martedì, gennaio 31, 2006

Niente di antico sotto il sole

Il fotografo è un viaggiatore, un nomade: durante i suoi viaggi attraversa territori, li esplora, cerca di scoprirne i segreti. La mostra che è stata inaugurata venerdi 27 gennaio al Museo Morandi di Bologna ospita il viaggio di un grande fotografo in uno spazio estremamente piccolo e chiuso, lo studio del pittore Giorgio Morandi. Luigi Ghirri, nato a Scandiano (Reggio Emilia) e scomparso nel 1992 all’età di 49 anni, ha realizzato questa ricerca negli atelier di Morandi di Via Fondazza, a Bologna, e di Grizzana, nel 1989. Altri fotografi si sono avvicinati alla pittura e ai pittori, talvolta con una sorta di riverenza, come il fratello minore che guarda con una vena di soggezione il fratello maggiore. Alcuni hanno realizzato ritratti di artisti, producendo servizi memorabili, come Ugo Mulas; altri si sono avventurati nel percorso, irto di ostacoli, di fare della fotografia una forma di arte pittorica, come Mapplethorpe con le famose foto dei fiori. Luigi Ghirri non era un fotografo di personaggi, ma di luoghi, di spazi. Si è occupato a lungo di architettura, e di paesaggi, che ritraeva con un occhio raffinato, ironico. In questo lavoro i paesaggi sono gli angoli dello studio di un grande pittore, il cavalletto posto in un angolo, accanto alla finestra che lo inonda di luce; sono i muri schizzati di colore, particolari di porte, rotoli di tela o di carta, foto appese, vecchi libri di Leopardi e di Tagore; e gli oggetti cari a Morandi, le bottiglie, le oliere, le ciotole, le caraffe, i pestelli, i bicchieri, disposti sui tavoli dove il pittore li ritraeva di continuo, nel gioco di riproduzione degli oggetti negli stessi spazi limitati in una splendida, silenziosa meditazione. Ghirri li dispone secondo equilibri morandiani, e li ritrae con colori tenui, a luce naturale, con ombre morbide, ma non cade nella trappola della foto pittorica, dell’imitazione del quadro. Non li arabesca tra le due superfici piane divise dalla linea dell’orizzonte care a Morandi. Nell’immagine c’è sempre un’asimmetria dello sfondo, un oggetto di lavoro del pittore, un tubetto di colore schiacciato, un paio di pinze. Viaggia nel piccolo, sconfinato mondo del pittore, ma non rinuncia al suo ruolo di esploratore attento e sensibile. Gli oggetti, gli scarni arredi, illuminati da una luce discreta, oggetti polverosi e dimenticati, sono così liberati dalla prigione del tempo e dello spazio, e ogni foto potrebbe recare una didascalia, sempre la stessa: quella frase famosa di Ghirri, che un giorno scrisse ribaltando il motto dell’Ecclesiaste: niente di antico sotto il sole.

La mostra resterà attiva fino al 26 marzo.

