lunedì, marzo 27, 2006


Trentesimo anniversario.
Col primo concerto dei Sex Pistols, che si è tenuto il giorno di S.Valentino del 1976 al 100 Club di Londra, nasce ufficialmente il Punk.

lunedì, marzo 20, 2006


The Jimi Hendrix Experience, la storia

(Pubblico in contemporanea con Vibrisse)
Per chi ammira Jimi Hendrix, per chi lo considera un musicista geniale la cui opera passa indenne attraverso le mode e i gusti generazionali, questo Jimi Hendrix, di Sharon Lawrence, Mondadori 2006, € 18,00 è un prezioso documento che non solo fa rivivere il suo personaggio, ma apre finestre luminosissime su un periodo e una parte di mondo – gli anni Sessanta, la swinging London, la West Coast californiana – che non hanno mai perso una sola sfumatura di fascino, e sono continuamente oggetto di rivisitazione, di riscritture, di citazioni. Quel mondo, quegli anni, brillano di luce vivida, una luce a tratti abbacinante, e riemergono – come in un lungo filmato di qualche regista underground dell’epoca – con tutti i loro suoni, i colori, la carica di follia visionaria e distruttiva che ha coinvolto, spesso travolto, i suoi protagonisti. Dove i protagonisti non sono solo le stelle di quel firmamento caotico, ma tutti coloro che si sono trovati a frequentare quei locali leggendari, il Wha?, il Whisky A Go Go, il Bag O’Nails, a partecipare a quei concerti, a essere presenti a quelle feste dove la coca riempiva insalatiere poste al centro di tavoli orientali e l’acido polverizzava ogni realtà e ogni coscienza.
Ma per chi ha amato Jimi Hendrix, chi aveva i suoi poster psichedelici appesi in camera, e ascoltava strabiliato Hey Joe, Purple Haze, Crosstown Traffic pensando che non aveva mai sentito nulla di simile nella pur vivace produzione musicale di quegli anni, questa è più che una biografia: Jimi Hendrix si muove, parla, interagisce con straordinaria presenza scenica con l’ambiente e la folla di personaggi strambi, talvolta aggressivi, che lo hanno circondato nei suoi sette anni scarsi di attività creativa. E creativa è un tutt’uno con la vita, breve e frenetica, che lo ha portato, a ventisette anni, a passare alla storia della musica come i Beatles, Charlie Parker, Louis Armstrong, Elvis Presley. Questo libro ricostruisce, con molti dettagli inediti, la nascita, la formazione e l’esplosione di un mito, e indaga su come il mito, e la tribù di avventurieri che cercavano di trarre nutrimento da esso, si sono impadroniti di un ragazzone americano un po’ sempliciotto, ingenuo e generoso, con un enorme talento creativo, fino a ridurlo una creatura alla deriva che precipita nella più completa autodistruzione.
Sharon Lawrence era una giornalista americana specializzata in musica, cinema, eventi culturali, amica e confidente di Jimi Hendrix. Nel libro si sente la sua presenza di narratrice, benché discreta; Jimi la cercava, le apriva il suo cuore. Era una figura importante, una donna speciale, per lui che era continuamente assediato da ragazze bellissime, le groupies che seguivano ovunque i musicisti famosi per farsi fotografare in loro compagnia, vivere un pezzetto della loro favola, infilarsi nei loro letti, farsi le loro droghe. Forse Jimi cercava in lei quell’equilibrio e quell’ordine mentale che gli mancavano; la cercava per trovare un rimedio a quella fragilità interiore che lo teneva in bilico sull’orlo di un precipizio.

