giovedì, dicembre 29, 2005

Rassegna stampa

Per ingannare l’attesa nell’anticamera di un dentista sfoglio alcune riviste di gossip-hard, le mie preferite: Novella 2000, Eva Tremila, Visto (che però è troppo infarcito di cronaca nera e interviste strappalacrime), Oggi (la meno trash di tutte, anzi, ci sono pure dei servizi interessanti). Riporto alcune notiziole amene: all’aeroporto di Parigi Annie Lennox viene abbordata da un fan che le chiede l’autografo. E’ l’attore Orlando Bloom, ma lei non lo riconosce, sbotta: "la prego, mi lasci in pace, viva la sua vita" e passa oltre. Però la guardia del corpo, che l’ha riconosciuto, la informa che quello è Legolas del Signore degli anelli, così la Lennox torna sui suoi passi, lo raggiunge e, mortificata, si spertica di scuse. Giusta chiosa dell’articolo: "non tutti i fans sono uguali…"
Poi c’è la contessa-splatter Patrizia de Blank che dichiara: "la beneficenza è giusto farla, ma senza che nessuno lo sappia. Questo mi è stato insegnato da mia madre ed è quello che ho trasmesso a mia figlia". Però subito dopo racconta che mentre era per strada ha visto un poveraccio con un cane che chiedeva l’elemosina. Incuriosita dalla sua faccia è andata a intervistarlo e lui le ha detto che un tempo era un ingegnere che aveva perso tutto, lavoro, casa e moglie; allora la contessa si è impietosita oltre ogni limite, l’ha invitato al ristorante e gli ha offerto un pranzo. Ma non aveva trasmesso alla figlia che la beneficenza va fatta senza dirlo a nessuno?
E infine il cult assoluto, le ultime notizie sulla castellana Anna Falchi, che parla del suo maritino Ricucci nell'occhio del ciclone (ma passerà, come sempre qua da noi, possono stare tranquilli e godersi il malloppo). Dice che lui è come Peter Pan, un bambino "vulcanico" che non cresce mai, che è ingenuo, e ricchissimo di fantasia (sarà per ingenuità o per fantasia che ha venduto al furbetto Billè un palazzo al costo di 39 milioni quando le stime lo davano a dieci?); poi dice che sarà sempre al suo fianco "per combattere la crudeltà di un sistema" e che in Italia non c’è gusto ad avere successo, perché ti danno tutti contro, mentre in America "ti dicono bravo" (a me risulta che in America nella finanza se fai troppo il furbetto di schiaffano in galera per anni, qua in Italia depenalizzano i reati); poi dice che le accuse di essere una donna fredda e calcolatrice sono tutte false, perché lei è passionale, e sincera; però le scappa una frase un po’ compromettente, dice "non ho più l’ansia del mantenimento che avevo agli inizi: sono sistemata e sposata". Capito la castellana? Ah, dimenticavo: dice che non andranno a vivere nella villa romana che ha comprato Stefano, perché "che facciamo in 3.500 mq? Ci rincorriamo?" Chissà se Stefano l’ha comprata per ingenuità o eccesso di fantasia…