venerdì, gennaio 27, 2006



Grandi fotografi in periferia

Non occorre sfogliare un libro fotografico di Avedon, di Sanders, di Penn, per addentrarsi nell’opera di un grande fotografo che documenta la vita, il lavoro, che fa ritratti e réportage. Un fotografo emiliano, Enrico Pasquali, di cui esistono alcuni libri pubblicati dall’Istituto dei Beni Culturali della Regione Emilia Romagna e dal Comune di Medicina, dove aveva uno studio, ha prodotto forse una delle più importanti documentazioni sulla vita contadina e operaia degli anni Cinquanta. Le ambientazioni sono le campagne e i paesi dell’Emilia, la Bassa, ma anche l’Appennino, l’entroterra montanaro più aspro. Sono réportages sulla trebbiatura, l’aratura, il lavoro delle mondine; interni di case contadine, antri scuri che sembrano emergere da un’altra epoca, da un passato di stenti e di povertà, di vestiti di stracci di cui, forse, non abbiamo più memoria. Non sono foto drammatiche però: Pasquali non indugia sulla fatica o sulle scene di miseria. Sono immagini scattate "dall’interno" di un mondo a cui il fotografo – che è stato lui stesso bracciante prima di aprire lo studio - sente di appartenere. Non vi è il filtro estetico di Avedon quando, negli anni Settanta, documentava il sottoproletariato americano; eppure questo monumentale lavoro contiene ritratti e scene memorabili da inserire a pieno titolo nel portfolio di un grande autore.
E poi le cooperative: Pasquali entra nei bar cooperativi, fotografa i braccianti in abiti da lavoro, le case; sono le cooperative del dopoguerra, quando si lottava per costruire un’alternativa possibile all’organizzazione del lavoro del "siùr padrun da li beli braghi bianchi" attraverso l’autogestione e l’uso collettivo della terra.
E qui, mentre sfoglio i libri nella Biblioteca della Sala Borsa, mi viene in mente il nostro presente, l’Unipol, Consorte, l’ex ministro Bersani che definisce l’Unipol "una perla del capitalismo italiano".
Dove sono finiti quei valori? Perché è andata così?

(Nella foto di Pasquali un bracciante ritratto a Casola Valsenio (Ravenna) nel 1955

mercoledì, gennaio 25, 2006


Un artista rock

Chi ha avuto la fortuna di leggere Vita complicata del compagno Jimi Hendrix conosce il personaggio Dennis, il caro amico poeta/guru del movimento psichedelico del narratore Jimi. Bene, Dennis oggi ha 54 anni, vive al paese di Mezzaluna, dov’è nato, e scrive per un giornale locale. E’ un mensile stampato e diffuso a Mezzaluna, e contiene tutte le notizie, i commenti, le segnalazioni dei giornali locali. Di fatto ha carta bianca, può raccontare, criticare, parlare in prima persona. Attualmente si occupa di tradizioni contadine, i falò d’estate, la piadina romagnola, tutto ciò, dice, che riguarda “il posto in cui mi trovo a vivere”. Giorni fa mi ha inviato (con la posta, perché Dennis non possiede un computer, né un lettore DVD, e scrive a mano con una matita) una serie di testi, alcuni pubblicati, altri inediti. Io gli ho scritto che a mio avviso erano testi particolari, sorta di ricerche antropologiche in cui una componente scientifica, ben documentata, era contaminata da uno stile particolare, un po’ surreale, il suo: che mi sembravano interessanti, però doveva procedere con attenzione, perché il rischio era di sconfinare nel naif. Immediatamente (Dennis ha sempre avuto una velocità di risposta prodigiosa) mi ha inviato questa lettera, che ho deciso di riprodurre, perché a mio avviso è molto bella, è una lettera di Dennis.

“Io sto cercando di studiare, conoscere e capire il posto in cui mi trovo a vivere, e, per farlo, intendo usare tutto quello che mi capita sottomano: scienze, mitologia, religione, superstizione; e poi folklore, chiacchiere, tradizioni, azzardi, abitudini, passioni, genialità, stravaganze, stupidaggini, manie, diari, storie, luoghi comuni, proverbi, banalità, canzoni, fandonie, folgorazioni, rimasticature, rutti, scorregge eccetera.
Io non sono un ricercatore o un divulgatore scientifico, ma un artista rock. Io non ho soggezione delle cose alte e non ho schifo delle cose basse. Il rock, la grande novità del rock sta appunto nel mischiare tutto, nel non essere schiavo del basso e mai signore dell’alto. Prendi Frank Zappa e dimmi dove comincia la cultura alta e dove finisce quella bassa. Bisogna usare sempre tutto e non essere mai usati da niente. Io vengo dal rock e il rock produce folletti e non soldatini di piombo. Ma questo non significa niente. È tuttalpiù una dichiarazione d’intenti. Il rischio è quello di essere naif, vale a dire la quintessenza del provincialismo più beota.
Partendo da Mezzaluna, io intendo parlare del mondo. E capire Mezzaluna è per me, un modo per capire il mondo intero. Se è vero che da qualche parte si deve pur cominciare, io ho cominciato dal posto in cui mi trovo a vivere.
L’universale sta esattamente a Mezzaluna come sta a Londra o a New York. Si tratta di cercare e, dopo, bisogna anche trovare. Agli altri, sai, non interessa quello che cerchi, ma soltanto quello che sei riuscito a trovare. Il punto è questo: io so cosa sto cercando, ma non so cosa ho trovato. Credo niente, e temo anche che, da solo, impiegherò tanto tempo per capirlo. A forza di smacchi la vita si consuma. Il tempo passa e a me resta sempre la curiosità di sapere qual è il modo migliore per sprecare questa wonderful life”.