La formazione

Nel libro si trovano le tracce di questa fragilità nei capitoli che ne ricostruiscono l’infanzia. Jimi nasce a Seattle il 27 novembre 1942 in una famiglia che immediatamente si configura come disastrata. La madre Lucille è una ragazza giovanissima e spaventata; il padre Al è un menefreghista che insegue solo i piaceri che gli danno il gioco d’azzardo, l’alcool, le donne facili. Si separano immediatamente e il piccolo Johnny (questo è il nome scelto dalla madre, poi cambiato in Anagrafe dal padre in James - Jimmy, perché temeva che Lucille lo avesse dedicato a un amante) vive sbandato col fratellino Leon da zie, cugini, vicini di casa. Gli mancano i vestiti, una vera famiglia, e spesso non mangia regolarmente.
Presto si interessa di musica, con un entusiasmo totalizzante. Strimpella di continuo una vecchia chitarra, ascolta il blues, che sarà la sua grande passione per tutta la vita e che rivoluzionerà nel profondo con la sua ricerca compositiva e il suo virtuosismo. Frequenta la scuola, ma con scarso profitto; poi, forse alla ricerca di un futuro possibile che lo strappi finalmente al suo stato di ragazzo emarginato e povero, il 31 maggio 1961 si arruola nell’esercito come paracadutista. Ma impiega pochi mesi per rendersi conto dell’errore. Non è fatto per la vita militare, ama la chitarra e il blues, ama la libertà. Così il 4 luglio 1962, dopo la frattura di una caviglia, riesce a ottenere il congedo. Gli consegnano 400 dollari, una somma enorme per lui, che sperpera subito in baldorie e spacconate varie. Di nuovo al verde, inizia a suonare la chitarra nei locali per un paio di dollari a sera. Viaggia, conosce altri musicisti più meno spiantati come lui, attraversa l’America in lungo e in largo suonando con musicisti consolidati come Sam Cooke, Wilson Pickett, Gli Isley Brothers, Little Richard. Sono due anni durissimi, un periodo nero di povertà, di mancanza di prospettive. Poi con Curtis Knight, un valido chitarrista nero, nel 1965 è a New York, dove suona in alcuni locali abbastanza prestigiosi. Sta portando avanti un buon apprendistato, ma Jimi freme, vuole uscire dal ruolo di semplice strumentista. Scrive, compone, ha già sviluppato uno stile blues suo. Nel 1966, al Greenwich Village, il quartiere di Bob Dylan, che sarà sempre uno dei suoi idoli, fa un salto di qualità con King Kurtis e con Lonnie Youngblood, due ottimi sassofonisti blues.
E qui, come talvolta sembra decidere il caso con alcuni personaggi che tiene d’occhio, incontra l’ex bassista degli Animals, Chas Chandler, che, da mediocre strumentista qual era, sta cercando di riconvertirsi come produttore e manager. E’ un incontro fondamentale per Jimi. Chas capisce che quel ragazzo timidissimo, educato, che sul palco si trasforma in una creatura dotata di una potenza travolgente, ha un futuro. E’ una persona a posto Chas. Certo, vuole fare i soldi, vuole sfondare, proprio come Jimi, ma sarà sempre corretto e onesto, sarà anche un amico. Purtroppo il caso non è sempre e solo bendisposto coi suoi pupilli; mette sulla sua strada anche due personaggi loschi, Ed Chalpin e Mike Jeffery, che gli faranno firmare contratti capestro che lo perseguiteranno per tutta la vita e lo getteranno nell’ansia e nella disperazione, fino a destabilizzarlo psicologicamente.
Chas ha solidi agganci a Londra, e poiché Jimi in America non decolla, decide di farlo provare in quella città, che in quegli anni è la culla del british sound e del british blues, che Jimi ammira. Gli cambia anche nome, da Jimmy a Jimi: suona meglio, è più affascinante. A questo punto il ragazzo è pronto. Così nel settembre del 1966, Chas e Jimi volano a Londra.

