Rassegna stampa
Per ingannare l’attesa nell’anticamera di un dentista sfoglio alcune riviste di gossip-hard, le mie preferite: Novella 2000, Eva Tremila, Visto (che però è troppo infarcito di cronaca nera e interviste strappalacrime), Oggi (la meno trash di tutte, anzi, ci sono pure dei servizi interessanti). Riporto alcune notiziole amene: all’aeroporto di Parigi Annie Lennox viene abbordata da un fan che le chiede l’autografo. E’ l’attore Orlando Bloom, ma lei non lo riconosce, sbotta: "la prego, mi lasci in pace, viva la sua vita" e passa oltre. Però la guardia del corpo, che l’ha riconosciuto, la informa che quello è Legolas del Signore degli anelli, così la Lennox torna sui suoi passi, lo raggiunge e, mortificata, si spertica di scuse. Giusta chiosa dell’articolo: "non tutti i fans sono uguali…"
Poi c’è la contessa-splatter Patrizia de Blank che dichiara: "la beneficenza è giusto farla, ma senza che nessuno lo sappia. Questo mi è stato insegnato da mia madre ed è quello che ho trasmesso a mia figlia". Però subito dopo racconta che mentre era per strada ha visto un poveraccio con un cane che chiedeva l’elemosina. Incuriosita dalla sua faccia è andata a intervistarlo e lui le ha detto che un tempo era un ingegnere che aveva perso tutto, lavoro, casa e moglie; allora la contessa si è impietosita oltre ogni limite, l’ha invitato al ristorante e gli ha offerto un pranzo. Ma non aveva trasmesso alla figlia che la beneficenza va fatta senza dirlo a nessuno?
E infine il cult assoluto, le ultime notizie sulla castellana Anna Falchi, che parla del suo maritino Ricucci nell'occhio del ciclone (ma passerà, come sempre qua da noi, possono stare tranquilli e godersi il malloppo). Dice che lui è come Peter Pan, un bambino "vulcanico" che non cresce mai, che è ingenuo, e ricchissimo di fantasia (sarà per ingenuità o per fantasia che ha venduto al furbetto Billè un palazzo al costo di 39 milioni quando le stime lo davano a dieci?); poi dice che sarà sempre al suo fianco "per combattere la crudeltà di un sistema" e che in Italia non c’è gusto ad avere successo, perché ti danno tutti contro, mentre in America "ti dicono bravo" (a me risulta che in America nella finanza se fai troppo il furbetto di schiaffano in galera per anni, qua in Italia depenalizzano i reati); poi dice che le accuse di essere una donna fredda e calcolatrice sono tutte false, perché lei è passionale, e sincera; però le scappa una frase un po’ compromettente, dice "non ho più l’ansia del mantenimento che avevo agli inizi: sono sistemata e sposata". Capito la castellana? Ah, dimenticavo: dice che non andranno a vivere nella villa romana che ha comprato Stefano, perché "che facciamo in 3.500 mq? Ci rincorriamo?" Chissà se Stefano l’ha comprata per ingenuità o eccesso di fantasia…
giovedì, dicembre 29, 2005
sabato, dicembre 24, 2005
L’ultimo viaggio di Tiziano Terzani
Quando ho iniziato a leggere Ultimo giro di giostra, un paio di mesi fa, qualcosa mi disturbava. Ero reduce della lettura di Buonanotte signor Lenin, dove un eccesso di anticomunismo perdeva il suo pathos di sentimento antisovietico, antiregime, per confondersi con un sentimento viscerale di individualismo borghese con tinte di rimpianto per la perduta eleganza zarista ecc. Era il limite di quel libro, che pure mi aveva appassionato e dove il talento del grande giornalista emergeva fiero e potente. In questo libro mi sembrava che un eccesso di scetticismo rappresentasse di nuovo un limite che distraeva, scollegava la lettura.
Credo che la storia sia nota: a Tiziano Terzani fu diagnosticato un cancro: “Signor Terzani, lei ha il cancro”. All’inizio non si disperò, né si commosse, come se la cosa non lo riguardasse. Ma la notte porta consiglio, e così, come un animale ferito che si risveglia, iniziò a elaborare una strategia di difesa. Decise di rivolgersi al più prestigioso ospedale del mondo, il Memorial Sloan-Kettering Cancer Centre (MSKCC). Lui, che era vissuto trent’anni in oriente, e conosceva bene le discipline filosofiche e mediche, decise di partire con la medicina occidentale pura, la medicina empirica fatta di farmaci e terapie pesanti, chemioterapia, radioterapia, antibiotici.
E qui inizia la grande avventura. Dopo una terapia massacrante, e la chirurgia, gravemente provato, prostrato, senza rimorsi, ma neanche dubbi sui limiti di una medicina invasiva e parziale, che aggredisce “la malattia” quasi senza occuparsi del malato, decide di intraprendere un lungo viaggio attraverso le pratiche mediche del mondo orientale, alla ricerca della “cura delle cure”. Ma esiste? La curiosità sempre vigile del grande reporter, il suo straordinario talento narrativo, la sua abilità di ritrattista lo portano ad avventurarsi nello sterminato, caotico mondo da baraccone della new age, delle pratiche alternative e pseudomistiche che tanto spazio stanno guadagnando in un mondo che si rinchiude ogni giorno di più nella brutalità del materialismo. E quanti santoni, quanti guaritori, quanti esperti che propongono cure, rimedi infallibili, medicine antiche e naturali che vengono da chissà dove, sempre miracolose, sempre uniche, incontra sul suo cammino. Eccolo a New York a frequentare un corso di qi gong; eccolo in Thailandia in un centro dove “lavano” il colon con continui clisteri che “depurano”; eccolo impegnato con l’omeopatia, con l’ayur veda, con lo yoga, con la medicina tibetana, con gli “psicochirughi” filippini. E lentamente, mentre lo seguivo nel suo cammino accidentato, quella sorta di scetticismo che, talvolta con ferocia, smascherava il santone di turno, mutava forma: assumeva le forme di una lucidità estrema che lo portava a riflettere in profondità sulla natura stessa della malattia, sul rapporto tra la malattia e se stessi. Riflette sulla sua lunga vita di viaggiatore, e cerca di stilare un bilancio, seppure parziale: “la ragione di tutto quel muovermi, di quell’andare continuamente fuori in cerca di qualcosa era semplice: io non avevo niente dentro di me. Ero vuoto”. Il niente. Il vuoto. Questa consapevolezza lo porta a scavare dentro le pratiche mediche, dentro le filosofie, e studia, chiede, indaga, ride, ma con rinnovata umiltà, cercando di combattere il suo scetticismo un po’ arrogante di europeo per scoprire in tutte le scuole, in tutti i corsi, nei medici naturisti o mistici, ognuno con le sue ricette, le sue certezze, qualcosa di buono. Perché in tutto, ovunque, e in tutti, c’è il buono e il cattivo, il bene e il male, dipende da noi scegliere, capire, osservare senza paure e senza preconcetti. Eccolo quindi il vero, interminabile viaggio: è dentro noi stessi, è la ricerca della propria essenza vitale, dell’equilibrio della vita e della morte.
Superata la prima, superficiale sensazione di fastidio per uno scetticismo che non era scetticismo, ma curiosità e disincanto, ho quindi rallentato la lettura perché non volevo terminare questo libro. E’ stato un grande, prezioso compagno, e una guida. E’ stato un libro avventuroso, emozionante, divertente e avvincente, e anche istruttivo, perché contiene un compendio semplice ma abbastanza dettagliato di filosofie orientali, una storia della spiritualità e della ricerca filosofica. Non è un libro teorico o teosofico, non è noioso, mai, né pedante, è anzi veloce, profondo. E’ un libro perfetto, penso di poterlo affermare con tranquillità. E Tiziano Terzani, che ci guida in questa avventura fino agli ultimi giorni sull’Himalaya, quando il suo tempo sta ormai finendo, è un maestro, forse l’unico grande sadhu mai vissuto in Italia; è anche un amico sincero, un amico spiritoso, arguto, disponibile, che sa farci ridere, che ci racconta storie meravigliose, che traccia ritratti irresistibili di tipi strani, e ci aiuta a capire.
Ed è con lui, e con questo suo ultimo lavoro, che auguro Buon Natale a tutti, con un pensiero particolare alle persone sole, a chi, in questi giorni di frenesia, non ha con chi organizzare il cenone, con chi scambiarsi i regali. Per loro riporto questo passo della Bhagavad Gita: "l'uomo saldo, che sopporta con animo uguale dolore e piacere, è un saggio pronto per l'immortalità".
Quando ho iniziato a leggere Ultimo giro di giostra, un paio di mesi fa, qualcosa mi disturbava. Ero reduce della lettura di Buonanotte signor Lenin, dove un eccesso di anticomunismo perdeva il suo pathos di sentimento antisovietico, antiregime, per confondersi con un sentimento viscerale di individualismo borghese con tinte di rimpianto per la perduta eleganza zarista ecc. Era il limite di quel libro, che pure mi aveva appassionato e dove il talento del grande giornalista emergeva fiero e potente. In questo libro mi sembrava che un eccesso di scetticismo rappresentasse di nuovo un limite che distraeva, scollegava la lettura.
Credo che la storia sia nota: a Tiziano Terzani fu diagnosticato un cancro: “Signor Terzani, lei ha il cancro”. All’inizio non si disperò, né si commosse, come se la cosa non lo riguardasse. Ma la notte porta consiglio, e così, come un animale ferito che si risveglia, iniziò a elaborare una strategia di difesa. Decise di rivolgersi al più prestigioso ospedale del mondo, il Memorial Sloan-Kettering Cancer Centre (MSKCC). Lui, che era vissuto trent’anni in oriente, e conosceva bene le discipline filosofiche e mediche, decise di partire con la medicina occidentale pura, la medicina empirica fatta di farmaci e terapie pesanti, chemioterapia, radioterapia, antibiotici.