(L'immagine è un collage di Marianne Brandt, 1928)

sabato, gennaio 21, 2006

Recita. Di. Maschere. Tragiche.

Ieri sera un vecchio amico ed io avevamo in programma un sabato sera ortodosso maschile, uno di quei sabati sera che si organizzano tre o quattro volte l’anno tra vecchi amici un tempo ragazzi e ora padri di famiglia, per ritrovare qualche traccia della vecchia energia amicale, del vecchio spirito navigatore; il programma era molto semplice: pizza, chiacchieratina e film. Ma scorrendo i titoli dei film sui giornali è subito emersa la deprimente situazione della programmazione in una media città italiana: gli stesi titoli – Pieraccioni, Woody Allen ecc – ripetuti ossessivamente in tutte le sale. Niente scelta, niente tensione, niente curiosità. Ormai è la regola, con le multisale omologate Mc Donald. Che facciamo? Mah, e se lasciassimo perdere il film e mangiassimo solo la pizza e poi torniamo a casa (di lui, perché la sua famiglia era in montagna) e ci guardiamo Berlusca contro Rutelli? Così, una serata rilassante. Perché no? Ma poi perché uscire in pizzeria in fondo? E se ci preparassimo qualcosa in casa, così il relax è totale? Abbiamo guardato nella credenza e nel frigorifero e abbiamo trovato: 2 fette di mortadella; un vasetto aperto di pomodori secchi confezionati artigianalmente; una confezione di mandorle biologiche; cinque tarallucci grandi fatti a mano; quattro fette di pane di Altamura; due pizze surgelate; una bustina piena per tre quarti di cioccolata in tazza della la figlioletta in montagna. Perfetto. Ci siamo messi al lavoro e dopo mezz’ora stavamo sgranocchiando le pizze, davanti alla TV. Siamo subito incappati nel “talk show” di quel personaggio che un tempo dirigeva La Padania , quello che recentemente ha querelato una ragazza che ha un blog per via di un articolo che non contiene nessun apprezzamento offensivo. Si pensa che questo personaggio abbia inserito il proprio nome in google, abbia trovato questo articolo (cliccare qui per leggerlo) e abbia deciso di querelare la ragazza. Dunque da questo personaggio c’erano Maurizio Gasparri e Pecoraro Scanio che “discutevano” in maniera animata in quello che, secondo il personaggio in questione, dovrebbe essere un “confronto all’americana”. Sembravano due al bar Sport, con un pacchettino di pistacchi e una coca a “fare una partita di chiacchiere”, con qualche pugno sul tavolo, qualche ghignata, qualche pacca sulla spalla, qualche “ma voi aiutate Bin Laden”. Era evidente che si trattava di una recita per la Tv, falsamente animata, in realtà straniata e straniante, come va di moda oggi in politica qua nel nostro paese industrializzato europeo. Coi vestitini telegenici, di uguale corporatura, della stessa età, con lo stesso tono di voce, i due attori ci stavano vagamente deprimendo. Non ci credeva nessuno alla serietà della recita, erano troppo ammollati, troppo mosci. Così abbiamo cambiato canale e siamo andati sul 5, dove c’è la compagnia del Bagaglino, con Pippo Franco, Ayda Iespica dell’Isola dei Famosi, e Pamela Prati con le cosce che saltano fuori dagli spacchi del