Nascita di un mito

La svolta avviene il 29 settembre in uno dei locali preferiti dei Beatles, il Blaises: Jimi suona con l’organista Brian Auger, e tra il pubblico c’è l’idolo del pop europeo Johnny Halliday, il cosiddetto “Elvis francese”. Halliday, che sta cercando un gruppo che apra il suo prossimo concerto all’Olympia di Parigi, rimane impressionato da questo americano esplosivo che suona la chitarra addirittura coi denti! Sarà il nuovo gruppo degli Experience, messo su rapidamente con Noel Redding al basso e Micth Mitchell alla batteria, due ragazzi inglesi che portano i capelli con la permanente come Jimi, ad aprire i concerti di Halliday in Francia. E sarà il fulmineo, irresistibile decollo.
Tornati a Londra i Jimi Hendrix Experience diventano un gruppo-culto, oggetto di una fanatica ammirazione. Quei suoni che Jimi tira fuori dalla Fender Stratocaster, la sua incredibile presenza scenica, quella forza dirompente, quel suo riscrivere il blues con sonorità inedite: non si era mai sentito – e neanche visto – nulla di simile. Così dice Eric Clapton, un chitarrista che Jimi adorava e col quale ha fatto alcune jam sessions memorabili: “suonava in un modo così incredibile che mi spaventava. Credo che ci fosse di mezzo anche un po’ di gelosia. Ci sentivamo tutti minacciati da lui, ed eravamo dannatamente in soggezione”. E Pete Townshend, chitarrista degli Who: “aveva una capacità quasi alchimistica; quando era sulla scena si trasformava. Diventava incredibilmente bello e pieno di grazia. Lui aveva un potere che quasi ti placava se stavi viaggiando in acido. Era più potente dell’LSD”.
Tutti rimangono senza parole di fronte a Jimi, tutti lo ascoltano come ipnotizzati: i Rolling Stones, i Beatles, John Mayall, Jeff Beck. Ovunque va diventa oggetto di un culto sfrenato, se entra in un locale l’attenzione si catalizza immediatamente su di lui; averlo tra il pubblico a un concerto è motivo di grande onore per il gruppo. Il 19 ottobre 1969 a Inglewood, California, al concerto d’addio dei Cream c’è Jimi in platea, con Mitch Mictchell e George Harrison; così dice Russ Shaw, discografico: “hai visto come reagiscono di fronte a Hendrix? Anche quando se ne sta seduto, è favoloso!” Quando esce Are You Experienced? è un evento. Da dove veniva quella musica, quel misto di aggressività, eleganza, blues riscritto dall’interno? E’ un disco così originale che schizza immediatamente in testa alle classifiche.
Nei tre anni che seguono, anni frenetici, dove il tempo sembra consumarsi a una velocità tripla, quintupla, la fama dei Jimi Hendrix Experience cresce fino al parossismo. Lo seguiamo sbalorditi nella sua nuova vita: eccolo che va a una festa degli Who con due conigliette di Playboy sottobraccio; eccolo entrare nei locali più esclusivi seguito da un piccolo esercito di adoratori e di groupies; eccolo continuamente cercato, invitato alle feste, alle jam sessions.
Tornati in America, preceduti dalla fama conquistata a Londra, i Jimi Hendrix Experience vivono praticamente in tournée. Il manager Mike Jefferey vuole spremere ogni goccia di plusvalore dal suo artista di punta. Jefferey ha in mano l’organizzazione, i soldi, Jimi non percepisce che compensi modesti, mentre sono a suo carico tutte le spese dei concerti, le spese legali, i compensi ai musicisti ecc. E’ perseguitato dalle richieste di denaro, e i tour massacranti non gli danno tregua. Le registrazioni di Electric Ladyland, un doppio album che segna una svolta molto importante nella sua ricerca, ed è uno dei grandi capolavori del Novecento, sono continuamente interrotte dai concerti in giro per il mondo.
Benché sia ormai assediato da orde di parassiti che lo seguono ovunque per spillargli soldi e notorietà, Jimi è continuamente impegnato in una ricerca sulla musica, le parole, i suoni. Così dice Chris Stamp, il fratello dell’attore Terence, che lavorò con Jimi come specialista del suono: “Jimi continuava a levare lo sguardo in alto e a dire qualcosa su un suono. Come il suono sul disco... il suono del televisore, il suono di un taxi là fuori. Dopo dieci minuti mi rendo conto che il ragazzo percepisce i suoni come nessun altro. Stava estraendo brandelli da una enorme fonte sonora”.

