martedì, settembre 20, 2005

Anch’io la mia intermittenza

Ho sempre considerato il famoso episodio della madeleine della Ricerca con una sorta di meraviglia, di stupore: com'è possibile una tale sensibilità, rivivere con emozioni così intense, persino fisiche, il ricordo di un passato lontano? Ho anche tentato, a più riprese, di inseguire a mia volta quell’esperienza, mangiando e bevendo cose che amavo da ragazzino, ma restavo immobile, confuso, perplesso, con una frittella di farina di castagne in mano, col latte e cacao, ascoltando un rumore di fondo che non arrivava, tentando di attivare un meccanismo bloccato. Niente da fare. Se vi erano intermittenze anche nel mio cuore, esse non uscivano dallo stato di sonno.
Poi, l’altro giorno, a Torbole sul Garda, con la mia signora siamo andati alle "Busatte", località che si trova sopra una delle montagne che circondano il lago, per camminare lungo un famoso sentiero finalmente rimesso a nuovo, attrezzato con una serie di grandi scale di metallo – calate con gli elicotteri tra le polemiche per le ingenti spese – che collegano vari dislivelli. Nello spiazzo di un centro sportivo era in atto un raduno di vespisti, ragazzi che coltivano la passione per questo italianissimo motociclo degli anni Sessanta. Si erano accampati con le tende poco più in là, sotto un bel cartello "No Camping". Non appena abbiamo iniziato la salita, alle nostre spalle, nella tendopoli, è accaduto qualcosa. Una musica è emersa con prepotenza e si è diffusa tra i boschi e le montagne. Mi sono immediatamente bloccato, poi ho guardato verso la tendopoli: i ragazzi, in jeans, capelli lunghi, arrotolavano sacchi a pelo, sedevano sul prato in cerchio, a gambe incrociate. La musica era l’attacco, inconfondibile, di Woodoo Chile di Jimi Hendrix. Ed è accaduto: un colpo violento, un brivido che si è diffuso dalla nuca alla schiena, alle braccia, alle gambe: sono precipato nel 1969, nel 1970, quando ascoltavo Jimi, mi vestivo come Jimi, portavo i capelli come Jimi e gli amici mi chiamavano Jimi; ma non è stata un’operazione della memoria, no, si è trattato di un processo globale, fisico, che ha coinvolto la respirazione, il battito del cuore, la vista, l’olfatto, l’udito, l’energia muscolare: ho rivissuto tutta la forza, l’ottimismo, la fiducia di quei tempi, di quell’età; sono uscito da questo corpo e da questa mente, da questo sistema nervoso, ed è stato come vivere l’esperienza della trasmigrazione descritta da Anne Rice, la grande scrittrice dark di New Orleans, nel Ladro di corpi: sono uscito da questi limiti, da questo peso, da questo presente per rientrare in una dimensione perduta, bruciata, eppure per un attimo completamente ritrovata. E ho capito, con straordinaria intensità, che cosa ha provato Proust. Non mi era mai accaduto: avevo qualche sospetto, qualche vago presagio di cosa potesse significare questa avventura, ma nessuna vera certezza. Non credevo – non speravo - che potesse accadere veramente. Invece è accaduto e, anche se forse non capiterà mai più, mi ritengo fortunato.

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