vestito, grida, lazzi, gesti. Beh, qui c’era un tipo che era uguale sputato a Antonio di Pietro. Sembrava proprio lui. E un altro che era uguale sputato a Schifani, quello che una volta parlava a nome di Berlusconi in TV. Erano uguali, o degli imitatori sublimi o dei sosia. Sghignazzavano sguaiati, mentre Pippo Franco gridava e le due soubrette sgambettavano, gridavano questi imitatori-sosia, come se fossero stati a una festa di addio al celibato, un po’ brilli, su di giri. Il fatto inquietante era che l’imitatore di Di Pietro sembrava proprio Di Pietro in persona, era identico, ma proprio un clone perfetto. Guarda che è lui, ha detto il mio amico. Ma no, ha aggiunto poi, è impossibile. Di Pietro non è il fondatore de “L’Italia dei Valori”, quello che ha scatenato Tangentopoli, che ha affondato la DC e il PSI? Non può essere lì a sghignazzare in quel modo di fianco all’imitatore di Schifani. Il fatto è che anche Schifani sembrava proprio Schifani, era uguale sputato, una copia identica. Ma il dubbio è diventato angoscioso, perché a un certo punto i due imitatori-sosia hanno preso una torta a testa e, tra lazzi, risate sguaiate e grida, se le sono spiaccicate in faccia. Così, si sono dati le torte in faccia Di Pietro e Schifani, ridendo come matti. Stralunati, increduli, io e il mio amico guardavamo la scena con occhi sbarrati, perché non riuscivamo a decidere se quei due erano davvero Di Pietro e Schifani, ma erano loro perdio, perché è impossibile che possano esistere degli imitatori così perfetti, e poi non dicono che le creature ottenute per clonazione, tipo la pecora Dolly, sono deboli di salute e finiscono per morire? Invece quei due erano pieni di energia, ridevano con le facce imbrattate di torte, ed erano troppo uguali a Di Pietro e Schifani, quindi erano davvero loro. Ma possibile? Non siamo riusciti a prendere una decisione. Ancora oggi non siamo sicuri, non sappiamo stabilire chi fossero quei due. Ci è restato un dubbio atroce e selvaggio.
E finalmente sono arrivati i due campioni. Berlusca e Rutelli, ma qui non c’è molto da dire. Sembra che abbia vinto ai punti Rutelli, ma va a capire cosa significa, era una recita simile a quella che era stata appena rappresentata nel programma dell’individuo che ha querelato una blogghista, cambiava la statura politica dei leaders, cambiava leggermente il tono di voce, ma era una commedia simile, la Commedia senza più fine della politica italiana dei nostri anni. Così si è fatto tardi, li abbiamo lasciati al loro destino e ce ne siamo andati a dormire.

giovedì, gennaio 12, 2006


So che tra mostri terribilmente identici non si può fare alcuna scelta.
So che la differenza, che noi dobbiamo scavare e approfondire, è quella tra particolarismo dei privilegi e universalismo dei diritti.
So che senza questa comprensione, senza questo coraggio di approfondire i problemi, senza questa radicalità rivoluzionaria, senza questa libertà di mandare affanculo tutti i mostri che continuano a riempire di incubi la nostra esistenza, so che senza tutto ciò il nostro movimento sarà condannato alla sterilità.