La caduta
Ma la situazione precipita. Il caos della sua vita, le sue case sempre affollate da persone sconosciute che festeggiano a tutte le ore del giorno e della notte, strafatte di droga, le minacce di Ed Chalpin, che ha in mano uno dei contratti capestro, lo mandano in uno stato confusionale, lo atterriscono (“perché non posso occuparmi solo della mia musica, perché!”). Essere la personificazione di un mito, un simbolo, una macchina di desiderio, e la pressione continua dello sfruttamento, distruggono il suo già precario equilibrio. Il gruppo si sfascia. Jimi fonda i Gypsy Sun and Rainbow, con Mitch Mitchell e Billy Cox (il gruppo che si esibirà a Woodstock), si interessa di teatro, sogna di fondare una comunità di musicisti che possano occuparsi unicamente della loro musica (e avere dei manager finalmente onesti), cerca di sfuggire all’incubo che è diventata la sua vita, ma il sistema che si è creato è ormai troppo potente. Anche Billy Cox, incapace di sostenere lo stress della vita sregolata e caotica che è costretto a condurre, lo abbandona.
Vi sono alti e bassi, Jimi sembra riprendersi: forma la Band of Gypsys, con Buddy Miles alla batteria e di nuovo Billy Cox al basso, ma il 28 gennaio 1970 al Madison Square Garden il concerto è un disastro. Jimi, stravolto da un “acido scadente”, è incapace di suonare e abbandona il palco.
Il 18 settembre 1970, a Londra, Jimi Hendrix muore per l’inalazione del proprio vomito causato dall’ingestione di 9 pillole di un potente barbiturico. Una ragazza di nome Monika Dannemann, che era con lui, aspettò più di due ore prima di chiamare un’ambulanza, perché, disse, “ero terrorizzata per quello che avrebbe detto la stampa”. E mentre rantola, probabilmente gli versa in gola del vino rosso, perché “credevo di fare bene”. Jimi aveva 27 anni e dieci mesi.
Sharon Lawrence ha interpretato il particolare delle 9 pillole come l’indizio inequivocabile di una morte voluta. Jimi infatti era un appassionato di numerologia, e il 9, diceva, era il suo numero, il numero perfetto.
La parte finale del libro è una lunga, spietata ricostruzione di oltre un trentennio di cause legali, scannamenti di avvocati, sentenze di tribunali per mettere le mani sui diritti d’autore e sull’eredità. Un caso complicatissimo, anche per la presenza di documenti che Jimi, nella sua ingenuità, firmava, talvolta in bianco. Emerge, inquietante, la figura del padre, e della sorella adottiva Janie, avida e priva di scrupoli, che ha messo su una fiorente azienda, l’Experience Jimi Hendrix, che ha fatto affari d’oro con la vendita di gadget, palle da golf, magliette, pubblicazioni remixate di registrazioni che Jimi probabilmente non avrebbe mai approvato.
E’ una vicenda molto triste, grottesca, per certi aspetti macabra, e costituisce un esempio perfetto di come il sistema possa sfruttare, distruggere e uccidere un grande artista.

(Nella foto: i Jimi Hendrix Experience a Parigi nel 1967)

