giovedì, aprile 07, 2005

Il mio incontro con Silvio Berlusconi

Di Berlusconi, dell’ultimo Berlusconi, mi colpiscono soprattutto gli occhi: diventano sempre più piccoli, due fessure inespressive. Anche i lineamenti si sono modificati: sarà il lifting, sarà la vecchiaia, o le difficoltà di governo, ma la sua faccia si è indurita, ha perso quel pathos che ha sedotto milioni di cittadini che l’ascoltavano a bocca aperta mentre affabulava, prometteva, scherzava, attaccava. Questa nuova immagine di Berlusconi mi ha prepotentemente richiamato alla mente il ricordo di un mio incontro con lui e il suo ambiente, il suo territorio, un incontro breve ma istruttivo, avvenuto negli anni Ottanta, quando era al massimo dello splendore. Come contrasta quella figura smagliante, che sprizzava energia, forza di conquista, con quella inquietante, stanca e un po’ rabbiosa di oggi.
Sia chiaro che non provo né pietà né solidarietà e neanche odio per questo personaggio. Non provo assolutamente nulla, né simpatia né antipatia. Berlusconi è una creatura del Buio, il suo unico scopo su questa terra è portare la vita, l’umanità, la natura verso un progressivo scadimento di qualità, fino a una crisi che può essere più o meno grave, dipende dai tempi, dalla libertà d’azione. Deve essere semplicemente neutralizzato, allontanato per sempre da ogni luogo di aggregazione sociale, ricacciato nel Buio dal quale è uscito e dimenticato per sempre.
Ma veniamo al mio piccolo racconto.
Fui inviato dal mensile Capital a Milanello, la sede del ritiro del Milan, per realizzare un servizio fotografico su Fabio Capello, l’astro nascente degli allenatori di calcio. Arrivai una mattina verso le otto e trenta, e c’era già, dalle prime ore dell’alba, una piccola folla di tifosi assiepata lungo le cancellate. Mi feci strada tra i padri, le madri, i bambini, i coatti, che aspettavano l’arrivo delle star, Gullit, Van Basten, nella speranza di strappare un autografo, un’occhiata, magari un saluto.
Capello era già in tuta, correva sul prato e faceva ginnastica. Presi accordi sulle foto: avrei scattato una serie di immagini in campo, durante gli allenamenti coi calciatori, e poi, prima di pranzo, la foto di copertina, contro il fondale scuro che avrei montato in un locale adiacente la palestra. Quindi mi piazzai a bordo campo e aspettai l’arrivo dei giocatori. Verso le dieci avevo già dell’ottimo materiale, anche una serie di immagini in posa coi campioni, gli allenatori (ci sono vari allenatori e preparatori in una grande squadra di calcio) e qualche dirigente incravattato. A un certo punto fui avvicinato da un tipo sui trent’anni, che già impersonava il classico yuppie di Forza Italia (che non esisteva ancora): abito azzurro, efficienza, arroganza, servilismo e ottusità; si presentò come addetto stampa della squadra, mi strinse distrattamente la mano e disse: "tra una mezz’ora è atteso il Presidente. Lei non deve fotografarlo, capito? Non deve assolutamente scattare neanche una foto. Le è severamente vietato. Ha capito?". Muoveva le mani con una certa frenesia, si vedeva che i comandi che mi impartiva gli mettevano ansia, forse perché io lo fissavo stralunato, mi sembrava un marziano caduto sulla terra. Dissi che andava bene. Non dissi "d’accordo, non lo fotografo", dissi "va be’", o qualcosa del genere, e questo lo fece innervosire ulteriormente. Ripetè con maggiore aggressività che era severamente vietato scattare foto al Presidente, e io "va be’, va be’". Poi lo ignorai perché avevo da fare, c’era da allestire il set per la foto di copertina. Tornai a bordo campo verso mezzogiorno, e mentre i calciatori andavano verso la palestra per la ginnastica finale si udì un rumore assordante provenire dall’alto. Un gigantesco elicottero, il più grande che abbia mai visto, compresi gli elicotteri dei film, atterrò dietro una fila di alberi. Immediatamente si scatenò una grande agitazione: uscirono delle persone dalle