(Io sono un black bloc - Derive Approdi 2002)

lunedì, gennaio 09, 2006

Scrivere per vendetta

Si può scrivere per vendetta? Può uno scrittore, un giornalista, un critico, usare il suo talento e, quando ne ha la facoltà, il suo potere per stroncare un avversario avendo come unica motivazione quella di fare il male? Henry Miller stigmatizzava questo comportamento perché la scrittura, diceva, non può venire meno alla sua missione, che consiste nella ricerca, nella comunicazione di emozioni. Oggi il giornalismo è ebbro di vendetta, di trappole velenose, e l’etica che invocava Henry Miller è quasi totalmente dimenticata. I critici, se detestano uno scrittore, lo ignorano. Il che è forse peggio delle vecchie, sane stroncature, che comunque imprimevano uno scatto di energia a un testo. E gli scrittori? Vi sono opere in cui l’autore ha creato personaggi sulla base di matrici reali, e talvolta li ha animati sulla scena del proprio teatrino con un sarcasmo che rasenta la crudeltà. Certe figure di Proust sono intrise di un’ironia che ci strappa sorrisi feroci, e noi sappiamo che dietro ci sono due, tre, a volte quattro figure reali da cui ha attinto per creare i suoi attori; Vitaliano Brancati crea dei personaggi così grotteschi, che, nella tragedia di certe sue storie nere, dà l’impressione di sghignazzare amaramente alle loro spalle. Ma è vendetta? Non vi è certezza, non vi sono segnali sicuri. E, in assenza di tracce inequivocabili, noi prendiamo le loro pagine taglienti per quello che sono, cioè rappresentazioni dell’assurdo, del ridicolo. Ma uno scrittore, uno dei grandi dell’Ottocento, si è abbandonato al gusto amaro della vendetta senza alcun dubbio interpretativo; offeso nel suo intimo da un mancato riconoscimento, logorato da una vita grama di sconfitte, ha dato libro sfogo al suo odio producendo un libello terribile, forse l’esempio più aspro di scrittura offensiva: quello scrittore era Charles Baudealire, e il libro La Capitale delle Scimmie. E se in Proust l’ironia non è mai disgiunta da una vena autentica di affetto, e con Brancati entriamo in una paradossale animazione di macchiette, in questo libro Baudelarie si abbandona alla cieca a un odio profondo, furioso, e le parole, usate come corpi contundenti, hanno come unico scopo quello di ferire e di offendere.
L’antefatto: Baudelaire non riesce più a trovare una via d’uscita ai suoi problemi in Francia. I creditori lo perseguitano, gli editori rovinano le sue poesie con tagli e censure, per evitare processi per oscenità. L’ultima boutade, l’autocandidatura all’Accademia di Francia, lui, l’antiborghese, l’antitrombone per eccellenza, è andata buca. Il rapporto con la madre non è mai risolto, e continua a trascinarsi per strade di solitudine, di fallimenti e di non-amore. Si sta avvicinando la fine, lo sente. La malattia si è aggravata, sono arrivati i primi segnali di paralisi. Vuole andare via, vuole partire, forse ha bisogno di un ultimo scatto di vitalità, di abbandonarsi al sogno di cercare fortuna all’estero, in una terra che lui vede come provinciale, primitiva, aperta alla colonizzazione del suo ingegno. Nell’aprile del 1864 parte per il Belgio, e il 24 arriva a Bruxelles, all’Hotel du Grand Miroir. Il primo impatto è positivo, è in una città sconosciuta, da esplorare, dove "tutto è bello ed eccitante". Vuole tenere delle conferenze, che sogna affollatissime e trionfali, vuole contattare l’editore di Victor Hugo, lo scrittore che adora, perché è democratico, è progressista, e che odia, perché ha successo, è desiderato e vezzeggiato. Inizia con le conferenze, ma si rivelano subito un disastro. La colpa è anche sua, perché a quella su Delacroix arriva gente, ma