E qui inizia la grande avventura. Dopo una terapia massacrante, e la chirurgia, gravemente provato, prostrato, senza rimorsi, ma neanche dubbi sui limiti di una medicina invasiva e parziale, che aggredisce “la malattia” quasi senza occuparsi del malato, decide di intraprendere un lungo viaggio attraverso le pratiche mediche del mondo orientale, alla ricerca della “cura delle cure”. Ma esiste? La curiosità sempre vigile del grande reporter, il suo straordinario talento narrativo, la sua abilità di ritrattista lo portano ad avventurarsi nello sterminato, caotico mondo da baraccone della new age, delle pratiche alternative e pseudomistiche che tanto spazio stanno guadagnando in un mondo che si rinchiude ogni giorno di più nella brutalità del materialismo. E quanti santoni, quanti guaritori, quanti esperti che propongono cure, rimedi infallibili, medicine antiche e naturali che vengono da chissà dove, sempre miracolose, sempre uniche, incontra sul suo cammino. Eccolo a New York a frequentare un corso di qi gong; eccolo in Thailandia in un centro dove “lavano” il colon con continui clisteri che “depurano”; eccolo impegnato con l’omeopatia, con l’ayur veda, con lo yoga, con la medicina tibetana, con gli “psicochirughi” filippini. E lentamente, mentre lo seguivo nel suo cammino accidentato, quella sorta di scetticismo che, talvolta con ferocia, smascherava il santone di turno, mutava forma: assumeva le forme di una lucidità estrema che lo portava a riflettere in profondità sulla natura stessa della malattia, sul rapporto tra la malattia e se stessi. Riflette sulla sua lunga vita di viaggiatore, e cerca di stilare un bilancio, seppure parziale: “la ragione di tutto quel muovermi, di quell’andare continuamente fuori in cerca di qualcosa era semplice: io non avevo niente dentro di me. Ero vuoto”. Il niente. Il vuoto. Questa consapevolezza lo porta a scavare dentro le pratiche mediche, dentro le filosofie, e studia, chiede, indaga, ride, ma con rinnovata umiltà, cercando di combattere il suo scetticismo un po’ arrogante di europeo per scoprire in tutte le scuole, in tutti i corsi, nei medici naturisti o mistici, ognuno con le sue ricette, le sue certezze, qualcosa di buono. Perché in tutto, ovunque, e in tutti, c’è il buono e il cattivo, il bene e il male, dipende da noi scegliere, capire, osservare senza paure e senza preconcetti. Eccolo quindi il vero, interminabile viaggio: è dentro noi stessi, è la ricerca della propria essenza vitale, dell’equilibrio della vita e della morte.
Superata la prima, superficiale sensazione di fastidio per uno scetticismo che non era scetticismo, ma curiosità e disincanto, ho quindi rallentato la lettura perché non volevo terminare questo libro. E’ stato un grande, prezioso compagno, e una guida. E’ stato un libro avventuroso, emozionante, divertente e avvincente, e anche istruttivo, perché contiene un compendio semplice ma abbastanza dettagliato di filosofie orientali, una storia della spiritualità e della ricerca filosofica. Non è un libro teorico o teosofico, non è noioso, mai, né pedante, è anzi veloce, profondo. E’ un libro perfetto, penso di poterlo affermare con tranquillità. E Tiziano Terzani, che ci guida in questa avventura fino agli ultimi giorni sull’Himalaya, quando il suo tempo sta ormai finendo, è un maestro, forse l’unico grande sadhu mai vissuto in Italia; è anche un amico sincero, un amico spiritoso, arguto, disponibile, che sa farci ridere, che ci racconta storie meravigliose, che traccia ritratti irresistibili di tipi strani, e ci aiuta a capire.
Ed è con lui, e con questo suo ultimo lavoro, che auguro Buon Natale a tutti, con un pensiero particolare alle persone sole, a chi, in questi giorni di frenesia, non ha con chi organizzare il cenone, con chi scambiarsi i regali. Per loro riporto questo passo della Bhagavad Gita: "l'uomo saldo, che sopporta con animo uguale dolore e piacere, è un saggio pronto per l'immortalità".
giovedì, dicembre 22, 2005
Vecchi tempi?
Se qualcuno pensa che su questo sito serpeggi troppa indignazione per la politica, legga Tribù S.P.A. di Gian Antonio Stella (Feltrinelli) e sentirà questo sentimento, misto a incredulità, esplodere con impatto travolgente. Io, per esempio, dovrei leggerlo molto lentamente, a microdosi, per non soccombere.
Stella è una delle firme del Corriere della sera, e fa parte di un ridottissimo drappello di giornalisti che, nell’epoca del regime e della censura berlusconiana, non ha smesso di spargere vetriolo sulle facce patibolari dei politici vincenti, dei voltagabbana, dei portavoce, insomma la "classe dirigente" che si è insediata al potere e se lo gode in assoluta libertà. Questo libro uscì dopo le elezioni, ed è stato ripubblicato con aggiornamenti sui nuovi rampanti entrati nei salotti buoni della Destra, a riempire i vuoti dei "caduti" durante l’esercizio della trama e della razzia. E’ una stupefacente, impressionante carrellata di ritratti dei componenti della variegata banda di furfanti festaioli che ha occupato non un’azienda, non una banca per raderla al suolo, spolparla e gettarla via, ma una intera nazione. Non si riesce a credere che ciò sia potuto avvenire in un paese europeo, e che questo fenomeno non solo sia durato anni, ma possa addirittura rinnovarsi. Le maschere tragiche e comiche di questo teatro della follia scorrono tra ghigni sinistri, sberleffi, feste mondane, dichiarazioni surreali, e non manca nessuno, c’è persino Iva Zanicchi, e un imperdibile cameo della "coscialunga da combattimento" Gabriella Carlucci che arriva in porsche, va a sbattere contro un jumbo-bus, tira dritto senza una piega, la schiaffa sul marciapiede nei pressi di Montecitorio e la molla lì. E la macchina? "Ci devono pensare i commessi di Montecitorio, sono affari loro". Il problema, l’incubo, è che invece sono affari nostri.
Se qualcuno pensa che su questo sito serpeggi troppa indignazione per la politica, legga Tribù S.P.A. di Gian Antonio Stella (Feltrinelli) e sentirà questo sentimento, misto a incredulità, esplodere con impatto travolgente. Io, per esempio, dovrei leggerlo molto lentamente, a microdosi, per non soccombere.
Stella è una delle firme del Corriere della sera, e fa parte di un ridottissimo drappello di giornalisti che, nell’epoca del regime e della censura berlusconiana, non ha smesso di spargere vetriolo sulle facce patibolari dei politici vincenti, dei voltagabbana, dei portavoce, insomma la "classe dirigente" che si è insediata al potere e se lo gode in assoluta libertà. Questo libro uscì dopo le elezioni, ed è stato ripubblicato con aggiornamenti sui nuovi rampanti entrati nei salotti buoni della Destra, a riempire i vuoti dei "caduti" durante l’esercizio della trama e della razzia. E’ una stupefacente, impressionante carrellata di ritratti dei componenti della variegata banda di furfanti festaioli che ha occupato non un’azienda, non una banca per raderla al suolo, spolparla e gettarla via, ma una intera nazione. Non si riesce a credere che ciò sia potuto avvenire in un paese europeo, e che questo fenomeno non solo sia durato anni, ma possa addirittura rinnovarsi. Le maschere tragiche e comiche di questo teatro della follia scorrono tra ghigni sinistri, sberleffi, feste mondane, dichiarazioni surreali, e non manca nessuno, c’è persino Iva Zanicchi, e un imperdibile cameo della "coscialunga da combattimento" Gabriella Carlucci che arriva in porsche, va a sbattere contro un jumbo-bus, tira dritto senza una piega, la schiaffa sul marciapiede nei pressi di Montecitorio e la molla lì. E la macchina? "Ci devono pensare i commessi di Montecitorio, sono affari loro". Il problema, l’incubo, è che invece sono affari nostri.
mercoledì, dicembre 21, 2005
Nuovi volti
Il vekkio D’Alema ci ha una barchèèètta che è costata quasi 900.000 euro. Poi abitava (ci abita ancora?) uno sfarzoso appartamento naturalmente di proprietà pubblica di cui pagava due lire due di affitto. Eh, sono i fasti romani. Ovviamente il vekkio d’Alema, essendo uno "di sinistra" è sensibile alle tematiche sulla fame nel mondo, i bambini, eccetera. E lavora per gli interessi del paese. Qualcuno ne dubita?
Il vekkio D’Alema ci ha una barchèèètta che è costata quasi 900.000 euro. Poi abitava (ci abita ancora?) uno sfarzoso appartamento naturalmente di proprietà pubblica di cui pagava due lire due di affitto. Eh, sono i fasti romani. Ovviamente il vekkio d’Alema, essendo uno "di sinistra" è sensibile alle tematiche sulla fame nel mondo, i bambini, eccetera. E lavora per gli interessi del paese. Qualcuno ne dubita?
martedì, dicembre 20, 2005
Meglio stare in guardia
Quando ascolto l’ultimo pezzo di Shakira, con quella voce che Garcia Marquez ha definito “unica”, entro in uno stato di buon umore e riesco a scacciare lo scoramento che invece mi assale quando, alla radio, mi prende di sorpresa un cantautore raccapricciante come Biagio Antonacci.
Quando ascolto l’ultimo pezzo di Shakira, con quella voce che Garcia Marquez ha definito “unica”, entro in uno stato di buon umore e riesco a scacciare lo scoramento che invece mi assale quando, alla radio, mi prende di sorpresa un cantautore raccapricciante come Biagio Antonacci.
giovedì, dicembre 15, 2005
Un traguardo lontano?