sabato, dicembre 24, 2005

L’ultimo viaggio di Tiziano Terzani

Quando ho iniziato a leggere Ultimo giro di giostra, un paio di mesi fa, qualcosa mi disturbava. Ero reduce della lettura di Buonanotte signor Lenin, dove un eccesso di anticomunismo perdeva il suo pathos di sentimento antisovietico, antiregime, per confondersi con un sentimento viscerale di individualismo borghese con tinte di rimpianto per la perduta eleganza zarista ecc. Era il limite di quel libro, che pure mi aveva appassionato e dove il talento del grande giornalista emergeva fiero e potente. In questo libro mi sembrava che un eccesso di scetticismo rappresentasse di nuovo un limite che distraeva, scollegava la lettura.
Credo che la storia sia nota: a Tiziano Terzani fu diagnosticato un cancro: “Signor Terzani, lei ha il cancro”. All’inizio non si disperò, né si commosse, come se la cosa non lo riguardasse. Ma la notte porta consiglio, e così, come un animale ferito che si risveglia, iniziò a elaborare una strategia di difesa. Decise di rivolgersi al più prestigioso ospedale del mondo, il Memorial Sloan-Kettering Cancer Centre (MSKCC). Lui, che era vissuto trent’anni in oriente, e conosceva bene le discipline filosofiche e mediche, decise di partire con la medicina occidentale pura, la medicina empirica fatta di farmaci e terapie pesanti, chemioterapia, radioterapia, antibiotici.
E qui inizia la grande avventura. Dopo una terapia massacrante, e la chirurgia, gravemente provato, prostrato, senza rimorsi, ma neanche dubbi sui limiti di una medicina invasiva e parziale, che aggredisce “la malattia” quasi senza occuparsi del malato, decide di intraprendere un lungo viaggio attraverso le pratiche mediche del mondo orientale, alla ricerca della “cura delle cure”. Ma esiste? La curiosità sempre vigile del grande reporter, il suo straordinario talento narrativo, la sua abilità di ritrattista lo portano ad avventurarsi nello sterminato, caotico mondo da baraccone della new age, delle pratiche alternative e pseudomistiche che tanto spazio stanno guadagnando in un mondo che si rinchiude ogni giorno di più nella brutalità del materialismo. E quanti santoni, quanti guaritori, quanti esperti che propongono cure, rimedi infallibili, medicine antiche e naturali che vengono da chissà dove, sempre miracolose, sempre uniche, incontra sul suo cammino. Eccolo a New York a frequentare un corso di qi gong; eccolo in Thailandia in un centro dove “lavano” il colon con continui clisteri che “depurano”; eccolo impegnato con l’omeopatia, con l’ayur veda, con lo yoga, con la medicina tibetana, con gli “psicochirughi” filippini. E lentamente, mentre lo seguivo nel suo cammino accidentato, quella sorta di scetticismo che, talvolta con ferocia, smascherava il santone di turno, mutava forma: assumeva le forme di una lucidità estrema che lo portava a riflettere in profondità sulla natura stessa della malattia, sul rapporto tra la malattia e se stessi. Riflette sulla sua lunga vita di viaggiatore, e cerca di stilare un bilancio, seppure parziale: “la ragione di tutto quel muovermi, di quell’andare continuamente fuori in cerca di qualcosa era semplice: io non avevo niente dentro di me. Ero vuoto”. Il niente. Il vuoto. Questa consapevolezza lo porta a scavare dentro le pratiche mediche, dentro le filosofie, e studia, chiede, indaga, ride, ma con rinnovata umiltà, cercando di combattere il suo scetticismo un po’ arrogante di europeo per scoprire in tutte le scuole, in tutti i corsi, nei medici naturisti o mistici, ognuno con le sue ricette, le sue certezze, qualcosa di buono. Perché in tutto, ovunque, e in tutti, c’è il buono e il cattivo, il bene e il male, dipende da noi scegliere, capire, osservare senza paure e senza preconcetti. Eccolo quindi il vero, interminabile viaggio: è dentro noi stessi, è la ricerca della propria essenza vitale, dell’equilibrio della vita e della morte.
Superata la prima, superficiale sensazione di fastidio per uno scetticismo che non era scetticismo, ma curiosità e disincanto, ho quindi rallentato la lettura perché non volevo terminare questo libro. E’ stato un grande, prezioso compagno, e una guida. E’ stato un libro avventuroso, emozionante, divertente e avvincente, e anche istruttivo, perché contiene un compendio semplice ma abbastanza dettagliato di filosofie orientali, una storia della spiritualità e della ricerca filosofica. Non è un libro teorico o teosofico, non è noioso, mai, né pedante, è anzi veloce, profondo. E’ un libro perfetto, penso di poterlo affermare con tranquillità. E Tiziano Terzani, che ci guida in questa avventura fino agli ultimi giorni sull’Himalaya, quando il suo tempo sta ormai finendo, è un maestro, forse l’unico grande sadhu mai vissuto in Italia; è anche un amico sincero, un amico spiritoso, arguto, disponibile, che sa farci ridere, che ci racconta storie meravigliose, che traccia ritratti irresistibili di tipi strani, e ci aiuta a capire.
Ed è con lui, e con questo suo ultimo lavoro, che auguro Buon Natale a tutti, con un pensiero particolare alle persone sole, a chi, in questi giorni di frenesia, non ha con chi organizzare il cenone, con chi scambiarsi i regali. Per loro riporto questo passo della Bhagavad Gita: "l'uomo saldo, che sopporta con animo uguale dolore e piacere, è un saggio pronto per l'immortalità".

giovedì, dicembre 22, 2005

Vecchi tempi?