Baudelaire, che è un pessimo oratore, si abbandona a imbarazzanti giochi di parole sulla perdita della sua verginità come oratore e fa scappare il pubblico femminile. A quella su Gautier, scrive Giuseppe Montesano nell’introduzione all’edizione italiana (Oscar classici Mondadori), "con il foglio attaccato al viso e una voce stridula celebra una messa letteraria sulla defunta poesia, ma legge senza rivolgersi a nessuno, sprezzante e lontano". Con le conferenze voleva guadagnare un po’ di franchi ma i 500 preventivati si riducono a 100. Ben presto intorno a lui si fa il vuoto. E, cosa per lui particolarmente insopportabile, un’offesa ignobile per il dandy quando si mette in tiro, e tira fuori i suoi addobbi migliori, nessuno lo nota: "Per quanto avesse un vestito e un soprabito chiari, con degli anelli su dei guanti ametista, passava inosservato". Il dandy sputa tutto il suo disprezzo sui Belgi, che "hanno sempre l’aria malvestita, per quanto si applichino molto a essere benvestiti". Con questo popolo ignobile e tarato non c’è speranza, perché "la natura più brillante qui si spegnerebbe nell’indifferenza universale". Il rancore furioso, ma di una furia gelida, dissanguante, dà origine a una fisiognomica atroce, dove tutto dei Belgi, l’aspetto fisico, le abitudini, il modo di camminare e di ridere, è ripugnante: "Il volto belga o piuttosto brussellese, oscuro, informe, smorto o vinoso, costruzione bizzarra delle mascelle, stupidità minacciosa"; "il modo di camminare dei Belgi, folle e pesante. Camminano guardando all’indietro, e si urtano senza sosta... un Belga non cammina, ruzzola"; "la fisionomia umana è pesante, impastata. Teste di grossi conigli gialli, ciglia gialle. Aria da montoni che sognano". Non risparmia nessuno, neanche i bambini: "bruttezza spaventosa dei bambini. Pidocchiosi, unti, col moccio, ignobili. Bruttezza e sporcizia. Anche puliti, sarebbero ancora orribili"; le donne belghe gli fanno orrore: "nella donna nessuna civetteria, nessuna resistenza, nessun pudore. Tutte bionde, scialbe, con occhi di pecora blu o grigi, a fior di testa"; "in una stradina sei dame belghe che pisciano sbarrano il passaggio, alcune in piedi, altre accovacciate, tutte vestite da gran sera". Il paesaggio è da incubo: "natura del terreno nei dintorni di Bruxelles, fangoso o sabbioso, che impedisce qualsiasi passeggiata... la vita animale poco abbondante. Niente insetti, niente uccelli. Anche l’animale fugge da queste contrade maledette". Arriva a invocare l’invasione, la deportazione: "impadronirci del suolo, degli edifici e delle ricchezze, e deportare tutti gli abitanti. Impossibile adoperarli come schiavi. Sono troppo stupidi". Si spinge oltre, desidera il Colera, la strage: "quanto si fa attendere, l’orribile beneamato, questo Attila imparziale, questo flagello divino che non sceglie le sue vittime! E come finalmente godrò contemplando la smorfia di agonia di questo orribile popolo... io godrò, dico, dei terrori e delle torture della razza dai capelli gialli".
La Capitale delle Scimmie è un libro che gronda odio, pazzia. E’ il suo ultimo testo, una sorta di testamento maligno, rimasto incompiuto. Sono tutti frammenti, bozze e riscritture, interessanti da analizzare come flusso in fieri di scrittura impregnata di sentimenti negativi, e da ascoltare, perché echeggia di sonorità cupe comuni a tutti noi; noi che non riusciamo ad amare, a rispettare il prossimo, ad aiutare, a capire e perdonare. E forse questa scrittura che si avvita su se stessa, e si nutre della propria ansia di vendetta, proprio perché parla ai territori nascosti e protetti del nostro cuore nero, trova la sua forma di riscatto, e, chissà, di immortalità.