Una cara amica mi ha inviato questa mail: “sai, ci sono già tanti che ci parlano di loro, i politici, tanti che si lamentano e ci ricordano lo schifo che è diventato il nostro paese. Tu sei così bravo quando ti abbandoni alla scrittura fatta per il piacere di scrivere. Continua a donarci i tuoi diari, le tue storie, penso che ci sia più bisogno di questo nei Blog”. Anche Sergio Pasquandrea, in un commento a uno dei primi post del Blog appena aperto, scriveva (cito a memoria): “perché stupirsi tanto per le malefatte di Berlusconi? Lui sta dove c’è da mangiare, così è”. Hanno ragione. Mentre mi lancio nelle mie filippiche impregnate di rabbia fredda sento che hanno ragione. E’ inutile, se non dannoso, per me stesso, evocare tanta collera e tanta indignazione. E forse risulta pure noioso per i lettori. Il fatto è che non riesco a restare indifferente, o distaccato, dal fatto che una banda di delinquenti comuni, di truffatori, ha preso il potere in questo paese. E trovo altrettanto atroce la previsione che quando, come dicono i Soloni, la Sinistra vincerà, non cambierà nulla, oppure molto, molto poco. Forse muterà la forma, e si faranno meno leggi ad personam per ammorbidire i processi, ma la sostanza non cambierà. Anzi, esiste il fondato sospetto che per noi, la cosiddetta classe lavoratrice, la situazione peggiorerà. La Sinistra vorrà “rilanciare l’economia”, cioè dare impulso al sistema fondato sul consumo esasperato di beni inutili per sostenere la produzione, e le procedure sono sempre le stesse: sacrifici, “lacrime e sangue” per tirare fuori i soldi dalle nostre tasche per trasferirle in quelle sfondate dei “peggiori capitalisti d’Europa”. Tagli, tasse, per “lo sviluppo”. E grandi opere, Tav, autostrade, nuovi scempi ambientali (basta sentire parlare l’ex ministro dell’industria pesante e padre di Samuele Bersani, che è una superstar televisiva, per rabbrividire). Perché chi comanda veramente non è il governo, di destra o di sinistra, ma il Sistema, il Capitalismo straccione e rapace, e i governanti sono i loro zerbini. Talvolta il mostro manda al potere dei criminali, dei ladri, come quelli di adesso, poi non gli fanno più comodo, perché esagerano e si bruciano, e allora vanno su quelli “seri”, quelli tosti, poi si torna indietro e così via.
Bene, questa è la parte razionale.
Ma c’è un’altra parte di me, di cui sono consapevole solo in parte, che mi spinge a scagliarmi contro i demoni. E’ un rancore che mi porto dentro, un rancore antico, che viene da molto lontano, e mi scorre nel sangue come un veleno. Lo scarico su di loro, sui ladroni gaudenti e tracotanti, perché evocano la tracotanza di un potere ipocrita e aggressivo che forse era quello del Sistema di quando ero ragazzo, o della scuola, o della mia famiglia, o tutte queste cose insieme. Questo demone viene su dal profondo, e non sono mai riuscito a scacciarlo. Mi rigurgita nel cuore, nella mente e nelle viscere. Quando vedo i brutti ceffi che ridono in Tv mi aggredisce e mi fa salire la collera e istinti persino omicidi. E’ sbagliato, e ne sono consapevole. So che l’unica soluzione sarebbe una maggiore tranquillità, una forma di distacco. Perché, come dice Il Vecchio compagno di eremitaggio di Tiziano Terzani sull’Himalaya “questa civiltà non è degna di essere salvata, è impegnata solo a perseguire il piacere dei sensi ed è alla vigilia di una grande nevrosi”. Tuttavia, come insegna la Bhagavad Gita, essere saggi non significa non agire, ma agire con moderazione, inseguendo un maggiore e più sereno distacco dalle cose e dagli affari degli uomini. Quindi essere distaccati dal Sistema non significa ignorarlo, ma combatterlo. Come? Per prima cosa bisogna combattere il Sistema che è in noi. E’ il nostro esserne vittima, il sottostare alle sue leggi, consumare beni inutili, chiudersi in difesa di se stessi, diventare indifferenti, ostili e spaventati, perdere del tutto la fiducia, illudersi di inseguire una vita comoda chiusi nelle nostre case superaccessoriate con computers, home theatre eccetera. Illudersi quindi di prenderci il nostro tempo per noi stessi, mentre è il mostro che se lo mangia, è Maya, l’apparenza, che ci domina. Come dice il Swami nell’ashram indiano dove Tiziano Terzani frequenta un lungo apprendistato sui Veda, viene un momento che non ha più senso dedicare il nostro tempo solo a noi stessi, cioè a Maya, ma bisogna donarlo. Dedicarlo agli altri, per ascoltare, imparare e insegnare, aiutare, accogliere, senza chiudersi in continui giudizi perentori. Questi sono i primi passi per combattere il Sistema, partendo da noi, dal nostro animo. Non sono solo riflessioni filosofiche orientali o buddiste, era l’Uomo Nuovo di Gramsci, era il mito giovanile di liberazione degli anni Sessanta, era il sogno, l’utopia.
Sembra facile, sembra una banalità, ma è forse l’obiettivo della vita.
Una cara amica mi ha inviato questa mail: “sai, ci sono già tanti che ci parlano di loro, i politici, tanti che si lamentano e ci ricordano lo schifo che è diventato il nostro paese. Tu sei così bravo quando ti abbandoni alla scrittura fatta per il piacere di scrivere. Continua a donarci i tuoi diari, le tue storie, penso che ci sia più bisogno di questo nei Blog”. Anche Sergio Pasquandrea, in un commento a uno dei primi post del Blog appena aperto, scriveva (cito a memoria): “perché stupirsi tanto per le malefatte di Berlusconi? Lui sta dove c’è da mangiare, così è”. Hanno ragione. Mentre mi lancio nelle mie filippiche impregnate di rabbia fredda sento che hanno ragione. E’ inutile, se non dannoso, per me stesso, evocare tanta collera e tanta indignazione. E forse risulta pure noioso per i lettori. Il fatto è che non riesco a restare indifferente, o distaccato, dal fatto che una banda di delinquenti comuni, di truffatori, ha preso il potere in questo paese. E trovo altrettanto atroce la previsione che quando, come dicono i Soloni, la Sinistra vincerà, non cambierà nulla, oppure molto, molto poco. Forse muterà la forma, e si faranno meno leggi ad personam per ammorbidire i processi, ma la sostanza non cambierà. Anzi, esiste il fondato sospetto che per noi, la cosiddetta classe lavoratrice, la situazione peggiorerà. La Sinistra vorrà “rilanciare l’economia”, cioè dare impulso al sistema fondato sul consumo esasperato di beni inutili per sostenere la produzione, e le procedure sono sempre le stesse: sacrifici, “lacrime e sangue” per tirare fuori i soldi dalle nostre tasche per trasferirle in quelle sfondate dei “peggiori capitalisti d’Europa”. Tagli, tasse, per “lo sviluppo”. E grandi opere, Tav, autostrade, nuovi scempi ambientali (basta sentire parlare l’ex ministro dell’industria pesante e padre di Samuele Bersani, che è una superstar televisiva, per rabbrividire). Perché chi comanda veramente non è il governo, di destra o di sinistra, ma il Sistema, il Capitalismo straccione e rapace, e i governanti sono i loro zerbini. Talvolta il mostro manda al potere dei criminali, dei ladri, come quelli di adesso, poi non gli fanno più comodo, perché esagerano e si bruciano, e allora vanno su quelli “seri”, quelli tosti, poi si torna indietro e così via.
Bene, questa è la parte razionale.
Ma c’è un’altra parte di me, di cui sono consapevole solo in parte, che mi spinge a scagliarmi contro i demoni. E’ un rancore che mi porto dentro, un rancore antico, che viene da molto lontano, e mi scorre nel sangue come un veleno. Lo scarico su di loro, sui ladroni gaudenti e tracotanti, perché evocano la tracotanza di un potere ipocrita e aggressivo che forse era quello del Sistema di quando ero ragazzo, o della scuola, o della mia famiglia, o tutte queste cose insieme. Questo demone viene su dal profondo, e non sono mai riuscito a scacciarlo. Mi rigurgita nel cuore, nella mente e nelle viscere. Quando vedo i brutti ceffi che ridono in Tv mi aggredisce e mi fa salire la collera e istinti persino omicidi. E’ sbagliato, e ne sono consapevole. So che l’unica soluzione sarebbe una maggiore tranquillità, una forma di distacco. Perché, come dice Il Vecchio compagno di eremitaggio di Tiziano Terzani sull’Himalaya “questa civiltà non è degna di essere salvata, è impegnata solo a perseguire il piacere dei sensi ed è alla vigilia di una grande nevrosi”. Tuttavia, come insegna la Bhagavad Gita, essere saggi non significa non agire, ma agire con moderazione, inseguendo un maggiore e più sereno distacco dalle cose e dagli affari degli uomini. Quindi essere distaccati dal Sistema non significa ignorarlo, ma combatterlo. Come? Per prima cosa bisogna combattere il Sistema che è in noi. E’ il nostro esserne vittima, il sottostare alle sue leggi, consumare beni inutili, chiudersi in difesa di se stessi, diventare indifferenti, ostili e spaventati, perdere del tutto la fiducia, illudersi di inseguire una vita comoda chiusi nelle nostre case superaccessoriate con computers, home theatre eccetera. Illudersi quindi di prenderci il nostro tempo per noi stessi, mentre è il mostro che se lo mangia, è Maya, l’apparenza, che ci domina. Come dice il Swami nell’ashram indiano dove Tiziano Terzani frequenta un lungo apprendistato sui Veda, viene un momento che non ha più senso dedicare il nostro tempo solo a noi stessi, cioè a Maya, ma bisogna donarlo. Dedicarlo agli altri, per ascoltare, imparare e insegnare, aiutare, accogliere, senza chiudersi in continui giudizi perentori. Questi sono i primi passi per combattere il Sistema, partendo da noi, dal nostro animo. Non sono solo riflessioni filosofiche orientali o buddiste, era l’Uomo Nuovo di Gramsci, era il mito giovanile di liberazione degli anni Sessanta, era il sogno, l’utopia.