giovedì, marzo 16, 2006


Ultra expanded text

Sfogliando libri qua e là, leggendo e curiosando, mi sono chiesto spesso perché molti scrittori moderni [e tra questi molti italiani (e tra questi molti giovani)] non riescono a superare le 200 pagine di testo. Oppure, se ci riescono, questo avviene per pochi, faticati fogli. Trecento pagine sono un traguardo notevole, quattrocento e oltre quasi un record. Ora nessuno ha stabilito che un romanzo di 180 pagine sia “minore” di uno di trecento, però mi chiedo perché non si riesce a gestire fino in fondo una storia lunga, con tutte le sue variabili, ma si cerca di chiudere senza troppe complicazioni e incognite.
Ho pensato che il concetto è quello dell’espansione. Il testo è una materia che prende forma mentre è in lavorazione, è duttile; l’autore lo plasma, e si accorge che prende forme diverse da quelle che aveva, o credeva di avere progettato. E mentre è nel vivo della lavorazione il testo ha bisogno di espandersi. Lo chiedono i personaggi, lo chiedono i luoghi, lo chiede quell’entità talvolta contraddittoria, o spaventata, o arrabbiata che è il narratore. L’espansione è quasi sempre una scommessa, un azzardo, perché i risultati non sono mai scontati ed è in agguato il fallimento. Eppure con l’espansione si possono toccare vette molto alte di qualità anche con pochi elementi. C’era un gruppo negli anni Sessanta, un trio, che creava una musica potente con soli tre strumenti: erano i Cream, con la chitarra di Eric Clapton, l’enorme batteria di Ginger Baker e l’ultra expanded bass di Jack Bruce. In tre generavano un materiale sonoro estremamente denso, si lanciavano in lunghe jam session dove l’espansione musicale procedeva inarrestabile.
Credo che questo dovrebbe – potrebbe – avvenire anche nella scrittura: lasciarsi andare al gusto dell’avventura, permettere alla storia e ai personaggi di espandersi, superare la tentazione di ricondurre tutti i casa prima che cali la notte.
(Nella foto: Sport am Bauhaus 1927)

venerdì, marzo 10, 2006


Scrittori, siete a posto?
Sull’inserto Uomo dell’Espresso c’è un manualetto (una tassonomia) di Daria Bignardi per gli scrittori che si affacciano sul mondo. Ci sono i segreti e le regole del look, che a quanto pare è il requisito più importante per farsi notare, e quindi leggere. “In principio fu Alessandro Baricco” dice la bordeggiatrice de Le invasioni barbariche, “la sua camicia bianca con le maniche arrotolate aprì un mondo”. Baricco, la storia. E oggi? “Oggi è il look di Sandro Veronesi, jeans sformati, finta noncuranza, immagine tradizionale di scrittore-tipo”. Carlo Lucarelli è “metropolitano ipertrasandato” mentre Raoul Montanari porta “magliette aderenti da iperpalestrato, però fa errori madornali, scarpe sbagliate per esempio”; all’estero si segnala “la scuola di Nock Hornby, hip metropolitano all’inglese, t-shirt, jeans neri, scarpe Doc Maartens”; e Paul Auster, “con il suo meraviglioso casual non casuale”. Tutto questo è importante, perché oggi “lo scrittore moderno fa vita da scrittore, televisione, readings, presentazioni, tournée”.
Quindi, scrittori, siete avvertiti: o curate l’immagine, e siete fotogenici, oppure è meglio che, come diceva Burroughs, vi ritiriate davanti al caminetto a cuocere salsicce sulla griglia. E usate pure le pagine dei manoscritti per accendere il fuoco.

(Nella foto: un autoritratto di Robert Mapplethorpe in versione "drag queen".)

mercoledì, marzo 08, 2006


Straordinario? No grazie!

E’urgente un decreto, un editto, un’enciclica, una proposta di legge, qualunque cosa pur di eliminare questa parola dalla nostra sventurata lingua. Leggo che Panariello, durante tre serate di Festival (e dal dato manca la quarta), l’ha ripetuta 34 volte (venti in una sera); era la parola preferita da Maurizio Costanzo che, durante i Costanzo Show, la ripeteva almeno una dozzina di volte in due ore; ne trovai una quantità durante la lettura di Va’ dove ti porta il cuore; poco fa alla radio l’attrice Sharon Stone ha detto “è straordinario che scelgano me”; i presentatori televisivi poi, quando vogliono fare i kulturali, la tirano fuori e iniziano a declamarla selvaggiamente. Insomma, è una jattura, un pericolo mortale. Scriviamo a Ciampi per avere un DPR, almeno a Prodi quando vincerà le elezioni per un DL!