Se qualcuno pensa che su questo sito serpeggi troppa indignazione per la politica, legga Tribù S.P.A. di Gian Antonio Stella (Feltrinelli) e sentirà questo sentimento, misto a incredulità, esplodere con impatto travolgente. Io, per esempio, dovrei leggerlo molto lentamente, a microdosi, per non soccombere.
Stella è una delle firme del Corriere della sera, e fa parte di un ridottissimo drappello di giornalisti che, nell’epoca del regime e della censura berlusconiana, non ha smesso di spargere vetriolo sulle facce patibolari dei politici vincenti, dei voltagabbana, dei portavoce, insomma la "classe dirigente" che si è insediata al potere e se lo gode in assoluta libertà. Questo libro uscì dopo le elezioni, ed è stato ripubblicato con aggiornamenti sui nuovi rampanti entrati nei salotti buoni della Destra, a riempire i vuoti dei "caduti" durante l’esercizio della trama e della razzia. E’ una stupefacente, impressionante carrellata di ritratti dei componenti della variegata banda di furfanti festaioli che ha occupato non un’azienda, non una banca per raderla al suolo, spolparla e gettarla via, ma una intera nazione. Non si riesce a credere che ciò sia potuto avvenire in un paese europeo, e che questo fenomeno non solo sia durato anni, ma possa addirittura rinnovarsi. Le maschere tragiche e comiche di questo teatro della follia scorrono tra ghigni sinistri, sberleffi, feste mondane, dichiarazioni surreali, e non manca nessuno, c’è persino Iva Zanicchi, e un imperdibile cameo della "coscialunga da combattimento" Gabriella Carlucci che arriva in porsche, va a sbattere contro un jumbo-bus, tira dritto senza una piega, la schiaffa sul marciapiede nei pressi di Montecitorio e la molla lì. E la macchina? "Ci devono pensare i commessi di Montecitorio, sono affari loro". Il problema, l’incubo, è che invece sono affari nostri.

mercoledì, dicembre 21, 2005

Nuovi volti

Il vekkio D’Alema ci ha una barchèèètta che è costata quasi 900.000 euro. Poi abitava (ci abita ancora?) uno sfarzoso appartamento naturalmente di proprietà pubblica di cui pagava due lire due di affitto. Eh, sono i fasti romani. Ovviamente il vekkio d’Alema, essendo uno "di sinistra" è sensibile alle tematiche sulla fame nel mondo, i bambini, eccetera. E lavora per gli interessi del paese. Qualcuno ne dubita?

martedì, dicembre 20, 2005

Meglio stare in guardia

Quando ascolto l’ultimo pezzo di Shakira, con quella voce che Garcia Marquez ha definito “unica”, entro in uno stato di buon umore e riesco a scacciare lo scoramento che invece mi assale quando, alla radio, mi prende di sorpresa un cantautore raccapricciante come Biagio Antonacci.

giovedì, dicembre 15, 2005

Un traguardo lontano?