Sembra facile, sembra una banalità, ma è forse l’obiettivo della vita.
venerdì, dicembre 09, 2005
Grandi personaggi per un grande libro
In un post che ho passato sul Blog qualche tempo fa ho citato un mitico testo degli anni Settanta, la biografia di Bob Dylan di Anthony Scaduto. Mentre ne scrivevo sono stato assalito da una valanga di ricordi. Non sul testo in sé, che ricordavo per sommi capi, ma ricordi di lettura. E’ stato, posso dirlo, uno dei libri più importanti della mia vita. E non solo della mia. Quel libro entrò nell’esistenza di noi ragazzi che vivevamo in un piccolo paese della pianura romagnola, e sconvolse il nostro fragile equilibrio. O meglio, accentuò lo squilibrio che già complicava le nostre vite irrequiete schiacciate in un territorio piatto e desolato, un mondo immobile e vuoto che ci opprimeva coi suoi ritmi sempre uguali. Così ho ripreso in mano quel volume un po’ ingiallito, pubblicato nel 1972 da Arcana per £ 2.200, e ripubblicato, tra l’altro, nel 2003 dallo stesso editore. E di nuovo, rileggendo qua e là, sono stato travolto da emozioni che credevo sepolte per sempre. Ho rivisto un cortiletto di cemento, una casa bassa, ho udito dei suoni, forse ho sentito degli odori. Ed emozioni tristi, come una malinconia mai risolta che tornava a serpeggiarmi sotto la pelle.
Eravamo in tre ad essere particolarmente coinvolti dalle nuove tendenze, dalle nuove speranze di libertà che, sotto la spinta del decennio precedente, non si erano ancora riconvertite in quella delusione rabbiosa che avrebbe condotto tanti noi verso strade di contestazione violenta, o di strisciante autodistruzione. Adoravamo Bob Dylan, e in questo libro leggevamo del suo paese natale, una cittadina del Minnesota dove tutto era già stabilito, dove i figli si apprestavano a continuare i mestieri dei padri, e “gli altri”, i giovani coi capelli lunghi, i giovani che volevano vivere, erano “i matti”, quelli delle città, i “finocchi”. Era il nostro paese, il nostro cimitero, e quel ragazzo che voleva cantare come Little Richard, che non stava mai fermo, che se ne fregava dell’opinione pubblica, era uno di noi. E quel suo muoversi frenetico, quell’inseguire a testa bassa un obiettivo a tutti i costi, la sua musica, era la rappresentazione del nostro desiderio, del nostro sogno di una vita diversa, fuori dal cimitero. Lui era noi, e faceva quello che noi avremmo voluto fare; che tentavamo di fare, coi nostri poveri mezzi.
Il vekkio Loris era affascinato soprattutto dal talento mimetico di Dylan, da quel suo nascondersi, dal mutare continuamente identità in un gioco di trasformismo che rivelava la volontà di rendersi invisibile in un mondo che ti teneva sempre gli occhi puntati addosso. Ne parlava di continuo, si identificava con quella giovane, guizzante anguilla che cambiava di continuo amici, senza esserlo davvero di nessuno, né dei ragazzi “perbene” né dei “greasers” motociclisti di cui sembrava fare parte. In realtà Dylan era tutti e nessuno, perché lui era la sua musica, la sua voglia di scrivere, di farsi strada, senza curarsi minimamente dei gusti del pubblico che lo fischiava quando si contorceva come un ossesso al pianoforte.
A Riccardo, e a me, piaceva il ritmo, quel suo essere una sorta di Dean Moriatry-grande artista, uno che si buttava nella vita come un guerriero, incurante dei rischi e dei nemici. Uno che abbatteva le barriere, che guardava in faccia l’infinito. Riccardo abitava in una casetta sulla statale n. 16, la route Adriatica, una vera strada americana, una freeway che correva lungo la costa e puntava verso terre lontane. Andavo a casa sua e lo trovavo spesso seduto per terra nel cortiletto di cemento che circondava la sua casetta, un angolo tranquillo e inondato dal sole del pomeriggio. Non era molto alto Riccardo; era uno forte, parlava a voce bassa, aveva modi tranquilli, sembrava un tipo posato. Oggi direi che assomigliava a Baricco, stesso personaggio piacente, accattivante, uno che ti stimola le confidenze, uno che lo cercheresti spesso perché con lui sei a tuo agio sempre, perché non è aggressivo, non ti fa sentire sotto esame, non ti giudica. Commentavamo l’ultimo capitolo del libro, e io dicevo: “la sua vita e la sua forza fanno sembrare così vuota, così inutile la nostra vita”. Lui rideva sotto i baffi, annuiva. Poi usciva sua madre, una donna svelta, sempre attiva, gli diceva delle cose e lui si innervosiva. Una volta gli mostrò una camicia appena comprata e lui digrignò i denti, urlò a freddo, con voce strozzata: “non la voglio!” La madre ci rimase malissimo, soppesò la camicia con mani incerte, rientrò in casa sconsolata. E quando io gli chiesi perché aveva reagito in quel modo, lui strinse i pugni, incassò la testa nelle spalle e di nuovo gridò a freddo, a denti stretti: “non le voglio le sue camicie!”
Passò il tempo, passarono gli anni, e Riccardo partì. Era approdato in America, dicevano. Ogni tanto gli pensavo, laggiù nelle metropoli dylaniane, mentre io, mentre noi al paese cercavamo di sbarcare il lunario fondando una fanzine, poi una radio. Lo rividi alla fine degli anni Settanta, in uno zuccherificio dove lavoravamo l’estate. Era in gran forma, calmo, tranquillo, magnetico. Gli chiesi di raccontarmi un po’ della sua vita, dove abitava? A New York, disse. New York, il Greenwich Village, dove Bob Dylan scopriva il mondo, e lo conquistava! Viveva, disse, in casa della fidanzata, l’ultima di una lunga serie. Era proprio vero, già prima di partire cambiava continuamente ragazza. Allora gli chiesi come mai passava così facilmente da una ragazza all’altra, in Italia come in America. “Non lo so mica” disse, “loro mi invitano fuori, usciamo, poi andiamo a casa e non faccio in tempo a chiudere la porta che già mi slacciano i pantaloni”. Non lo disse per vantarsi, ma con aria pensierosa, come se questo fenomeno lo stupisse, o addirittura lo inquietasse. Io lo guardavo, lo ascoltavo, e vedevo in lui una somiglianza con Bob Dylan, forse non sul piano fisico, perché era più robusto, più rotondetto (come Baricco), ma per quella sorta di disinteresse verso il mondo e le sue convenzioni, quel suo vivere la vita come una ininterrotta avventura di cui, in fondo, non si curava.
Passò altro tempo, altri anni, io lasciai il paese mentre il vekkio Loris vi si stabiliva solidamente, forse perché era già un giovane, ma esperto rishi, un saggio che sapeva che non ha senso cercare, perché non c’è nulla da trovare nel samsara, il mondo dell’apparenza e del divenire, che non sia in noi stessi. Nei primi anni Novanta, quando vivevo part time a Bologna, mi arrivò, inaspettata, una notizia. Nel centro di psicologia olistica dove lavorava, e lavora tutt’ora, mia moglie, era arrivato “uno delle mie parti” per seguire un corso di massaggio rilassante. Oh, dissi, e come si chiamava? “Riccardo” disse mia moglie. Ci rimasi. Riccardo come? Mi disse il cognome, ed ebbi un tuffo al cuore. Era lui! Dissi che volevo vederlo, perché era un mio vecchio, caro amico. Lei disse che quella sera avrebbe finito alle otto, ma che “non era tanto a posto”. In che senso? chiesi, allarmato. “E’ stato piantato dalla ragazza, ed è entrato in una sorta di crisi depressiva. Lo vedrai”.
Alla sera andai al centro, e lo aspettai. Eccolo, usciva un po’ spaesato dal portone su Via Farini, si guardava intorno con aria incerta. Lo salutai. Mi guardò, e capii perché “non era tanto a posto”: il suo aspetto era trascurato, gli abiti sgualciti, e anche sporchi. I capelli erano scarmigliati, e poi era alquanto ingrassato. I suoi modi calmi erano ora dimessi, e quella tensione smasmodica che faceva capolino quando la madre gli comprava le camicie traspariva dalle mani scosse da un lieve ma persistente tremore, e da un tono di voce teso, forse ansioso. Non gli chiesi subito cosa gli era capitato, e cosa provava, perché sapevo che, in quello stato, non mi avrebbe risposto. Era accaduto varie volte con altri amici che avevano “strippato” malamente: non erano in grado di raccontare le loro disavventure, fuggivano, o si chiudevano in un silenzio ostile. Gli restai vicino, mangiammo qualcosa insieme, poi riuscii a fargli dire che aveva lasciato l’America ed era andato a vivere con questa ragazza di Ravenna, conosciuta a New York, che l’aveva abbandonato. Le pensava sempre, disse, in ogni momento della giornata e anche della notte, perché non dormiva mai, neanche un minuto. Poi si perse nel vuoto, non parlò più, non rispose alle domande, si chiuse in quel silenzio cupo che conoscevo bene. Lo accompagnai a una vecchia macchina parcheggiata in Via S. Mamolo e lo vidi partire bruscamente nella notte. Dove andava? A Ravenna? Al paese, nella casetta col cortiletto dove parlavamo di Bob Dylan? Non l’ho mai saputo. Non l’ho più rivisto. Mia moglie disse che il corso di massaggio rilassante era finito e lui non aveva rinnovato l’iscrizione.