palazzine, alcuni si misero a correre, l’addetto stampa tornò fuori dal suo buco e si diresse a grande falcate verso l’elicottero. Intanto dal velivolo erano scese delle persone: due piloti con la divisa blu e gli alamari dorati, Berlusconi, Cesare Previti e una segretaria che li seguiva con un telefono portatile sempre appoggiato all’orecchio. Vari personaggi lo seguivano o gli parlavano, ma sempre a una certa distanza, come se intorno a sé Berlusconi avesse un cerchio disegnato che nessuno poteva oltrepassare. L’addetto stampa gli saltellava dietro e cercava un varco, un buco nell’impenetrabile smalto protettivo che lo circondava per parlargli. Finalmente ebbe la sua grande occasione, e mentre camminavano nella mia direzione, o meglio, nella direzione di Capello, che si trovava a due o tre metri da me, l’addetto mi indicò con un ampio gesto del Braccio. Berlusconi mi guardò e annuì con la testa, al che l’addetto si ritirò tutto compito. Intento il drappello era arrivato a bordo campo, e Capello gli andò incontro. Berlusconi fece un cenno col capo verso di me, mi tese la mano e disse "Buon giorno, come sta?" E io "Bene, grazie". E lui "le auguro buon lavoro". E io "grazie". Questo rapido scambio di battute fu seguito con espressione rapita dai personaggi che gli stavano intorno, specialmente dall’addetto stampa, che era addirittura in uno stato di contemplazione mistica. Berlusconi, Capello e Previti iniziarono a parlare fittamente, ed io scattai una serie di foto, primi piani, figure intere. Era piuttosto coreografico Berlusconi: avvolto in un lussuoso mantello lungo fino ai piedi, sulla testa aveva un vistoso cappello di foggia inglese. Lo sguardo era vivace, penetrante, il sorriso smagliante, l’aura di potere che lo circondava sfolgorava.
Intanto che scattavo l’addetto stampa sbarrava gli occhi, forse accennò qualche passo verso di me, ma si fermò: il capo, il Principe mi aveva parlato, addirittura mi aveva stretto la mano; mi aveva passato un po’ della sua aura, non poteva più avvicinarsi.
Il gruppo si avviò verso la palazzina, dove c’era il ristorante. Io riavvolsi il rullino, smontai l’obiettivo e riposi la macchina nella borsa. L’addetto stampa si avvicinò. "Erano vietate le foto" disse, ma con un filo di voce, e un tono di rimpianto così struggente che mi fece alzare gli occhi su di lui per vedere se non stesse piangendo. "Però" disse d’un tratto, rianimandosi, "non deve pubblicarle, ha capito? E’ severamente vietato pubblicarle! E’ chiaro?" E io "Eh". "Davvero" insistette, ritrovando il suo fiero cipiglio da usciere "non provi a pubblicarle".
Non le pubblicai infatti. Non subito almeno. Al giornale non le giudicarono interessanti. Erano scatti da fotoreporter, istantanee, e la linea del giornale era indirizzata decisamente verso le foto in posa. Inoltre il servizio su Capello era già ricco di immagini, era ininfluente la presenza del presidente della squadra.
Ma un paio d’anni dopo scoppiò il caso Previti, mentre Berlusconi esplodeva come personaggio pubblico. Così le passai a un’agenzia e andarono stravendute.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissimo, questo racconto. Mi piace soprattutto la patetica figura dell'addetto stampa. Peccato che Berlusconi la sua aura ormai l'abbia persa: lui stesso ne è consapevole, tanto che ha dovuto rimettersi a fare la gavetta a Ballarò.

Anonimo ha detto...

Certo, certo, ma come aveva ben visto Montanelli, non era che un piazzista. Il piazzista di Arcore.
Forse stiamo assistendo alla morte (politica) di un commesso viaggiatore...

maline

Anonimo ha detto...

E'vero, è molto bello questo racconto. Il vero protagonista è lui, l'addetto stampa, squallido, tragico. Caro Baldrus, hai rappresentato il perfetto servo del potere. In quanto a Berlusconi... mah, quello ha sette, nove, venti vite. Chissà cosa sarà capace di fare prima di cadere.

Anonimo ha detto...

racconto carino davvero,scrivi bene.
piero