Una cara amica mi ha inviato questa mail: “sai, ci sono già tanti che ci parlano di loro, i politici, tanti che si lamentano e ci ricordano lo schifo che è diventato il nostro paese. Tu sei così bravo quando ti abbandoni alla scrittura fatta per il piacere di scrivere. Continua a donarci i tuoi diari, le tue storie, penso che ci sia più bisogno di questo nei Blog”. Anche Sergio Pasquandrea, in un commento a uno dei primi post del Blog appena aperto, scriveva (cito a memoria): “perché stupirsi tanto per le malefatte di Berlusconi? Lui sta dove c’è da mangiare, così è”. Hanno ragione. Mentre mi lancio nelle mie filippiche impregnate di rabbia fredda sento che hanno ragione. E’ inutile, se non dannoso, per me stesso, evocare tanta collera e tanta indignazione. E forse risulta pure noioso per i lettori. Il fatto è che non riesco a restare indifferente, o distaccato, dal fatto che una banda di delinquenti comuni, di truffatori, ha preso il potere in questo paese. E trovo altrettanto atroce la previsione che quando, come dicono i Soloni, la Sinistra vincerà, non cambierà nulla, oppure molto, molto poco. Forse muterà la forma, e si faranno meno leggi ad personam per ammorbidire i processi, ma la sostanza non cambierà. Anzi, esiste il fondato sospetto che per noi, la cosiddetta classe lavoratrice, la situazione peggiorerà. La Sinistra vorrà “rilanciare l’economia”, cioè dare impulso al sistema fondato sul consumo esasperato di beni inutili per sostenere la produzione, e le procedure sono sempre le stesse: sacrifici, “lacrime e sangue” per tirare fuori i soldi dalle nostre tasche per trasferirle in quelle sfondate dei “peggiori capitalisti d’Europa”. Tagli, tasse, per “lo sviluppo”. E grandi opere, Tav, autostrade, nuovi scempi ambientali (basta sentire parlare l’ex ministro dell’industria pesante e padre di Samuele Bersani, che è una superstar televisiva, per rabbrividire). Perché chi comanda veramente non è il governo, di destra o di sinistra, ma il Sistema, il Capitalismo straccione e rapace, e i governanti sono i loro zerbini. Talvolta il mostro manda al potere dei criminali, dei ladri, come quelli di adesso, poi non gli fanno più comodo, perché esagerano e si bruciano, e allora vanno su quelli “seri”, quelli tosti, poi si torna indietro e così via.
Bene, questa è la parte razionale.
Ma c’è un’altra parte di me, di cui sono consapevole solo in parte, che mi spinge a scagliarmi contro i demoni. E’ un rancore che mi porto dentro, un rancore antico, che viene da molto lontano, e mi scorre nel sangue come un veleno. Lo scarico su di loro, sui ladroni gaudenti e tracotanti, perché evocano la tracotanza di un potere ipocrita e aggressivo che forse era quello del Sistema di quando ero ragazzo, o della scuola, o della mia famiglia, o tutte queste cose insieme. Questo demone viene su dal profondo, e non sono mai riuscito a scacciarlo. Mi rigurgita nel cuore, nella mente e nelle viscere. Quando vedo i brutti ceffi che ridono in Tv mi aggredisce e mi fa salire la collera e istinti persino omicidi. E’ sbagliato, e ne sono consapevole. So che l’unica soluzione sarebbe una maggiore tranquillità, una forma di distacco. Perché, come dice Il Vecchio compagno di eremitaggio di Tiziano Terzani sull’Himalaya “questa civiltà non è degna di essere salvata, è impegnata solo a perseguire il piacere dei sensi ed è alla vigilia di una grande nevrosi”. Tuttavia, come insegna la Bhagavad Gita, essere saggi non significa non agire, ma agire con moderazione, inseguendo un maggiore e più sereno distacco dalle cose e dagli affari degli uomini. Quindi essere distaccati dal Sistema non significa ignorarlo, ma combatterlo. Come? Per prima cosa bisogna combattere il Sistema che è in noi. E’ il nostro esserne vittima, il sottostare alle sue leggi, consumare beni inutili, chiudersi in difesa di se stessi, diventare indifferenti, ostili e spaventati, perdere del tutto la fiducia, illudersi di inseguire una vita comoda chiusi nelle nostre case superaccessoriate con computers, home theatre eccetera. Illudersi quindi di prenderci il nostro tempo per noi stessi, mentre è il mostro che se lo mangia, è Maya, l’apparenza, che ci domina. Come dice il Swami nell’ashram indiano dove Tiziano Terzani frequenta un lungo apprendistato sui Veda, viene un momento che non ha più senso dedicare il nostro tempo solo a noi stessi, cioè a Maya, ma bisogna donarlo. Dedicarlo agli altri, per ascoltare, imparare e insegnare, aiutare, accogliere, senza chiudersi in continui giudizi perentori. Questi sono i primi passi per combattere il Sistema, partendo da noi, dal nostro animo. Non sono solo riflessioni filosofiche orientali o buddiste, era l’Uomo Nuovo di Gramsci, era il mito giovanile di liberazione degli anni Sessanta, era il sogno, l’utopia.
Sembra facile, sembra una banalità, ma è forse l’obiettivo della vita.