Dunque l’avventura dylaniana era finita per sempre? Tutto era perduto? Pensai al senso di sconfitta che aleggiava su di noi fin dalla nascita, e ci ha accompagnato per tutta la vita. Noi eravamo una generazione nata all’insegna di una promessa non mantenuta, cresciuta in un tempo ambiguo, indefinito, e siamo vissuti con quel senso di perdita, come sospesi sull’orlo di un precipizio, sognando di agguantare la vita, e di viverla come la viveva Bob Dylan.
Così, come Jack Duluoz pensava di continuo a Cody Pomeray, e lo vedeva come un fantasma-bodysattva energico nella sua vita che rotolava giù per le Strade della Desolazione, io, quando vedo il libro di Anthony Scaduto, e lo vedo ogni sera perché è sul comodino, penso al mio antico amico Riccardo.
In un post che ho passato sul Blog qualche tempo fa ho citato un mitico testo degli anni Settanta, la biografia di Bob Dylan di Anthony Scaduto. Mentre ne scrivevo sono stato assalito da una valanga di ricordi. Non sul testo in sé, che ricordavo per sommi capi, ma ricordi di lettura. E’ stato, posso dirlo, uno dei libri più importanti della mia vita. E non solo della mia. Quel libro entrò nell’esistenza di noi ragazzi che vivevamo in un piccolo paese della pianura romagnola, e sconvolse il nostro fragile equilibrio. O meglio, accentuò lo squilibrio che già complicava le nostre vite irrequiete schiacciate in un territorio piatto e desolato, un mondo immobile e vuoto che ci opprimeva coi suoi ritmi sempre uguali. Così ho ripreso in mano quel volume un po’ ingiallito, pubblicato nel 1972 da Arcana per £ 2.200, e ripubblicato, tra l’altro, nel 2003 dallo stesso editore. E di nuovo, rileggendo qua e là, sono stato travolto da emozioni che credevo sepolte per sempre. Ho rivisto un cortiletto di cemento, una casa bassa, ho udito dei suoni, forse ho sentito degli odori. Ed emozioni tristi, come una malinconia mai risolta che tornava a serpeggiarmi sotto la pelle.
Eravamo in tre ad essere particolarmente coinvolti dalle nuove tendenze, dalle nuove speranze di libertà che, sotto la spinta del decennio precedente, non si erano ancora riconvertite in quella delusione rabbiosa che avrebbe condotto tanti noi verso strade di contestazione violenta, o di strisciante autodistruzione. Adoravamo Bob Dylan, e in questo libro leggevamo del suo paese natale, una cittadina del Minnesota dove tutto era già stabilito, dove i figli si apprestavano a continuare i mestieri dei padri, e “gli altri”, i giovani coi capelli lunghi, i giovani che volevano vivere, erano “i matti”, quelli delle città, i “finocchi”. Era il nostro paese, il nostro cimitero, e quel ragazzo che voleva cantare come Little Richard, che non stava mai fermo, che se ne fregava dell’opinione pubblica, era uno di noi. E quel suo muoversi frenetico, quell’inseguire a testa bassa un obiettivo a tutti i costi, la sua musica, era la rappresentazione del nostro desiderio, del nostro sogno di una vita diversa, fuori dal cimitero. Lui era noi, e faceva quello che noi avremmo voluto fare; che tentavamo di fare, coi nostri poveri mezzi.
Il vekkio Loris era affascinato soprattutto dal talento mimetico di Dylan, da quel suo nascondersi, dal mutare continuamente identità in un gioco di trasformismo che rivelava la volontà di rendersi invisibile in un mondo che ti teneva sempre gli occhi puntati addosso. Ne parlava di continuo, si identificava con quella giovane, guizzante anguilla che cambiava di continuo amici, senza esserlo davvero di nessuno, né dei ragazzi “perbene” né dei “greasers” motociclisti di cui sembrava fare parte. In realtà Dylan era tutti e nessuno, perché lui era la sua musica, la sua voglia di scrivere, di farsi strada, senza curarsi minimamente dei gusti del pubblico che lo fischiava quando si contorceva come un ossesso al pianoforte.
A Riccardo, e a me, piaceva il ritmo, quel suo essere una sorta di Dean Moriatry-grande artista, uno che si buttava nella vita come un guerriero, incurante dei rischi e dei nemici. Uno che abbatteva le barriere, che guardava in faccia l’infinito. Riccardo abitava in una casetta sulla statale n. 16, la route Adriatica, una vera strada americana, una freeway che correva lungo la costa e puntava verso terre lontane. Andavo a casa sua e lo trovavo spesso seduto per terra nel cortiletto di cemento che circondava la sua casetta, un angolo tranquillo e inondato dal sole del pomeriggio. Non era molto alto Riccardo; era uno forte, parlava a voce bassa, aveva modi tranquilli, sembrava un tipo posato. Oggi direi che assomigliava a Baricco, stesso personaggio piacente, accattivante, uno che ti stimola le confidenze, uno che lo cercheresti spesso perché con lui sei a tuo agio sempre, perché non è aggressivo, non ti fa sentire sotto esame, non ti giudica. Commentavamo l’ultimo capitolo del libro, e io dicevo: “la sua vita e la sua forza fanno sembrare così vuota, così inutile la nostra vita”. Lui rideva sotto i baffi, annuiva. Poi usciva sua madre, una donna svelta, sempre attiva, gli diceva delle cose e lui si innervosiva. Una volta gli mostrò una camicia appena comprata e lui digrignò i denti, urlò a freddo, con voce strozzata: “non la voglio!” La madre ci rimase malissimo, soppesò la camicia con mani incerte, rientrò in casa sconsolata. E quando io gli chiesi perché aveva reagito in quel modo, lui strinse i pugni, incassò la testa nelle spalle e di nuovo gridò a freddo, a denti stretti: “non le voglio le sue camicie!”
Passò il tempo, passarono gli anni, e Riccardo partì. Era approdato in America, dicevano. Ogni tanto gli pensavo, laggiù nelle metropoli dylaniane, mentre io, mentre noi al paese cercavamo di sbarcare il lunario fondando una fanzine, poi una radio. Lo rividi alla fine degli anni Settanta, in uno zuccherificio dove lavoravamo l’estate. Era in gran forma, calmo, tranquillo, magnetico. Gli chiesi di raccontarmi un po’ della sua vita, dove abitava? A New York, disse. New York, il Greenwich Village, dove Bob Dylan scopriva il mondo, e lo conquistava! Viveva, disse, in casa della fidanzata, l’ultima di una lunga serie. Era proprio vero, già prima di partire cambiava continuamente ragazza. Allora gli chiesi come mai passava così facilmente da una ragazza all’altra, in Italia come in America. “Non lo so mica” disse, “loro mi invitano fuori, usciamo, poi andiamo a casa e non faccio in tempo a chiudere la porta che già mi slacciano i pantaloni”. Non lo disse per vantarsi, ma con aria pensierosa, come se questo fenomeno lo stupisse, o addirittura lo inquietasse. Io lo guardavo, lo ascoltavo, e vedevo in lui una somiglianza con Bob Dylan, forse non sul piano fisico, perché era più robusto, più rotondetto (come Baricco), ma per quella sorta di disinteresse verso il mondo e le sue convenzioni, quel suo vivere la vita come una ininterrotta avventura di cui, in fondo, non si curava.
Passò altro tempo, altri anni, io lasciai il paese mentre il vekkio Loris vi si stabiliva solidamente, forse perché era già un giovane, ma esperto rishi, un saggio che sapeva che non ha senso cercare, perché non c’è nulla da trovare nel samsara, il mondo dell’apparenza e del divenire, che non sia in noi stessi. Nei primi anni Novanta, quando vivevo part time a Bologna, mi arrivò, inaspettata, una notizia. Nel centro di psicologia olistica dove lavorava, e lavora tutt’ora, mia moglie, era arrivato “uno delle mie parti” per seguire un corso di massaggio rilassante. Oh, dissi, e come si chiamava? “Riccardo” disse mia moglie. Ci rimasi. Riccardo come? Mi disse il cognome, ed ebbi un tuffo al cuore. Era lui! Dissi che volevo vederlo, perché era un mio vecchio, caro amico. Lei disse che quella sera avrebbe finito alle otto, ma che “non era tanto a posto”. In che senso? chiesi, allarmato. “E’ stato piantato dalla ragazza, ed è entrato in una sorta di crisi depressiva. Lo vedrai”.
Alla sera andai al centro, e lo aspettai. Eccolo, usciva un po’ spaesato dal portone su Via Farini, si guardava intorno con aria incerta. Lo salutai. Mi guardò, e capii perché “non era tanto a posto”: il suo aspetto era trascurato, gli abiti sgualciti, e anche sporchi. I capelli erano scarmigliati, e poi era alquanto ingrassato. I suoi modi calmi erano ora dimessi, e quella tensione smasmodica che faceva capolino quando la madre gli comprava le camicie traspariva dalle mani scosse da un lieve ma persistente tremore, e da un tono di voce teso, forse ansioso. Non gli chiesi subito cosa gli era capitato, e cosa provava, perché sapevo che, in quello stato, non mi avrebbe risposto. Era accaduto varie volte con altri amici che avevano “strippato” malamente: non erano in grado di raccontare le loro disavventure, fuggivano, o si chiudevano in un silenzio ostile. Gli restai vicino, mangiammo qualcosa insieme, poi riuscii a fargli dire che aveva lasciato l’America ed era andato a vivere con questa ragazza di Ravenna, conosciuta a New York, che l’aveva abbandonato. Le pensava sempre, disse, in ogni momento della giornata e anche della notte, perché non dormiva mai, neanche un minuto. Poi si perse nel vuoto, non parlò più, non rispose alle domande, si chiuse in quel silenzio cupo che conoscevo bene. Lo accompagnai a una vecchia macchina parcheggiata in Via S. Mamolo e lo vidi partire bruscamente nella notte. Dove andava? A Ravenna? Al paese, nella casetta col cortiletto dove parlavamo di Bob Dylan? Non l’ho mai saputo. Non l’ho più rivisto. Mia moglie disse che il corso di massaggio rilassante era finito e lui non aveva rinnovato l’iscrizione.