mercoledì, gennaio 04, 2006


Una pura prosa beat

Mentirei se dicessi che Visioni di Cody, recentemente ripubblicato dall’Arcana, è un libro facile. Non è un libro facile. Non si legge così, en passant, un po’ distrattamente. Risulterebbe una sorta di rompicapo, perché non è uno stile che segue le scritture moderne, quelle cui ci hanno abituato i giornali, la televisione, gli sms, gli spot. E’ una scrittura dura, anche se meravigliosa, è una scrittura che se ne frega del lettore, dell’editore, del critico, è scrittura per la scrittura; è quello stile che faceva "strippare" violentemente Tondelli e lo portava a scrivere come lui, come Kerouac.
Questo libro fu pubblicato postumo, nel 1972 (la prima edizione italiana, sempre di Arcana, è del 1974) e scritto "dall’ottobre 1951 al maggio 1952, incominciando a Long Island e continuando nell’attico di Cassady, a S. Francisco", racconta l’autore. E proprio a Neal Cassady, che qui si chiama Cody Pomeray, è dedicato questo testo lungo, compatto, redatto nella più fantastica prosa beat che forse Kerouac abbia mai prodotto (da più lettori è considerato il suo libro più importante, ma è questione di opinioni). Il corpo centrale è la trascrizione di conversazioni registrate tra l’autore, che qui si chiama Jack Duluoz, e Cody, dove viene restituito un parlato americano a tratti assurdo, dolente. Poi è pieno di descrizioni dell’America di quegli anni, immagini desolate, metropolitane, nitide o sfocate, a colori sgargianti o sporchi, in bianco e nero, o grigie, o in totale assenza di colore, o abbaglianti. In alcune pagine ricorda Céline, con la linea intercalante al posto dei tre puntini; forse può ricordare persino Proust, oltreché il flusso del sax di Charlie Parker, come sognava Kerouac; di Proust c’è certamente il periodo lunghissimo, interminabile, anche se il ritmo a mio avviso è affatto diverso: l’affanno respiratorio non si traduce tanto in asfissia, ma piuttosto in una iperventilazione frenetica, allucinata. Comunque ho pensato di riportare un passo, un esempio di periodo lungo, uno dei tanti, trovato a caso, aprendo il libro qua e là:

"Mi piaceva la sera? C’è bisogno di domandarlo? Dormivo sulla veranda, sul dondolo, con delle coperte addosso e le fronde del grand’albero stormivano e i rami cricchiavano per me; e il lamento del vento era dolce, l’aria piena di grilli, bisbigli selvatici – o anche le voci di qualche coppietta – nel sentiero tra gli orti – o in un’auto parcheggiata, cigolio delle molle del sedile posteriore – sotto un pino – e la rugiada; il vento attraversava tutto questo, arrivava da di là di queste voci e le portava fino a me – era carico di notizie sulle remote foreste – foschi boschi – luoghi dove contadini come Robert Frost sbattevano la porta di granai nella prima mattina, producendo un rumore che echeggiava attraverso due o tre poderi, e altri boschi, e altri fiumi, ruscelli anzi, torrentelli con piccole cascate – che però di marzo eran capaci di ingrossarsi e straripare e travolgere, atterrire le foreste – e magari t’aspettavi di vedere cadaveri portati dalla corrente, andar a cozzare là dove d’estate c’era il trampolino; e io ho sognato invero, in realtà, di queste foreste – e grandi viaggi simbolici – profondi come l’odissea di un ferroviere, ma... era a Cody che arrivavo, allora, ma come riferimento, e forse riempitivo; l’Africa non era più estesa di certi macchioni, nella contrada di Pine Brook, percorsi in sogno; e veniva così il dolce vento notturno da quei corsi d’acqua, da quei campi, muschiato, ingigantito, dal grand’albero che si scagliava e soffriva, martire, albero brontolone – e non è che ne fui sorpreso quando fu abbattuto da un furioso uragano nel 1938 – si schiantò come uno stecco – nell’ottobre del 1938 – stesso anno e stesso mese – quasi stessa settimana – in cui morì Thomas Wolfe".

Nella foto: la copertina dell’edizione italiana del 1974.