lunedì, aprile 25, 2005

Narr(ific)azione e narr(ific)atori

Il termine narrificazione è stato inventato da Tiziano Scarpa in una immaginaria conversazione con un amico filosofo (cliccare qui per leggere). Narrificazione è uno stile di scrittura finalizzato esclusivamente al racconto, a una storia. Tutti gli elementi, i luoghi, i personaggi, i dialoghi, rientrano in questa economia. Per semplificare diciamo che i narrificatori sono gli scrittori industriali americani, Tom Clancy, Stephen King eccetera. E’, quindi, una scrittura di genere, e le opere di narrificazione sono senza dubbio le prime assolute in termini di vendita. Forse perché sono sostanzialmente testi di evasione, e quindi particolarmente adeguati ai nostri giorni, dove il tempo libero è sempre più scarso, la mente è affaticata, confusa dalla televisione, che è l’Antimateria della letteratura, desiderosa di perdersi in una storia avvincente. La narrificazione si legge in autobus, in treno, in bagno, nei ritagli di tempo. I testi sono costruiti seguendo un “plot”, che l’autore adatta alla storia che vuole sviluppare. Solitamente non mancano mai gli elementi di base: amore e/o sesso, mistero, sospetto, violenza quando è necessaria. Naturalmente la narrificazione ha dei difetti che sono strutturali, costituzionali, perché interni al genere stesso: la noia, che è endemica, e la quantità varia a seconda del talento del narrificatore; lo scarso spessore psicologico dei personaggi, perché la ricerca psicologica non è funzionale al racconto; i dialoghi, che difficilmente sono verosimili, ma spesso vuoti e improbabili (anche qui la bravura del narrificatore è risolutiva); l’intreccio, che talvolta è troppo contorto, complicato; un eccessivo affollamento di personaggi; le esagerazioni per stupire il lettore (troppa violenza, troppo sesso, troppo mistero) e altro ancora.
Io sono un amante del genere, perché amo le letture leggere, i fumetti, le storielle (sono sempre storielle, anche le cosiddette storiacce, perché le opere più truculente, dove un serial killer commette omicidi efferati con dovizia di particolari macabri, sono “acquetta” a confronto coi grandi romanzi neri come I Demoni, o Giro di Vite o i racconti di Poe). Li divoro, con qualche sbadiglio, d’accordo, ma trascorro ore piacevoli di lettura. Ho un’autonomia di circa quattro, cinque libri. Poi avverto un senso di insoddisfazione, di inutilità, e devo leggere (o, più spesso, rileggere) un’opera di narrazione vera, un’opera dell’Ottocento, o del Novecento, un grande libro insomma, quelli che oggi sembrano estinti, che mi restituisce un po’ di energia e di entusiasmo.
Vorrei segnalare alcuni narrificatori particolarmente bravi che ammiro e invidio (che invidio, sì, perché sarebbe un mio sogno segreto appartenere a questa categoria), e i cui libri sono tra i più interessanti, avvincenti ed equilibrati che ho letto.

L’inglese Bernard Cornwell: ha scritto un’opera in quattro volumi dal titolo Excalibur, sul mito di Artù, Merlino ecc, e sta pubblicando una nuova serie ambientata durante la guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia (spesso i narrificatori procedono con ritmo seriale scrivendo libri con gli stessi personaggi che vivono diverse avventure); per ora due titoli: L’arciere del re e Il cavaliere nero. E’ uno storico, un grande esperto di guerre, i suoi libri sono delle ottime ricostruzioni di ambienti, tecniche militari, mentalità dell’epoca.

L’americano Michael Connelly: a mio avviso è il migliore nei neristi americani. Il poliziotto outsider Hieronymus Bosch naviga in una Los Angeles fangosa e dannata, tormentato da colleghi corrotti e dementi, risolvendo omicidi spietati. I suoi libri sono intercambiabili, tutti ottimi: Il Poeta, Il Ragno, Musica Dura, Debito di sangue (questo con un altro eroe, l’agente FBI Mc Calleb, che ha subìto un trapianto di cuore; Clint Eastwood ne ha tratto un bel film), La memoria del topo (scopiazzato da Frederick Forsyth per il suo Vendicatore).

Stephen King, il più famoso, un marchio di fabbrica certificato. Cuori in Atlantide è stupendo. Però non è da tutti affrontare l’incredibile, per certi aspetti mostruosa, dilatazione dei tempi e degli spazi dei suoi romanzi torrenziali. Non sbrodola mai, non si perde; riesce a espandere fino all’inverosimile un episodio, un personaggio senza cadere nel delirio narrativo. Seguirlo però non è un’impresa facile.

Il francese Christian Jacq, un altro storico, per la saga in quattro volumi di Ramses. Un affresco fascinoso, preciso e documentato sull’antico Egitto.

Valerio Evangelisti, per le saghe di Eymerich, Magus, Metallo Urlante. Però il genere gli va un po’ stretto. Ha forti contenuti politici, di denuncia sociale, fantascientifici. Diciamo che fa frequenti incursione nell’altro campo, quello della narrazione pura.

Una considerazione a parte va alla regina del dark-horror, l’inglese Anne Rice, autrice del celebre Intervista col vampiro. Le avventure del vampiro Louis attraversano un paio di secoli navigando in una decina di titoli, tutti di ottimo livello. Talvolta eccede un po’ con le atmosfere gotiche, col sangue e con la morte, ma le va perdonato tutto: per gli amanti del genere non ha rivali.

Altri narrificatori famosi a livello planetario, come quel sudafricano di razza bianca, cacciatore di leoni e di elefanti di nome Wilbur Smith, o Follett, benché abbiano alcuni buoni spunti, li lascio dove sono, sepolti dalle decine di milioni di copie vendute, perché leggendoli mi sono slogato le mascelle per gli sbadigli.

Ma il più grande di tutti, anche se per ora ho letto un solo libro (è una scoperta recente), il più perfetto, il più esaltante, è un italiano: Valerio Massimo Manfredi. L’Ultima Legione è un capolavoro di narrificazione storica. E’ ambientato nell’Anno Domini 476, quando l’Impero Romano d’Occidente aveva la capitale a Ravenna e in Italia comandava il re barbaro Odoacre. Guerre, avventure mozzafiato, viaggi attraverso l’Europa sconvolta dalle invasioni barbariche, un finale che fa battere il cuore. Se mi chiedessero: che libro avresti voluto scrivere? Io risponderei, senza esitare, L’Ultima Legione.


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