venerdì, dicembre 09, 2005

Grandi personaggi per un grande libro

In un post che ho passato sul Blog qualche tempo fa ho citato un mitico testo degli anni Settanta, la biografia di Bob Dylan di Anthony Scaduto. Mentre ne scrivevo sono stato assalito da una valanga di ricordi. Non sul testo in sé, che ricordavo per sommi capi, ma ricordi di lettura. E’ stato, posso dirlo, uno dei libri più importanti della mia vita. E non solo della mia. Quel libro entrò nell’esistenza di noi ragazzi che vivevamo in un piccolo paese della pianura romagnola, e sconvolse il nostro fragile equilibrio. O meglio, accentuò lo squilibrio che già complicava le nostre vite irrequiete schiacciate in un territorio piatto e desolato, un mondo immobile e vuoto che ci opprimeva coi suoi ritmi sempre uguali. Così ho ripreso in mano quel volume un po’ ingiallito, pubblicato nel 1972 da Arcana per £ 2.200, e ripubblicato, tra l’altro, nel 2003 dallo stesso editore. E di nuovo, rileggendo qua e là, sono stato travolto da emozioni che credevo sepolte per sempre. Ho rivisto un cortiletto di cemento, una casa bassa, ho udito dei suoni, forse ho sentito degli odori. Ed emozioni tristi, come una malinconia mai risolta che tornava a serpeggiarmi sotto la pelle.
Eravamo in tre ad essere particolarmente coinvolti dalle nuove tendenze, dalle nuove speranze di libertà che, sotto la spinta del decennio precedente, non si erano ancora riconvertite in quella delusione rabbiosa che avrebbe condotto tanti noi verso strade di contestazione violenta, o di strisciante autodistruzione. Adoravamo Bob Dylan, e in questo libro leggevamo del suo paese natale, una cittadina del Minnesota dove tutto era già stabilito, dove i figli si apprestavano a continuare i mestieri dei padri, e “gli altri”, i giovani coi capelli lunghi, i giovani che volevano vivere, erano “i matti”, quelli delle città, i “finocchi”. Era il nostro paese, il nostro cimitero, e quel ragazzo che voleva cantare come Little Richard, che non stava mai fermo, che se ne fregava dell’opinione pubblica, era uno di noi. E quel suo muoversi frenetico, quell’inseguire a testa bassa un obiettivo a tutti i costi, la sua musica, era la rappresentazione del nostro desiderio, del nostro sogno di una vita diversa, fuori dal cimitero. Lui era noi, e faceva quello che noi avremmo voluto fare; che tentavamo di fare, coi nostri poveri mezzi.
Il vekkio Loris era affascinato soprattutto dal talento mimetico di Dylan, da quel suo nascondersi, dal mutare continuamente identità in un gioco di trasformismo che rivelava la volontà di rendersi invisibile in un mondo che ti teneva sempre gli occhi puntati addosso. Ne parlava di continuo, si identificava con quella giovane, guizzante anguilla che cambiava di continuo amici, senza esserlo davvero di nessuno, né dei ragazzi “perbene” né dei “greasers” motociclisti di cui sembrava fare parte. In realtà Dylan era tutti e nessuno, perché lui era la sua musica, la sua voglia di scrivere, di farsi strada, senza curarsi minimamente dei gusti del pubblico che lo fischiava quando si contorceva come un ossesso al pianoforte.
A Riccardo, e a me, piaceva il ritmo, quel suo essere una sorta di Dean Moriatry-grande artista, uno che si buttava nella vita come un guerriero, incurante dei rischi e dei nemici. Uno che abbatteva le barriere, che guardava in faccia l’infinito. Riccardo abitava in una casetta sulla statale n. 16, la route Adriatica, una vera strada americana, una freeway che correva lungo la costa e puntava verso terre lontane. Andavo a casa sua e lo trovavo spesso seduto per terra nel cortiletto di cemento che circondava la sua casetta, un angolo tranquillo e inondato dal sole del pomeriggio. Non era molto alto Riccardo; era uno forte, parlava a voce bassa, aveva modi tranquilli, sembrava un tipo posato. Oggi direi che assomigliava a Baricco, stesso personaggio piacente, accattivante, uno che ti stimola le confidenze, uno che lo cercheresti spesso perché con lui sei a tuo agio sempre, perché non è aggressivo, non ti fa sentire sotto esame, non ti giudica. Commentavamo l’ultimo capitolo del libro, e io dicevo: “la sua vita e la sua forza fanno sembrare così vuota, così inutile la nostra vita”. Lui rideva sotto i baffi, annuiva. Poi usciva sua madre, una donna svelta, sempre attiva, gli diceva delle cose e lui si innervosiva. Una volta gli mostrò una camicia appena comprata e lui digrignò i denti, urlò a freddo, con voce strozzata: “non la voglio!” La madre ci rimase malissimo, soppesò la camicia con mani incerte, rientrò in casa sconsolata. E quando io gli chiesi perché aveva reagito in quel modo, lui strinse i pugni, incassò la testa nelle spalle e di nuovo gridò a freddo, a denti stretti: “non le voglio le sue camicie!”
