro, il supermaterliasmo capitalista hanno soffocato a morte la grande musica immortale, la grande pittura e, ovviamente, la grande scrittura.
Così sono tornato a Torbole, a casa dei miei suoceri (a piedi, come sempre, lungo la pista ciclabile che costeggia il fiume Sarca), e nella cameretta che mi ospita ho preso carta e penna e ho scritto a Citati, mio vecchio amico di lettera (sì, proprio un foglio infilato in una busta affrancata, mica una e-mail). Ecco la sua risposta:
“E’ certissimo che i grandi scrittori non moriranno mai. Aspettano, dormono (parola illeggibile, forse “attendono”), il tempo giusto per risvegliarsi. Il mercato non uccide nulla. Nell’Ottocento, le esigenze del mercato erano peggiori di oggi: Balzac e Dostoevskij erano schiavi del mercato; eppure erano romanzieri meravigliosi. Non creda alle sciocchezze dei collaboratori del quotidiano”.
Dunque non mi resta che chiosare con la più stereotipata delle considerazioni: dove sono finiti i grandi scrittori? Ai posteri l’ardua sentenza.
Per noi, ormai è finita.
Qualche tempo fa ho letto, in un sito letterario molto interessante, molto moderno e anche un po’ snob, che Pietro Citati sarebbe “un trombone”. Ora non so quale significato attribuire a questa parola, che ha certamente una valenza dispregiativa: se per trombone si intende un uomo d’altri tempi, che fa riferimento a una scrittura d’altri tempi, a uno stile estinto, dimenticato, totalmente non aggiornato sulle mode attuali perché poco curioso, e per nulla entusiasta, allora va bene; Citati rientra nella categoria. Ma se si intende che il trombone è una sorta di maschera inespressiva, un professorone che ascolta soprattutto il suono cupo della propria fama, i brontolii che emergono dal proprio microcosmo fatto di certezze sclerotiche, di patetiche rigidità, allora non sono affatto d’accordo. Citati non è tale. Coltiva una scrittura raffinata, un “bello stile” che pochissimi, ormai, sono in grado di apprezzare e quasi nessuno di produrre. Ha scritto sì un’opera discutibile come Kafka, un libro che è una summa di tutte le letture teologiche, così riduttive, così rassicuranti dell’opera di Kafka; però La colomba pugnalata è un libro struggente, in cui la figura di Proust emerge in tutta la sua gigantesca, ironica genialità; e i saggi contenuti nel Male Assoluto sono notevoli nella loro linearità e semplicità.
Comunque l’articolo mi ha richiamato alla memoria un episodio che vede coinvolto proprio Citati. Ero seduto nel bellissimo giardino botanico di Arco di Trento, di fronte alla sequoia, con un giornale che chiamerò il quotidiano; avevo appena letto un articolo che mi aveva inquietato parecchio. Nel testo si diceva che gli editori puri sono ormai scomparsi in Italia: al posto dei Valentino Bompiani ci sono freddi manager che trattano il libro come un elettrodomestico, come un detersivo. Questa situazione ha di fatto segnato la scomparsa dei “grandi scrittori”, e il loro posto è stato preso da autori medi che scrivono libri di media qualità e di media durata, che è esattamente ciò che cercano i nuovi editori-manager. Guardavo la grande sequoia mentre la malinconia calava in me come una melma che occlude i canali della speranza e dell’allegria; dunque i grandi scrittori sono estinti per sempre? Certo, di grandi libri ce n’è a migliaia, solo pescando nell’Ottocento e nel Novecento c’è da leggere per una intera vita, però... non avremo mai più un Henry James, e tutto per colpa di questi affaristi editoriali? Perché, affermava l’articolista, non si tratta di una normale evoluzione dello stile: i grandi scrittori sono sempre esistiti, così come i grandi pittori e i grandi musicisti, semplicemente attraverso i secoli cambiavano i moduli espressivi; no, la situazione è molto grave, il mercato, il denaro, il supermaterliasmo capitalista hanno soffocato a morte la grande musica immortale, la grande pittura e, ovviamente, la grande scrittura.
Così sono tornato a Torbole, a casa dei miei suoceri (a piedi, come sempre, lungo la pista ciclabile che costeggia il fiume Sarca), e nella cameretta che mi ospita ho preso carta e penna e ho scritto a Citati, mio vecchio amico di lettera (sì, proprio un foglio infilato in una busta affrancata, mica una e-mail). Ecco la sua risposta:
“E’ certissimo che i grandi scrittori non moriranno mai. Aspettano, dormono (parola illeggibile, forse “attendono”), il tempo giusto per risvegliarsi. Il mercato non uccide nulla. Nell’Ottocento, le esigenze del mercato erano peggiori di oggi: Balzac e Dostoevskij erano schiavi del mercato; eppure erano romanzieri meravigliosi. Non creda alle sciocchezze dei collaboratori del quotidiano”.
Dunque non mi resta che chiosare con la più stereotipata delle considerazioni: dove sono finiti i grandi scrittori? Ai posteri l’ardua sentenza.
Per noi, ormai è finita.
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