Dunque l’avventura dylaniana era finita per sempre? Tutto era perduto? Pensai al senso di sconfitta che aleggiava su di noi fin dalla nascita, e ci ha accompagnato per tutta la vita. Noi eravamo una generazione nata all’insegna di una promessa non mantenuta, cresciuta in un tempo ambiguo, indefinito, e siamo vissuti con quel senso di perdita, come sospesi sull’orlo di un precipizio, sognando di agguantare la vita, e di viverla come la viveva Bob Dylan.
Così, come Jack Duluoz pensava di continuo a Cody Pomeray, e lo vedeva come un fantasma-bodysattva energico nella sua vita che rotolava giù per le Strade della Desolazione, io, quando vedo il libro di Anthony Scaduto, e lo vedo ogni sera perché è sul comodino, penso al mio antico amico Riccardo.
mercoledì, dicembre 07, 2005
Animacce nere
I caporioni di An sono delle vere e proprie superstar televisive. Hanno elaborato degli efficacissimi codici di comportamento e di linguaggio, coi quali vendono la propria immagine di politici seri, attendibili, di statisti con gli attributi, di uomini di rispetto. Anche la voce è stata modulata con attenzione, sembra sgorgare da un torace fiero e profondo, la vera voce di un uomo di governo che ha a cuore l’interesse pubblico e non si abbassa alla cura del proprio orticello. Però ogni tanto qualche imprevisto fa emergere la vera anima, quella nera, quella del "me ne frego", e c’è da restare allibiti.
E’ accaduto ieri sera a Ballarò col cosiddetto onorevole Alemanno, uno dei "colonnelli". L’argomento era la legge 194, e la "commissione d’inchiesta" varata dal Parlamento. Rosy Bindi, che interveniva col consueto fervore alla discussione, ha sciorinato una serie di dati che dimostravano come questa commissione sia totalmente inutile, poiché in Italia la situazione degli aborti è ultramonitorata, e l’informazione, nel nostro paese, è una delle più complete del mondo. E’ una commissione che ha come unico scopo quello di lavorare sotterraneamente sulla 194, in vista delle elezioni. Ha anche detto che lei, cattolica e antiabortista, ha svolto il suo compito di Ministro della Sanità cercando di applicare la legge con la massima correttezza, perché è una legge dello Stato e come tale va considerata, indipendentemente dalle opinioni personali. A questo punto il cosiddetto onorevole Alemanno ha detto che ha ascoltato "con rispetto" le parole della Bindi, e che la capisce, capisce cioè la difficoltà di una persona che si è trovata a operare in un ambiente con idee opposte alle sue. Allora la Bindi è diventata rossa come un peperone, e ha detto, col solito fervore, che Alemanno dovrebbe farsi i cavoli suoi, pensare alle sue difficoltà col caporione n. 1, e non interessarsi a lei. E ha aggiunto: "guarda, Alemanno, tu non mi fai paura!". E il cosiddetto onorevole, forse per questa frase, ha perso le staffe. Ha iniziato a gridare con voce stridula finché gli è venuta una bava alla bocca abbastanza impressionante (e la regia ha distolto le immagini dalla sua faccia); non solo, agitava il braccio destro, lo "stendeva" davanti a sé in un inequivocabile, inconscio saluto romano. Mi sono venute in mente le foto pubblicate dall’Espresso dove il cosiddetto onorevole, in giovane età, arringava i camerati che salutavano col braccio teso. Ha quindi ritrovato la sua "giovinezza", la sua vecchia, genuina anima nera, così prudentemente sepolta sotto la cenere del politico televisivo occidentale autorevole cristiano di razza bianca.
I caporioni di An sono delle vere e proprie superstar televisive. Hanno elaborato degli efficacissimi codici di comportamento e di linguaggio, coi quali vendono la propria immagine di politici seri, attendibili, di statisti con gli attributi, di uomini di rispetto. Anche la voce è stata modulata con attenzione, sembra sgorgare da un torace fiero e profondo, la vera voce di un uomo di governo che ha a cuore l’interesse pubblico e non si abbassa alla cura del proprio orticello. Però ogni tanto qualche imprevisto fa emergere la vera anima, quella nera, quella del "me ne frego", e c’è da restare allibiti.
E’ accaduto ieri sera a Ballarò col cosiddetto onorevole Alemanno, uno dei "colonnelli". L’argomento era la legge 194, e la "commissione d’inchiesta" varata dal Parlamento. Rosy Bindi, che interveniva col consueto fervore alla discussione, ha sciorinato una serie di dati che dimostravano come questa commissione sia totalmente inutile, poiché in Italia la situazione degli aborti è ultramonitorata, e l’informazione, nel nostro paese, è una delle più complete del mondo. E’ una commissione che ha come unico scopo quello di lavorare sotterraneamente sulla 194, in vista delle elezioni. Ha anche detto che lei, cattolica e antiabortista, ha svolto il suo compito di Ministro della Sanità cercando di applicare la legge con la massima correttezza, perché è una legge dello Stato e come tale va considerata, indipendentemente dalle opinioni personali. A questo punto il cosiddetto onorevole Alemanno ha detto che ha ascoltato "con rispetto" le parole della Bindi, e che la capisce, capisce cioè la difficoltà di una persona che si è trovata a operare in un ambiente con idee opposte alle sue. Allora la Bindi è diventata rossa come un peperone, e ha detto, col solito fervore, che Alemanno dovrebbe farsi i cavoli suoi, pensare alle sue difficoltà col caporione n. 1, e non interessarsi a lei. E ha aggiunto: "guarda, Alemanno, tu non mi fai paura!". E il cosiddetto onorevole, forse per questa frase, ha perso le staffe. Ha iniziato a gridare con voce stridula finché gli è venuta una bava alla bocca abbastanza impressionante (e la regia ha distolto le immagini dalla sua faccia); non solo, agitava il braccio destro, lo "stendeva" davanti a sé in un inequivocabile, inconscio saluto romano. Mi sono venute in mente le foto pubblicate dall’Espresso dove il cosiddetto onorevole, in giovane età, arringava i camerati che salutavano col braccio teso. Ha quindi ritrovato la sua "giovinezza", la sua vecchia, genuina anima nera, così prudentemente sepolta sotto la cenere del politico televisivo occidentale autorevole cristiano di razza bianca.
venerdì, dicembre 02, 2005
Regali di Natale
Con l’avvicinarsi delle feste arrivano i gadget, gli oggetti da regalo, e i libri illustrati, da impacchettare e da mettere sotto l’albero. In questi giorni ne ho notato due che meritano di essere segnalati anche se, forse, non sono proprio indicati come regalo per la mamma, o per la zia. Sono due libri fotografici, scritti in italiano, finalmente, perché fino a ieri sembrava inevitabile che queste edizioni fossero scritte sempre in inglese, o in tedesco.
Il primo è una raccolta di foto del vekkio voyeur Helmut Newton (Mondadori, € 35), scattate durante un ventennio di collaborazioni con Playboy. Su Newton sono stati scritti fiumi in piena di parole e stampate migliaia di pagine. E’ stato, e lo è ancora, il tormentone della fotografia glamour-erotica per una trentina d’anni. Ha fatto ammalare la fotografia di una sindrome da cui non è mai guarita, la sindrome di Newton, i cui sintomi sono i ritratti di donne con richiami dichiarati alla pornografia, pose innaturali, estreme, provocatorie, anche se è una provocazione rivolta espressamente alle “pruderie” borghesi, una sfida fine a se stessa, gratuita, al pudore popolare: famosi i contrasti, che lui inseguiva con puntiglio, di alcuni servizi realizzati in Costa Azzurra: donne supertruccate, superchic, eroticissime, ritratte accanto a bagnanti vecchi e brutti, con la pancia, le gambe storte, le rughe e la pelata. Lui era così, voleva stupire, eccitare con linguaggi “forti”, peccaminosi. Molte delle foto di questo libro, alcune famosissime, rientrano in pieno in questo stile. Le donne sembrano manichini erotici, con lo sguardo perso nel vuoto, oppure guardano in macchina con aria di sfida, anche se è sempre una sfida fredda, gelida, e la distanza che le separa da noi è enorme. Gli va dato atto che non ha mai fatto della retorica facile, non si è mai nascosto dietro dichiarazioni diplomatiche. Ha sempre detto chiaro che lui era un voyeur, che amava la pornografia, che se ne sbatteva delle critiche, delle accuse di essere un fascista (in immagini, ovviamente), e che andassero tutti a farsi fottere. Era antipatico, per certi aspetti odioso, criticabile, ma sincero, e al confronto gli epigoni di oggi, tutti quei fotografi fatti con lo stampo dei calendari, sono penosi nel loro conformismo.
L’altro libro è di Robert Mapplethorpe (Artificio Skira, € 69), un altro su cui sono stati versati torrenti di inchiostro. La sua storia, credo, è arcinota: diventò famoso negli anni Settanta con servizi-shock realizzati nei locali macho gay di New York, dove il gioco erotico alla moda era il fist fucking , cioè l’introduzione nell’ano di una mano con tutto l’avambraccio. Erano foto pazzesche, incredibili, un pugno nello stomaco. Poi ha realizzato moltissimi ritratti di artisti newyorkesi, compresi alcuni, mitici, di Patti Smith, di Lisa Lyon, di Isabella Rossellini. Questo librone raccoglie un compendio abbastanza esatto della sua produzione: ritratti, i grandi corpi nudi illuminati da quella luce purissima che lui stesso aveva inventato, che utilizzò nelle famose immagini in bianco e nero dei fiori e dei nudi statuari di uomini col sesso enorme, coi muscoli in tensione. Immagini pittoriche, curate in maniera maniacale nelle ombre, nei grigi, nelle sfumature. E caste, pulite, oneste, come quelle di Newton erano false, eccessive e disoneste. Erano due fotografi dagli stili di lavoro e di vita opposti: Newton amava mostrarsi sporcaccione, faceva sedere le modelle sulle sue ginocchia coi pantaloncini corti maliziosamente aperti sull’ombra del pube; in realtà è sempre stato un marito fedele, e ai servizi era sempre presente la moglie, pure lei fotografa. Mapplethorpe invece scattava immagini artistiche, elevate, quasi angeliche; nella vita invece era dissoluto, disperato, e i suoi eccessi l’hanno condotto nella tomba.