Passò il tempo, passarono gli anni, e Riccardo partì. Era approdato in America, dicevano. Ogni tanto gli pensavo, laggiù nelle metropoli dylaniane, mentre io, mentre noi al paese cercavamo di sbarcare il lunario fondando una fanzine, poi una radio. Lo rividi alla fine degli anni Settanta, in uno zuccherificio dove lavoravamo l’estate. Era in gran forma, calmo, tranquillo, magnetico. Gli chiesi di raccontarmi un po’ della sua vita, dove abitava? A New York, disse. New York, il Greenwich Village, dove Bob Dylan scopriva il mondo, e lo conquistava! Viveva, disse, in casa della fidanzata, l’ultima di una lunga serie. Era proprio vero, già prima di partire cambiava continuamente ragazza. Allora gli chiesi come mai passava così facilmente da una ragazza all’altra, in Italia come in America. “Non lo so mica” disse, “loro mi invitano fuori, usciamo, poi andiamo a casa e non faccio in tempo a chiudere la porta che già mi slacciano i pantaloni”. Non lo disse per vantarsi, ma con aria pensierosa, come se questo fenomeno lo stupisse, o addirittura lo inquietasse. Io lo guardavo, lo ascoltavo, e vedevo in lui una somiglianza con Bob Dylan, forse non sul piano fisico, perché era più robusto, più rotondetto (come Baricco), ma per quella sorta di disinteresse verso il mondo e le sue convenzioni, quel suo vivere la vita come una ininterrotta avventura di cui, in fondo, non si curava.
Passò altro tempo, altri anni, io lasciai il paese mentre il vekkio Loris vi si stabiliva solidamente, forse perché era già un giovane, ma esperto rishi, un saggio che sapeva che non ha senso cercare, perché non c’è nulla da trovare nel samsara, il mondo dell’apparenza e del divenire, che non sia in noi stessi. Nei primi anni Novanta, quando vivevo part time a Bologna, mi arrivò, inaspettata, una notizia. Nel centro di psicologia olistica dove lavorava, e lavora tutt’ora, mia moglie, era arrivato “uno delle mie parti” per seguire un corso di massaggio rilassante. Oh, dissi, e come si chiamava? “Riccardo” disse mia moglie. Ci rimasi. Riccardo come? Mi disse il cognome, ed ebbi un tuffo al cuore. Era lui! Dissi che volevo vederlo, perché era un mio vecchio, caro amico. Lei disse che quella sera avrebbe finito alle otto, ma che “non era tanto a posto”. In che senso? chiesi, allarmato. “E’ stato piantato dalla ragazza, ed è entrato in una sorta di crisi depressiva. Lo vedrai”.
Alla sera andai al centro, e lo aspettai. Eccolo, usciva un po’ spaesato dal portone su Via Farini, si guardava intorno con aria incerta. Lo salutai. Mi guardò, e capii perché “non era tanto a posto”: il suo aspetto era trascurato, gli abiti sgualciti, e anche sporchi. I capelli erano scarmigliati, e poi era alquanto ingrassato. I suoi modi calmi erano ora dimessi, e quella tensione smasmodica che faceva capolino quando la madre gli comprava le camicie traspariva dalle mani scosse da un lieve ma persistente tremore, e da un tono di voce teso, forse ansioso. Non gli chiesi subito cosa gli era capitato, e cosa provava, perché sapevo che, in quello stato, non mi avrebbe risposto. Era accaduto varie volte con altri amici che avevano “strippato” malamente: non erano in grado di raccontare le loro disavventure, fuggivano, o si chiudevano in un silenzio ostile. Gli restai vicino, mangiammo qualcosa insieme, poi riuscii a fargli dire che aveva lasciato l’America ed era andato a vivere con questa ragazza di Ravenna, conosciuta a New York, che l’aveva abbandonato. Le pensava sempre, disse, in ogni momento della giornata e anche della notte, perché non dormiva mai, neanche un minuto. Poi si perse nel vuoto, non parlò più, non rispose alle domande, si chiuse in quel silenzio cupo che conoscevo bene. Lo accompagnai a una vecchia macchina parcheggiata in Via S. Mamolo e lo vidi partire bruscamente nella notte. Dove andava? A Ravenna? Al paese, nella casetta col cortiletto dove parlavamo di Bob Dylan? Non l’ho mai saputo. Non l’ho più rivisto. Mia moglie disse che il corso di massaggio rilassante era finito e lui non aveva rinnovato l’iscrizione.
Dunque l’avventura dylaniana era finita per sempre? Tutto era perduto? Pensai al senso di sconfitta che aleggiava su di noi fin dalla nascita, e ci ha accompagnato per tutta la vita. Noi eravamo una generazione nata all’insegna di una promessa non mantenuta, cresciuta in un tempo ambiguo, indefinito, e siamo vissuti con quel senso di perdita, come sospesi sull’orlo di un precipizio, sognando di agguantare la vita, e di viverla come la viveva Bob Dylan.
Così, come Jack Duluoz pensava di continuo a Cody Pomeray, e lo vedeva come un fantasma-bodysattva energico nella sua vita che rotolava giù per le Strade della Desolazione, io, quando vedo il libro di Anthony Scaduto, e lo vedo ogni sera perché è sul comodino, penso al mio antico amico Riccardo.

