mercoledì, settembre 27, 2006
Uomo di rispetto
Ieri sera a Otto e mezzo, su La 7, c’era come ospite Eugenio Scalfari.
C’era anche Oscar Giannino, un giornalista che sembra sempre molto informato sulle beghe delle banche, le finanziarie, uno che si atteggia a gentiluomo conservatore inizio ‘900, con abiti che richiamano quelle mode, le ghette, il bastone da passeggio, una barba arruffata con cura meticolosa.
L’argomento era, ancora una volta, la Telecom, le intercettazioni illegali ecc. Scalfari ne sa, e ha scritto alcuni articoli torrenziali su La Repubblica, il giornale da lui stesso fondato.
Scalfari non è uomo di sinistra, è un tecnocrate con un passato letterario, e appartiene – è anzi un protagonista – a quella fazione del capitalismo dei grandi gruppi, quelli che hanno ancora una impostazione fordista. Giannino e Ferrara invece – con stili diversi - fanno riferimento alla fazione più liberista, del cosiddetto Antistato. Le due fazioni si combattono duramente, spesso con toni feroci, e si alternano al governo del paese. Però quando parlava Scalfari, lento, con la lentezza dell’anziano, del vecchio, i due ascoltavano e tacevano. Persino Ferrara, che non perde occasione per affondare le zanne nelle carni degli avversari, era garbato e rispettoso. Ho interpretato il loro atteggiamento come un senso di rispetto per un uomo anziano – benché un fiero avversario - che rappresenta un pezzo di storia del giornalismo italiano. Non vi era ipocrisia, né retorica; mi è sembrato rispetto vero. Apprezzabile, per una volta.
martedì, settembre 26, 2006
Sua Maestà la Noia
Molto, moltissimo si è parlato dell'ultimo film di Stephen Frears, The Queen. Poichè ho rischiato seriamente di infilarmi in un cinema per vederlo - pericolo che ho scampato per un pelo - segnalo una recensione di Giuseppe Genna uscita su Carmilla.
Uno degli eventi che, mercé gli impegni di giuria per la sezione Orizzonti, mi ero perso alla Mostra del Cinema di Venezia è stato l'ultimo film di Stephen Frears, The Queen. Celebratissimo sui quotidiani (italiani) a partire dal giorno successivo alla proiezione e dato per scontato vincitore dai cronisti (italiani) fino all'ultimo, questo ibrido tra soap-opera e melodramma gay su quanto è bella e imperscrutabile Mamma sembrava sbaragliare tutto e tutti, il che era vero: l'ho visionato ierisera e ne sono rimasto sbaragliato. Sono incredulo, passata 'a nuttata: Frears, regista di (passato) notevolissimo impegno politico, si dedica a magnificare le sorti progressive di un premier che è stato la versione maschile della Thatcher e anche peggio, mentre simpatizza con la signora coronata sulla quale tutto c'è da dire tranne che le imbarazzanti e tremule decisioni nei giorni postmortem di Diana. Ridicola pellicola. Occasione persa per dire cosa sia davvero la Corona inglese nel mondo - non solo nel Regno Unito.