(Nella foto: Baldrus quando sente la parola inkriminata)

mercoledì, marzo 01, 2006


Uccelli 2

Quasi ogni mattina, dalla finestra della mia cucina, assisto a una scena che si ripete. Raccolgo le briciole di pane o dei biscotti della colazione, le unisco alle briciole del giorno prima, qualche vecchia brioche scaduta, pezzi di panettone che compriamo dopo le feste in offerta al supermercato, e lancio il tutto sul prato del condominio, quattro piani più sotto.
I lettori fedeli di questo sito sanno che dove abito, un parco lungo il fiume Reno, vivono e viaggiano molto uccelli. Vi sono i passeri, chiassosi, che saltellano e becchettano con una specie di furore; i merli, timidissimi, che fuggono per un nonnulla; poi i piccioni, ma da quegli autentici fricchettoni che sono al mattino presto non sono ancora arrivati, ed è una fortuna, perché si muovono in grandi branchi fricchettoni e divorano tutto in pochi minuti e agli altri non resta più niente; e c’è la temibile ghiandaia, protagonista del precedente racconto Uccelli (si trova nell’archivio di giugno); ci sono le gazze, ma non scendono mai, passano tutto il tempo sugli alberi a fare un gran baccano (la gazzarra, appunto); infine ci sono le tortore, che arrivano di solito in numero di due, o di tre, o quattro.
Prima di lanciare il becchime però scruto con attenzione il prato, gli alberi, i cespugli, per accertarmi che in giro non ci sia l’assassino. E’ un gatto nero, che vive nel palazzo di fianco, che caccia gli uccelli per puro divertimento. Li assale, li tormenta, li strazia lentamente e li molla lì a brandelli senza mangiarli. La sua padrona, che è una animalista che talvolta porta d’urgenza alla LIPU gli uccelli feriti dal suo assassino, gli ha legato al collo una campanella che dovrebbe annunciare il suo arrivo; ma lui è così attento, così felpato che ha imparato a muoversi senza farla tintinnare. Ma è improbabile che sia in circolazione. Questo per lui è un territorio con divieto di accesso. Lo sa, e quando deve attraversare il cortile compie un giro largo con la coda e le orecchie basse. Sa che in questa porzione di prato rischia grosso. Una volta che l’ho visto in agguato mentre gli uccelli planavano gli ho rovesciato addosso una pentola d’acqua. E qui ho potuto constatare la fantastica prontezza di riflessi del gatto. Benché fosse con tutti i muscoli in tensione, concentrato sulla preda, con uno scatto bruciante è schizzato via un attimo prima di essere investito dal bolo d’acqua. Forse ha sentito una goccia, o lo spostamento d’aria, e la sua risposta è stata fulminea.
A questo punto lancio il cibo, e subito i passeri, che mi stanno aspettando sparsi su vari alberi, atterrano e si mettono a saltellare. Poi arrivano o merli, alla spicciolata, ma fuggono subito, spesso senza avere afferrato neanche un boccone.
Ed ecco le tortore. Ecco il loro gioco, la loro performance; la sua performance, della tortora che ho chiamato la Numero Uno: questo esemplare, che non è neanche il più grosso, ma è la più aggressiva, la più prepotente, ha come unico scopo quello di scacciare le altre per impedire loro di mangiare. Si avventa sulla Numero Due, sbatte le ali per spaventarla, grida, la fa fuggire. Poi passa alla Numero Tre, ripete la sceneggiata, e se è necessario la insegue con brevi voli furiosi. Torna immediatamente in zona cibo e si occupa di nuovo della Numero Due, che approfitta dell’inseguimento per tentare di afferrare qualche briciola. Va avanti così senza mai cedere, senza rassegnarsi.
Il risultato è che nel frattempo gli altri uccelli mangiano tutto e per lei non resta nulla. Anche per le altre, però qualche volta qualcuna riesce a rimediare un bocconcino mentre lei è impegnata negli inseguimenti.
E’ una storiella esemplare, che potrebbe essere usata da un guru indiano o buddhista per rispondere a una domanda sui massimi sistemi della vita. E’ una parabola perfetta sulla vita, la prepotenza, l’istinto di potere.
(Nella foto la temibile ghiandaia protagonista del precedente Uccelli)