mercoledì, dicembre 07, 2005

Animacce nere

I caporioni di An sono delle vere e proprie superstar televisive. Hanno elaborato degli efficacissimi codici di comportamento e di linguaggio, coi quali vendono la propria immagine di politici seri, attendibili, di statisti con gli attributi, di uomini di rispetto. Anche la voce è stata modulata con attenzione, sembra sgorgare da un torace fiero e profondo, la vera voce di un uomo di governo che ha a cuore l’interesse pubblico e non si abbassa alla cura del proprio orticello. Però ogni tanto qualche imprevisto fa emergere la vera anima, quella nera, quella del "me ne frego", e c’è da restare allibiti.
E’ accaduto ieri sera a Ballarò col cosiddetto onorevole Alemanno, uno dei "colonnelli". L’argomento era la legge 194, e la "commissione d’inchiesta" varata dal Parlamento. Rosy Bindi, che interveniva col consueto fervore alla discussione, ha sciorinato una serie di dati che dimostravano come questa commissione sia totalmente inutile, poiché in Italia la situazione degli aborti è ultramonitorata, e l’informazione, nel nostro paese, è una delle più complete del mondo. E’ una commissione che ha come unico scopo quello di lavorare sotterraneamente sulla 194, in vista delle elezioni. Ha anche detto che lei, cattolica e antiabortista, ha svolto il suo compito di Ministro della Sanità cercando di applicare la legge con la massima correttezza, perché è una legge dello Stato e come tale va considerata, indipendentemente dalle opinioni personali. A questo punto il cosiddetto onorevole Alemanno ha detto che ha ascoltato "con rispetto" le parole della Bindi, e che la capisce, capisce cioè la difficoltà di una persona che si è trovata a operare in un ambiente con idee opposte alle sue. Allora la Bindi è diventata rossa come un peperone, e ha detto, col solito fervore, che Alemanno dovrebbe farsi i cavoli suoi, pensare alle sue difficoltà col caporione n. 1, e non interessarsi a lei. E ha aggiunto: "guarda, Alemanno, tu non mi fai paura!". E il cosiddetto onorevole, forse per questa frase, ha perso le staffe. Ha iniziato a gridare con voce stridula finché gli è venuta una bava alla bocca abbastanza impressionante (e la regia ha distolto le immagini dalla sua faccia); non solo, agitava il braccio destro, lo "stendeva" davanti a sé in un inequivocabile, inconscio saluto romano. Mi sono venute in mente le foto pubblicate dall’Espresso dove il cosiddetto onorevole, in giovane età, arringava i camerati che salutavano col braccio teso. Ha quindi ritrovato la sua "giovinezza", la sua vecchia, genuina anima nera, così prudentemente sepolta sotto la cenere del politico televisivo occidentale autorevole cristiano di razza bianca.