Continua a leggere su Carmilla
domenica, settembre 24, 2006
Sillabe pericolose
Più volte mi sono chiesto come mai le donne della Bassaromagna, in particolare le signore di una certa età, abbiano serie difficoltà a pronunciare le sillabe “au” e “ou”: Laura diventa “Lavra”, autocarro “avtocarro” (ma c’è anche la variante “altocarro”, come “altomatico”), mentre “outlook” assume le forme di “ovtlok!” e così via. Io, per esempio, ho passato l’infanzia e l’adolescenza sentendomi chiamare “Mavro”. E’ una caratteristica singolare, buffa, enfatizzata fino al grottesco dai vari Ferrini, Giacobazzi, che fanno il verso proprio a queste signore, e hanno contribuito a rendere la pronuncia romagnola una sorta di pretesto per abbandonarsi a grasse risate. Da dove viene questa difficoltà? Ho pensato che possa derivare dall’alfabeto del ventennio, quando la “u” si scriveva”v”, come nell’antica Roma; è certamente una spiegazione plausibile, ma non l’ho mai ritenuta davvero esaustiva. La questione è più complessa, non ho mai avuto dubbi. Così mi sono messo ad ascoltare il suono, a considerare cioè l’aspetto fonetico: la lettera “a” è parte della sillaba “ah” che può significare dolore, sorpresa, ma anche piacere, abbandono (“ahhh...”), e così, con qualche sfumatura diversa, la lettera “o” e la relativa sillaba. Poi ho collegato la fonetica alla fisiognomica, perché è il arrivo la novità della “u” che crea le sillabe incriminate: per pronunciare “au” la bocca deve fare una contrazione, e le labbra devono allungarsi sensibilmente quando arriva la “u”; provando, riflettendo, guardandomi allo specchio ho concluso che è una posizione della bocca che ricorda la suzione, sia da un punto di vista fonetico che fisiognomico: succhiare insomma, la tettarella, il capezzolo materno; oppure, più probabilmente, il membro maschile. Sì, ho pensato che le signore della Bassaromagna abbiano introiettato un imbarazzo antico, atavico, verso queste sillabe perché quando le pronunciano una voce ad altissima frequenza nascosta nell’inconscio sussurra loro che stanno effettuando una prestazione sessuale orale, e quindi questa forma di cortocircuito determina una risposta a bassissima frequenza che le obbliga ad ammorbidire, o a neutralizzare, il pericolo.
Ovviamente era solo un’ipotesi, per lo più eccentrica. Ogni tanto riflettevo, e mi veniva da ridere pensando a qualche cliente di mia madre parrucchiera che vedeva se stessa, senza esserne cosciente, nell’atto di prendere in bocca un membro maschile.
Poi mi sono imbattuto nel fulminante capitolo di un libro che stavo leggendo. E’ la descrizione di un rapporto sessuale, e sono 17 pagine (17, sì) prodigiose, va detto: il libro è Caos Calmo di Sandro Veronesi, che ha un’abilità stregonesca nel condurci come viaggiatori incantati, strabiliati, attraverso descrizioni anatomiche che scivolano, senza che ce ne rendiamo conto, in estrosi, affabulatori, paradossali flussi di coscienza. Alcune parti di questo capitolo, che si riferiscono proprio a un rapporto orale, hanno confortato la mia ipotesi. Ora so che non solo è suggestiva, ma è molto, molto attendibile.
“Oh, l’inizio di un pompino – Oh. Ogni volta mi stupisco che una cosa così semplice possa essere anche così infallibile. Una bocca che si apre e via: che ci vuole? Chiunque può farlo. E perché allora non succede di continuo? Perché ne facciamo una merce tanto rara? Siamo pazzi, tutti.
– Vorrei tenerlo in bocca tutta la notte – dichiara Eleonora Simoncini, a voce alta, stringendo il cazzo a un centimetro dalle labbra come fosse un microfono. E questa è una cosa bellissima da sentirsi dire, veramente bellissima e risolutiva, perché è come se mi avesse invitato a lasciarmi andare all’indietro, in shavasana, sull’erba, a guardare le chiome dei pini, se proprio non posso chiudere gli occhi, e le stelle sfocate, e la luna ardente, mentre lei finisce di perseguire il suo ideale di virtù ricompensata. Però, per quanto possa essere rassicurante il senso delle sue parole, c’è stato qualcosa nel loro suono che mi ha sconvolto, qualcosa di smerigliato, sì, e di affilato, come una specie di sacra, lancinante scudisciata che mi ha trapassato il corpo in tutta la sua lunghezza – la sensazione fisica più intrusiva mai provata in vita mia. E’ passata, ormai, è durata un solo istante, e lei ha ricominciato a succhiare, concreta, produttiva, nell’intento ormai lampante di farmi venire nella sua bocca; ma la scoperta che si può provare anche quello sbilancia daccapo tutto.
– Ridillo – sento me stesso ordinare.
Eleonora Simoncini si ferma di nuovo, fa sgusciare il cazzo fuori dalla bocca, vola all’indietro i capelli con una bellissima mossa della testa, e mi guarda, divertita. Poi ripete il giochetto del microfono, ora più smaccatamente, prendendo il cazzo con tutte e due le mani e parlandoci sopra ad occhi chiusi, come fanno i cantanti confidenziali che probabilmente ama.
– Vorrei succhiartelo tutta la notte – ripete.