A questo punto, dopo quanto ho scritto, alle seguenti domande: Helmut Newton è stato un grande fotografo? risponderei sì, lo è stato, nel bene e nel male, perché le sue foto hanno colpito, hanno sfondato e distrutto, hanno segnato un’epoca e nessuno, forse, può permettersi di non fare i conti lui; e Mapplethorpe è stato un grande fotografo? No. Per quanto bravo, per quanto meticoloso e serio, le sue immagini hanno un limite di conformismo, di mancanza di coraggio, forse di fantasia. Ha inseguito l’obiettivo irraggiungibile, il sogno direi, di fare della fotografia una forma di pittura, mentre è altra cosa, è alto artigianato, è un racconto della realtà che deve fare i conti coi propri limiti, perché non può prescindere dagli elementi materiali della realtà stessa, mentre la pittura ne è esente.
Questo ovviamente è il mio personalissimo, discutibilissimo, parere.
Con l’avvicinarsi delle feste arrivano i gadget, gli oggetti da regalo, e i libri illustrati, da impacchettare e da mettere sotto l’albero. In questi giorni ne ho notato due che meritano di essere segnalati anche se, forse, non sono proprio indicati come regalo per la mamma, o per la zia. Sono due libri fotografici, scritti in italiano, finalmente, perché fino a ieri sembrava inevitabile che queste edizioni fossero scritte sempre in inglese, o in tedesco.
Il primo è una raccolta di foto del vekkio voyeur Helmut Newton (Mondadori, € 35), scattate durante un ventennio di collaborazioni con Playboy. Su Newton sono stati scritti fiumi in piena di parole e stampate migliaia di pagine. E’ stato, e lo è ancora, il tormentone della fotografia glamour-erotica per una trentina d’anni. Ha fatto ammalare la fotografia di una sindrome da cui non è mai guarita, la sindrome di Newton, i cui sintomi sono i ritratti di donne con richiami dichiarati alla pornografia, pose innaturali, estreme, provocatorie, anche se è una provocazione rivolta espressamente alle “pruderie” borghesi, una sfida fine a se stessa, gratuita, al pudore popolare: famosi i contrasti, che lui inseguiva con puntiglio, di alcuni servizi realizzati in Costa Azzurra: donne supertruccate, superchic, eroticissime, ritratte accanto a bagnanti vecchi e brutti, con la pancia, le gambe storte, le rughe e la pelata. Lui era così, voleva stupire, eccitare con linguaggi “forti”, peccaminosi. Molte delle foto di questo libro, alcune famosissime, rientrano in pieno in questo stile. Le donne sembrano manichini erotici, con lo sguardo perso nel vuoto, oppure guardano in macchina con aria di sfida, anche se è sempre una sfida fredda, gelida, e la distanza che le separa da noi è enorme. Gli va dato atto che non ha mai fatto della retorica facile, non si è mai nascosto dietro dichiarazioni diplomatiche. Ha sempre detto chiaro che lui era un voyeur, che amava la pornografia, che se ne sbatteva delle critiche, delle accuse di essere un fascista (in immagini, ovviamente), e che andassero tutti a farsi fottere. Era antipatico, per certi aspetti odioso, criticabile, ma sincero, e al confronto gli epigoni di oggi, tutti quei fotografi fatti con lo stampo dei calendari, sono penosi nel loro conformismo.
L’altro libro è di Robert Mapplethorpe (Artificio Skira, € 69), un altro su cui sono stati versati torrenti di inchiostro. La sua storia, credo, è arcinota: diventò famoso negli anni Settanta con servizi-shock realizzati nei locali macho gay di New York, dove il gioco erotico alla moda era il fist fucking , cioè l’introduzione nell’ano di una mano con tutto l’avambraccio. Erano foto pazzesche, incredibili, un pugno nello stomaco. Poi ha realizzato moltissimi ritratti di artisti newyorkesi, compresi alcuni, mitici, di Patti Smith, di Lisa Lyon, di Isabella Rossellini. Questo librone raccoglie un compendio abbastanza esatto della sua produzione: ritratti, i grandi corpi nudi illuminati da quella luce purissima che lui stesso aveva inventato, che utilizzò nelle famose immagini in bianco e nero dei fiori e dei nudi statuari di uomini col sesso enorme, coi muscoli in tensione. Immagini pittoriche, curate in maniera maniacale nelle ombre, nei grigi, nelle sfumature. E caste, pulite, oneste, come quelle di Newton erano false, eccessive e disoneste. Erano due fotografi dagli stili di lavoro e di vita opposti: Newton amava mostrarsi sporcaccione, faceva sedere le modelle sulle sue ginocchia coi pantaloncini corti maliziosamente aperti sull’ombra del pube; in realtà è sempre stato un marito fedele, e ai servizi era sempre presente la moglie, pure lei fotografa. Mapplethorpe invece scattava immagini artistiche, elevate, quasi angeliche; nella vita invece era dissoluto, disperato, e i suoi eccessi l’hanno condotto nella tomba.
A questo punto, dopo quanto ho scritto, alle seguenti domande: Helmut Newton è stato un grande fotografo? risponderei sì, lo è stato, nel bene e nel male, perché le sue foto hanno colpito, hanno sfondato e distrutto, hanno segnato un’epoca e nessuno, forse, può permettersi di non fare i conti lui; e Mapplethorpe è stato un grande fotografo? No. Per quanto bravo, per quanto meticoloso e serio, le sue immagini hanno un limite di conformismo, di mancanza di coraggio, forse di fantasia. Ha inseguito l’obiettivo irraggiungibile, il sogno direi, di fare della fotografia una forma di pittura, mentre è altra cosa, è alto artigianato, è un racconto della realtà che deve fare i conti coi propri limiti, perché non può prescindere dagli elementi materiali della realtà stessa, mentre la pittura ne è esente.
Questo ovviamente è il mio personalissimo, discutibilissimo, parere.
mercoledì, novembre 30, 2005
Diario
Stamattina ero nella sala d’aspetto di un ospedale, in attesa da due ore di una visita specialistica. Intorno a me, una decina di persone, tutti, come me, con aria svagata, distratta, rassegnata. Medici e infermieri ogni tanto transitavano con passo di corsa e coi camici svolazzanti. Il professore, di circa sessant’anni, tarchiato, percorreva il corridoio con passo meno svelto, talvolta seguito da una giovane dottoressa coi capelli al vento e il camice svolazzante; parlavano animatamente di pianificazioni, di rapporti con altri reparti, forse di soldi. Ormai i prof che dirigono i reparti sono dei managers, più che dei luminari della medicina.
Mi alzavo, andavo alla finestra, tornavo a sedere, sospiravo. Così è. Il tempo è lentissimo nelle sale d’attesa, i minuti sono almeno di 100 secondi.
La visita prevedeva un prelievo di sangue e le “urine 24 ore”, cioè un campione della raccolta delle urine che escono da noi in 24 ore, che vanno conservate in un apposito bidone graduato (io sono sempre sopra i 4 litri). A un certo punto è arrivato un signore anziano con una tanichetta da cinque litri che conteneva una quantità minima di liquido scuro, poco più di un bicchiere di roba. E’ arrivato un infermiere, ha indicato la tanica, ha detto “e quella?” E l’uomo anziano ha detto “sono le urine”. E l’infermiere ha detto “delle 24 ore? Un campione?” E l’uomo anziano ha detto “no-no, è tutto qua”. L’infermiere ha fatto una faccia stupita, e anch’io. L’infermiere ha detto “ma co-ome, solo quella in 24 ore?” L’uomo anziano ha allargato le braccia, ha detto “cosa devo fare, delle volte ne viene fuori un subisso, questa volta solo questa roba qua”. Davvero impressionante. Com’è possibile che un uomo urini così poco?
Poi ho letto l’intervista di Fedele Confalonieri su Repubblica. Terrificante. Un testo da incubo. Questa è gente cattiva nel profondo dell’animo, ammesso che il buco nero che hanno dentro, una caverna maleodorante affollata di mostri, possa definirsi “animo”. Non mi ha colpito particolarmente la difesa del suo padrone Berlusconi, quella è robetta, sono le piccole, avvilenti miserie dell’italietta dove i padroncini da operetta curano i propri interessi privati; certo, usano e rovinano ciò che resta delle istituzioni, già violentate e calpestate da decenni di malgoverno, ma è cosa da poco in confronto a frasi come: “Li voglio vedere presentare a Bertinotti, a Diliberto, ai Verdi una riforma del paese in senso liberista. Penso alle pensioni, al lavoro, al Tfr, al taglio delle tasse (sic), alle infrastrutture. Guardi cosa sta succedendo con la Tav, dove c’è una opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese”.
Mi è venuta l’angoscia. Opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese. Questa è gente cattiva, è gente che stermina la vita, che oscura la luce del sole. L’Emilia Romagna è sventrata dai cantieri, ed ora devono fare fuori intere montagne. Sono stati spesi capitali enormi, e altri ne spenderanno, coi quali si potrebbero ristrutturare le linee esistenti, o sfamare interi popoli, e tutto per far guadagnare venti minuti, mezz’ora ai managers. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Giorgio Bocca, in uno dei suoi indignatissimi corsivi. E’ gente pericolosissima, una minaccia mortale a tutte le forme di vita del pianeta. La riforma liberista. Gli artigli sulla sanità, con le compagnie di assicurazioni che si attaccano ad ogni cavillo legale per non pagare le cure ai malati di cancro, come in America. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Tiziano Terzani in uno dei suoi libri, lui che l’America la conosceva bene. E le pensioni. E il mercato del lavoro.