venerdì, dicembre 02, 2005

Regali di Natale

Con l’avvicinarsi delle feste arrivano i gadget, gli oggetti da regalo, e i libri illustrati, da impacchettare e da mettere sotto l’albero. In questi giorni ne ho notato due che meritano di essere segnalati anche se, forse, non sono proprio indicati come regalo per la mamma, o per la zia. Sono due libri fotografici, scritti in italiano, finalmente, perché fino a ieri sembrava inevitabile che queste edizioni fossero scritte sempre in inglese, o in tedesco.
Il primo è una raccolta di foto del vekkio voyeur Helmut Newton (Mondadori, € 35), scattate durante un ventennio di collaborazioni con Playboy. Su Newton sono stati scritti fiumi in piena di parole e stampate migliaia di pagine. E’ stato, e lo è ancora, il tormentone della fotografia glamour-erotica per una trentina d’anni. Ha fatto ammalare la fotografia di una sindrome da cui non è mai guarita, la sindrome di Newton, i cui sintomi sono i ritratti di donne con richiami dichiarati alla pornografia, pose innaturali, estreme, provocatorie, anche se è una provocazione rivolta espressamente alle “pruderie” borghesi, una sfida fine a se stessa, gratuita, al pudore popolare: famosi i contrasti, che lui inseguiva con puntiglio, di alcuni servizi realizzati in Costa Azzurra: donne supertruccate, superchic, eroticissime, ritratte accanto a bagnanti vecchi e brutti, con la pancia, le gambe storte, le rughe e la pelata. Lui era così, voleva stupire, eccitare con linguaggi “forti”, peccaminosi. Molte delle foto di questo libro, alcune famosissime, rientrano in pieno in questo stile. Le donne sembrano manichini erotici, con lo sguardo perso nel vuoto, oppure guardano in macchina con aria di sfida, anche se è sempre una sfida fredda, gelida, e la distanza che le separa da noi è enorme. Gli va dato atto che non ha mai fatto della retorica facile, non si è mai nascosto dietro dichiarazioni diplomatiche. Ha sempre detto chiaro che lui era un voyeur, che amava la pornografia, che se ne sbatteva delle critiche, delle accuse di essere un fascista (in immagini, ovviamente), e che andassero tutti a farsi fottere. Era antipatico, per certi aspetti odioso, criticabile, ma sincero, e al confronto gli epigoni di oggi, tutti quei fotografi fatti con lo stampo dei calendari, sono penosi nel loro conformismo.
L’altro libro è di Robert Mapplethorpe (Artificio Skira, € 69), un altro su cui sono stati versati torrenti di inchiostro. La sua storia, credo, è arcinota: diventò famoso negli anni Settanta con servizi-shock realizzati nei locali macho gay di New York, dove il gioco erotico alla moda era il fist fucking , cioè l’introduzione nell’ano di una mano con tutto l’avambraccio. Erano foto pazzesche, incredibili, un pugno nello stomaco. Poi ha realizzato moltissimi ritratti di artisti newyorkesi, compresi alcuni, mitici, di Patti Smith, di Lisa Lyon, di Isabella Rossellini. Questo librone raccoglie un compendio abbastanza esatto della sua produzione: ritratti, i grandi corpi nudi illuminati da quella luce purissima che lui stesso aveva inventato, che utilizzò nelle famose immagini in bianco e nero dei fiori e dei nudi statuari di uomini col sesso enorme, coi muscoli in tensione. Immagini pittoriche, curate in maniera maniacale nelle ombre, nei grigi, nelle sfumature. E caste, pulite, oneste, come quelle di Newton erano false, eccessive e disoneste. Erano due fotografi dagli stili di lavoro e di vita opposti: Newton amava mostrarsi sporcaccione, faceva sedere le modelle sulle sue ginocchia coi pantaloncini corti maliziosamente aperti sull’ombra del pube; in realtà è sempre stato un marito fedele, e ai servizi era sempre presente la moglie, pure lei fotografa. Mapplethorpe invece scattava immagini artistiche, elevate, quasi angeliche; nella vita invece era dissoluto, disperato, e i suoi eccessi l’hanno condotto nella tomba.
A questo punto, dopo quanto ho scritto, alle seguenti domande: Helmut Newton è stato un grande fotografo? risponderei sì, lo è stato, nel bene e nel male, perché le sue foto hanno colpito, hanno sfondato e distrutto, hanno segnato un’epoca e nessuno, forse, può permettersi di non fare i conti lui; e Mapplethorpe è stato un grande fotografo? No. Per quanto bravo, per quanto meticoloso e serio, le sue immagini hanno un limite di conformismo, di mancanza di coraggio, forse di fantasia. Ha inseguito l’obiettivo irraggiungibile, il sogno direi, di fare della fotografia una forma di pittura, mentre è altra cosa, è alto artigianato, è un racconto della realtà che deve fare i conti coi propri limiti, perché non può prescindere dagli elementi materiali della realtà stessa, mentre la pittura ne è esente.
Questo ovviamente è il mio personalissimo, discutibilissimo, parere.