Stavolta è anche più forte, quasi insopportabile. La vibrazione, sì, la vibrazione che la sua voce emette a un millimetro dalla mia cappella, la ‘u’ e la ‘o’, soprattutto, la vibrazione della ‘u’ e della ‘o’: come un fendente che penetra attraverso il simbolo stesso del penetrare, una frequenza di unghie che raschiano la lavagna, e poi l’eco cavernosa di un lamento micidiale che risuona nella più remota profondità dei lombi, il riverbero di un dolore lontano e disperato...”
venerdì, settembre 22, 2006
Dopo una lunga e laboriosa ricerca (senza scherzi, ho dovuto rivoltare mezzo Web) ho sciolto un dubbio iniziale che avevo quando ho scritto il post Fathers and sons: Luca Volontè non è figlio di Gian Maria, nonostante la somiglianza che, a questo punto, è veramente curiosa. La cosa è andata così: ho cercato sulla rete, ma non ho trovato nulla di nulla su questo dettaglio, le sole notizie biografiche di Luca Volontè sono che è nato a Saronno nel 1966. L’unico articolo che mi è sembrato degno di nota era su una rivista on line (cliccare qui), dove non si capiva con precisione se la tesi padre-figlio fosse sostenuta oppure no, benché si parlasse di "figlio ipotetico". Ho scritto a Volontè alla Camera, chiedendo: Lei, onorevole, è figlio dell’attore Gian Maria? Ma non è arrivata risposta. Ho scritto anche alla rivista in questione, ma la risposta è arrivata a post già pubblicato: no, non sono padre figlio, perché all’epoca Volontè ci scrisse per smentire.
Però io non avrei cambiato il senso del mio pezzo. Avrei solo aggiunto alla parola "figlio" l’aggettivo "generazionale", perché il conformismo di Luca è davvero una risposta all’atteggiamento rivoluzionario di certi padri impegnati politicamente delle generazioni passate. E la lotta contro queste immagini enormi, per certi aspetti drammatiche, è anche una lotta dei figli (generazionali) contro i padri.
lunedì, settembre 18, 2006
Foschia porpora nella mia mente,
Le cose non sembrano più le stesse
ultimamente,
Mi comporto in maniera buffa ma non so
perché,
Scusami, intanto che bacio il cielo.
Foschia porpora tutt’intorno,
Non so se salgo o scendo.
Sono felice o disperato?
Come che sia, quella ragazza mi ha incantato! Aiuto, aiuto…
Sì, foschia porpora nei miei occhi
Non so se sia giorno o notte
Mi hai fatto andare fuori, fuori di
testa.
E’ domani o è proprio la fine del tempo?
giovedì, settembre 14, 2006
Fathers and sons
Padri importanti, padri dal carattere forte e tormentato, figure lontane e conflittuali, padri artisti, hanno spesso causato problemi ai loro figli.
Sì, il loro impegno nell’arte, spesso totalitario, esclusivo, dominato da ferite interiori da cui sono nate talvolta grandi opere, li ha portati a un fallimento esistenziale, a una distruzione del proprio ruolo di padri.
Non vogliamo generalizzare, né sostenere che questa sia la regola, ma Alessandro Manzoni ebbe tre figlie di salute cagionevole, Giulietta, Cristina e Matilde, morte giovanissime, consumate dalla tubercolosi, "dall'oppio, dalla morfina", e due figli, Enrico e Filippo, "abulici, passivi, megalomani, bugiardi, puerili, servili" (Pietro Citati, Il Male Assoluto): Enrico finì in prigione per debiti a 27 anni, Filippo dilapidò il suo patrimonio e quello della ricca moglie. E Gianni Agnelli, il cui carattere volitivo, capriccioso e cinico fu fuso nel personaggio di Donna Fulgenzia da Paolo Volponi nel romanzo Le mosche del capitale, ha avuto un figlio suicida (anche se qualcuno, come spesso accade, ha avanzato l'ipotesi di un omicidio).
Per questo, forse, da un padre come Gian Maria Volontè, grande attore, uomo di grande personalità e, forse, di grandi tormenti, che disse: "essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l'arte e la vita", è nato ed è cresciuto, si è formato un figlio come Luca, già militante di Comunione e Liberazione, parlamentare dell’UDC, paladino contro l’aborto, il divorzio, uomo conservatore come suo padre era "contro", e "contro" il quale, nella sua fantasia, probabilmente sta ancora combattendo.
