lunedì, aprile 11, 2005

PAZ

L’arrivo di Andrea Pazienza in redazione era sempre un avvenimento. Portava nuove tavole, nuove storie, e questo bastava a entusiasmare i redattori e soprattutto il direttore. Poi c’era il suo fascino personale, quell’entusiasmo innato, quell’irruenza un po’ infantile che, unite a un senso naturale di smarrimento – quasi una sorta di fragilità – polverizzava ogni ritrosia anche nei più timidi, nei più misantropi. Con Paz si era a proprio agio, sempre. E infine la sua immagine vivente: oltre ad essere indubbiamente bello e forte era sempre vestito con gran lusso. E questa, in una redazione che sembrava un collettivo di autonomi di Via dei Volsci (nonostante i tentativi dei redattori – attraverso foto patinate pubblicate sul giornale – di sembrare “fichi”), con abiti stazzonati, barbe di una settimana, capelli scarruffati, volti imbronciati, era una cosa davvero inusuale. Soprattutto il direttore ne era abbagliato. “Ehi, ma avete visto il suo giubbotto?” diceva, quando Paz era uscito, “quanto potrà costare? Un milione? Due milioni?”. Indossava infatti degli strepitosi giacconi di pelle, che, oltre ad essere certamente firmati da qualche stilista top di quegli anni, esprimevano il massimo dell’eleganza su quell’indossatore d’eccezione.
Proprio all’ex direttore, nonché uno dei fondatori di Frigidaire, ho chiesto un ritratto di Paz. Mi ha inviato questo testo, che volentieri pubblico.

Di Vincenzo Sparagna

Il caro Mauro Baldrati, antico collaboratore/redattore di Frigidaire, autore – tra le molte cose – di una bellissima serie di ritratti fotografici di mio padre Cristoforo Sparagna nell’83, nonché di tante splendide fotografie di Andrea Pazienza e di tutti noi della redazione, mi chiede di inviargli un piccolo ritrattino scritto di Paz. Ora parlare di Andrea non mi dispiace affatto, ma so che qualsiasi ritrattino, memoria o aneddoto non può che essere un parzialissimo contributo per avvicinarsi a uno degli autori più geniali e innovativi del finale del secolo ventesimo.
Vi era infatti in Andrea una fusione piena, sentita, non estemporanea né estrinseca, tra molti livelli di sensibilità artistica, una sorta di naturale leonardismo, di spontaneo universalismo rinascimentale.
In lui le più diverse discipline, nelle loro più lontane manifestazioni popolari o d’alto profilo, si univano e si intrecciavano: letteratura e disegno, pittura e scultura, cinema e fotografia.
Il suo era un viaggio estetico ininterrotto e felice, che andava tranquillamente da Walt Disney a Gustavino, da Sven Hassel a Franz Kafka, da Adriano Celentano a Mozart.
Questa interdisciplinarietà intima, questo suo nomadismo creativo, supportato da un talento naturale fantastico, non era tuttavia fine a stesso, un semplice (si fa per dire) manifestarsi solipsistico e compiaciuto della sua bravura personale.
No, il Narciso che abita in ogni Vero Artista, a guardarlo da vicino, è la necessaria autoaffermazione (dolorosa anche quando appare arrogante) di energie, desideri, paure e pensieri di intere generazioni.
In Andrea, “nato” artisticamente nel fuoco del movimento del ’77, cresciuto in maturità e sicurezza nelle redazioni “anomale” di Cannibale, Il Male e Frigidaire, questa relazione tra l’artista individuale e l’esponente necessario, il frutto succoso, la voce narrante di un pezzo di generazione sociale e culturale è strettissima. Nessuna sua opera può essere capita fuori da questa sfida, da questa prova del fuoco, dal confronto tra il sé dell’autore e il mondo che rappresenta, denuncia, e anzi, direi, cambia con il suo racconto.
Andrea fu un Kerouac, che non puoi considerare un semplice scrittore, togliendogli la co/invenzione della beat generation, un Dostoevskij, che non puoi capire se cancelli Gogol o i demoni di quel periodo di “anime morte”. Ecco perché la riduzione della storia di un autore come Andrea (o, potrei dire, come Scozzari o Tamburini o me o altri di noi) a una “brillante carriera” è il peggior servizio che tante pseudocelebrazioni postume rendono talvolta ingenuamente, talaltra in malafede – alla sua memoria.
E’ significativa per esempio la rimozione, pressoché totale nelle celebrazioni postume, come di un accidente di percorso da passare sotto silenzio, del suo rapporto con l’eroina, la sua sorella maledetta.
Un rapporto che invece fa parte intimamente di quel vivere pericolosamente, al confine con la morte, che esaltò e avvelenò tutta la sua generazione, in quel drammatico finale degli anni ’70, divisa tra il piombo e la droga, l’avventura disperata e la scalata al cielo.
In realtà ogni sottovalutazione dell’eroina, così come lo spirito rivoluzionario di Andrea e dei suoi/nostri compagni di viaggio e di sfide, è un modo per tradirne la “poetica”.
Si può forse ridurre Van Gogh a un damerino di galleria? No. E allo stesso modo è assurdo voler separare le qualità formali ed estetiche di Paz da quel suo vivere con la rivoluzione, con il movimento, in quella rivoluzione, vivere con la droga.
La sfida alla morte di Paz che oggi appare chiaramente come quello che fu, cioè una storia di suicidio involontario, era assurda almeno quanto la sfida alla morte che alcuni di noi praticavano nelle armi o in altre impossibili missioni.
Dobbiamo leggerla come un segno di un’epoca in cui, forse a torto, ma con molte ragioni, tanti pensarono che i tempi della storia stringevano, che eravamo alla vigilia di scelte epocale che avrebbero cambiato, in meglio o verso il nulla, i destini del pianeta e della civilizzazione.
Solo questa dimensione, questo respiro rende giustizia alla grandezza del suo segno.
Non la ribellione, non l’eroina in sé certo, ma quel suo partecipare a una scommessa totale e sincera: liberi o definitivamente morti. La stessa sfida, anche se tutta collocata nell’oscuro intimo dell’io, che, dopo l’avvento di Karol Wojtyla al papato, portammo (con le false Trybuna Ludu, Pravda e Stella Rossa) a est nell’impossibile tentativo (poi incredibilmente riuscito) di rovesciare l’inattaccabile “comunismo realizzato” sovietico. Ed è su questo che dovremmo continuare a meditare, se non vogliamo ridurre l’arte a una “brillante carriera”. L’arte è un messaggio, un destino, una testimonianza, un sacrificio sicuramente assurdo, ma anche bellissimo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

grazie per il ricordo di Pazienza
Alle prossime
Sergio