Guardandoli, e ascoltando Luca che parla in televisione, osservando la sua immagine conformista, i suoi modi trattenuti e rigidi, penso con un certo turbamento che sembra un destino della nostra specie che le colpe dei padri ricadano sui figli.
lunedì, settembre 11, 2006
[1] Cantico dei cantici, che è di Salomone.
[2] Mi baci con i baci della sua bocca!
Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.
[3] Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi,
profumo olezzante è il tuo nome,
per questo le giovinette ti amano.
[4] Attirami dietro a te, corriamo!
M'introduca il re nelle sue stanze:
gioiremo e ci rallegreremo per te,
ricorderemo le tue tenerezze più del vino.
A ragione ti amano!
[5] Bruna sono ma bella,
o figlie di Gerusalemme,
come le tende di Kedar,
come i padiglioni di Salma.
[6] Non state a guardare che sono bruna,
poiché mi ha abbronzato il sole.
I figli di mia madre si sono sdegnati con me:
mi hanno messo a guardia delle vigne;
la mia vigna, la mia, non l'ho custodita.
[7] Dimmi, o amore dell'anima mia,
dove vai a pascolare il gregge,
dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda
dietro i greggi dei tuoi compagni.
[8] Se non lo sai, o bellissima tra le donne,
segui le orme del gregge
e mena a pascolare le tue caprette
presso le dimore dei pastori.
[9] Alla cavalla del cocchio del faraone
io ti assomiglio, amica mia.
[10] Belle sono le tue guance fra i pendenti,
il tuo collo fra i vezzi di perle.
[11] Faremo per te pendenti d'oro,
con grani d'argento.
[12] Mentre il re è nel suo recinto,
il mio nardo spande il suo profumo.
[13] Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,
riposa sul mio petto.
[14] Il mio diletto è per me un grappolo di cipro
nelle vigne di Engàddi.
[15] Come sei bella, amica mia, come sei bella!
I tuoi occhi sono colombe.
[16] Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!
Anche il nostro letto è verdeggiante.
[17] Le travi della nostra casa sono i cedri,
nostro soffitto sono i cipressi.
martedì, settembre 05, 2006
Nuovi stili
Ebbene, lo confesso: a me piace come si veste Ahmadinejad. E’ un tempo, questo, in cui i politici, i ministri, configurano il loro aspetto secondo canoni mediatici (spesso, quasi sempre, hanno anche dei consulenti d’immagine), scelgono i colori che rendono bene in televisione e così via (ovviamente il più televisivo del mondo è sempre stato Il Caimano). Ahmadinejad invece veste dimesso, con quelle camicie sempre senza cravatta, quelle giacche marroni, grigie, quei pantaloni che sembrano usciti da un supermarket americano economico. Mi ricorda qualcuno Ahmadinejad. Vedo in lui una continuità, un’evoluzione di certi stili. Mi sembra un punk. Sì, vi è stato un particolare filone del punk in cui i componenti – musicisti soprattutto – vestivano con abiti banali, ordinari, e non coi coreografici giubbotti di cuoio con le borchie, gli anfibi, e non si pettinavano con la cresta. Vestivano come operai delle suburbia inglesi, working class insomma, e in questo mi hanno sempre ricordato gli esponenti dei gruppi maoisti del decennio precedente, che vestivano ispirandosi agli operai in libera uscita, con camicie senza cravatta, giacche ordinarie, giubbotti da poco prezzo. Il gruppo più famoso che adottava questo stile, anche se è improprio definirlo punk in senso specialistico – ma era punk, aveva quel ritmo, quelle atmosfere – era certamente quello dei Joy Division, e i suoi componenti sembravano giovani operai che sul palco scatenavano forze oscure, selvagge. Ahmadinejad me li ricorda, e se lo guardo, così sotto le righe, così inelegante, immagino di vederlo su un palco che si trasforma, e canta, urla al microfono un pezzo dal titolo “Thermonuclear energy”.
Ahmadinejiad, una nuova generazione di punk: gli Islamic punk, la nuova tendenza.