Mi alzo in preda all’ansia, torno alla finestra. Vedo un mondo sterile, dove la vita è estirpata, dove il sole non riesce più a perforare la cortina di fuliggine che avvolge il pianeta. E loro, i demoni, le creature del Buio che hanno provocato tutto questo scorazzano per la terra brulla massacrando gli ultimi umani ancora in vita. Quegli umani che li hanno lasciati agire indisturbati, che li hanno addirittura mandati al potere.
Chissà dove andrebbe a parare la mia fantasia febbricitante, già eccitata da tre ore di attesa. Per fortuna una voce di donna pronuncia il mio cognome, e mi scuoto. E’ arrivato, finalmente, il mio turno.
Stamattina ero nella sala d’aspetto di un ospedale, in attesa da due ore di una visita specialistica. Intorno a me, una decina di persone, tutti, come me, con aria svagata, distratta, rassegnata. Medici e infermieri ogni tanto transitavano con passo di corsa e coi camici svolazzanti. Il professore, di circa sessant’anni, tarchiato, percorreva il corridoio con passo meno svelto, talvolta seguito da una giovane dottoressa coi capelli al vento e il camice svolazzante; parlavano animatamente di pianificazioni, di rapporti con altri reparti, forse di soldi. Ormai i prof che dirigono i reparti sono dei managers, più che dei luminari della medicina.
Mi alzavo, andavo alla finestra, tornavo a sedere, sospiravo. Così è. Il tempo è lentissimo nelle sale d’attesa, i minuti sono almeno di 100 secondi.
La visita prevedeva un prelievo di sangue e le “urine 24 ore”, cioè un campione della raccolta delle urine che escono da noi in 24 ore, che vanno conservate in un apposito bidone graduato (io sono sempre sopra i 4 litri). A un certo punto è arrivato un signore anziano con una tanichetta da cinque litri che conteneva una quantità minima di liquido scuro, poco più di un bicchiere di roba. E’ arrivato un infermiere, ha indicato la tanica, ha detto “e quella?” E l’uomo anziano ha detto “sono le urine”. E l’infermiere ha detto “delle 24 ore? Un campione?” E l’uomo anziano ha detto “no-no, è tutto qua”. L’infermiere ha fatto una faccia stupita, e anch’io. L’infermiere ha detto “ma co-ome, solo quella in 24 ore?” L’uomo anziano ha allargato le braccia, ha detto “cosa devo fare, delle volte ne viene fuori un subisso, questa volta solo questa roba qua”. Davvero impressionante. Com’è possibile che un uomo urini così poco?
Poi ho letto l’intervista di Fedele Confalonieri su Repubblica. Terrificante. Un testo da incubo. Questa è gente cattiva nel profondo dell’animo, ammesso che il buco nero che hanno dentro, una caverna maleodorante affollata di mostri, possa definirsi “animo”. Non mi ha colpito particolarmente la difesa del suo padrone Berlusconi, quella è robetta, sono le piccole, avvilenti miserie dell’italietta dove i padroncini da operetta curano i propri interessi privati; certo, usano e rovinano ciò che resta delle istituzioni, già violentate e calpestate da decenni di malgoverno, ma è cosa da poco in confronto a frasi come: “Li voglio vedere presentare a Bertinotti, a Diliberto, ai Verdi una riforma del paese in senso liberista. Penso alle pensioni, al lavoro, al Tfr, al taglio delle tasse (sic), alle infrastrutture. Guardi cosa sta succedendo con la Tav, dove c’è una opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese”.
Mi è venuta l’angoscia. Opposizione retriva a un’opera fondamentale per il progresso del paese. Questa è gente cattiva, è gente che stermina la vita, che oscura la luce del sole. L’Emilia Romagna è sventrata dai cantieri, ed ora devono fare fuori intere montagne. Sono stati spesi capitali enormi, e altri ne spenderanno, coi quali si potrebbero ristrutturare le linee esistenti, o sfamare interi popoli, e tutto per far guadagnare venti minuti, mezz’ora ai managers. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Giorgio Bocca, in uno dei suoi indignatissimi corsivi. E’ gente pericolosissima, una minaccia mortale a tutte le forme di vita del pianeta. La riforma liberista. Gli artigli sulla sanità, con le compagnie di assicurazioni che si attaccano ad ogni cavillo legale per non pagare le cure ai malati di cancro, come in America. Non lo dico solo io o qualche no-global, l’ha scritto Tiziano Terzani in uno dei suoi libri, lui che l’America la conosceva bene. E le pensioni. E il mercato del lavoro.
Mi alzo in preda all’ansia, torno alla finestra. Vedo un mondo sterile, dove la vita è estirpata, dove il sole non riesce più a perforare la cortina di fuliggine che avvolge il pianeta. E loro, i demoni, le creature del Buio che hanno provocato tutto questo scorazzano per la terra brulla massacrando gli ultimi umani ancora in vita. Quegli umani che li hanno lasciati agire indisturbati, che li hanno addirittura mandati al potere.
Chissà dove andrebbe a parare la mia fantasia febbricitante, già eccitata da tre ore di attesa. Per fortuna una voce di donna pronuncia il mio cognome, e mi scuoto. E’ arrivato, finalmente, il mio turno.
sabato, novembre 26, 2005
Ancora sul giornalismo all’italiana
Se c’è una cosa che mi infastidisce è lo svolazzo mondano, l’elzeviro arzigogolato, quel dare un colpo al cerchio e uno alla botte, quel “più o meno”, quel “adesso lo scrivo, tanto si bevono tutto ‘sti coglioni di lettori’”. I nostri giornalisti eccellono i quest’arte di arrangiarsi, sono dei maestri. Tempo fa, per esempio, Mario Luzzatto Fegiz attribuì, sul Corriere, un pezzo di Jimi Hendrix ai Cream. Mi è arrivato un colpo al cuore: va bene sbagliare, l’errore è intorno a noi, è in noi; non dice forse Krishna nella Baghavad Gita:
“Tutto viene da me, la memoria, la conoscenza e l’errore”;
e qualcuno forse dirà: insomma, esageri, tutti sbagliano. E’ vero, ma come fa un giornalista che scrive di musica da oltre trent’anni a prendere uno svarione del genere? E’ come attribuire la Nona Sinfonia a Mozart. E poi è recidivo: quando vivevo a Milano leggevo sempre il Corriere, c’era la new wawe, e ricordo il suo pressapochismo nei titoli, nelle date, nei riferimenti.
Il fatto è che ci provano, quello che non sanno lo inventano, oppure lo copiano. Non si prendono la briga di verificare, di consultare i testi. Troppa fatica, troppo tempo. Non c’è la tradizione, questa è roba per gli anglosassoni, non per gli italiani. I nostri grandi quotidiani non hanno mai avuto, come ci ha invece raccontato Jay Mc Irney in quel romanzo americano anni Ottanta che era Le mille luci di New York, un “ufficio analisi dei fatti”, che aveva (parlo al passato perché, con l’attuale involuzione della stampa americana, non so se queste istituzioni siano ancora attive) come unico compito quello di passare al microscopio ogni articolo per verificare con puntiglio le date, le citazioni, i nomi.
L’ultimo esempio di questo artigianato giornalistico all’italiana l’ho trovato su Repubblica qualche giorno fa, in un articolo firmato Ernesto Assante. Costui è persona rispettabile, ama veramente la musica, e, benché, per cause di forza maggiore debba occuparsi di fenomeni deteriori e deprimenti come Laura Pausini o Eros Ramazzotti, o il cantautore-horror Biagio Antonacci, è uno serio. Però l’altro giorno ha scritto:
“C’è stato un Dylan prima di Bob Dylan. E non era un cantautore. Il giovane Robert Zimmerman, quando era uno studente in un college del nativo Minnesota, voleva essere un poeta e si esercitava scrivendo piccoli poemi”.
Non è vero. Oppure, per essere un po’ meno intransigente, diciamo che è altissimamente impreciso. Troviamo Bob nel 1957, al liceo, totalmente invasato dalla musica di Bill Haley e Little Richard. Voleva suonare come loro, essere come loro. Fondò addirittura un gruppo per tentare di suonare alle feste universitarie, ma quando i selezionatori vedevano questo ragazzo che si contorceva e si dimenava e urlava come un pazzo si spaventavano. E la fidanzata Echo Hellstrom racconta che nel 1958 “Bob aveva già stabilito che il suo futuro era nella musica”. Nel 1960 poi lo troviamo a Minneapolis che suona in un locale musica folk già col nome di Bob Dylan. E’ quindi una balla, uno svolazzo mondano scrivere che Bob non sapeva di essere un musicista, che doveva ancora scoprire la sua strada. Il fatto è che Assante doveva commentare la notizia che questi poemetti sono andati all’asta, così deve avere pensato: “dai, scrivo che prima di cantare era un poeta, magari è vero”.
Già, chi se ne accorge in fondo? Io, che ho letto la mitica biografia di Anthony Scaduto, uno dei migliori testi biografici mai scritti (è stato recentemente ripubblicato e lo consiglio a tutti gli amanti di Dylan).
Negli Usa di Mc Irney l’analista dei fatti sarebbe immediatamente intervenuto, qua da noi si passa oltre, e si accende la TV.
Se c’è una cosa che mi infastidisce è lo svolazzo mondano, l’elzeviro arzigogolato, quel dare un colpo al cerchio e uno alla botte, quel “più o meno”, quel “adesso lo scrivo, tanto si bevono tutto ‘sti coglioni di lettori’”. I nostri giornalisti eccellono i quest’arte di arrangiarsi, sono dei maestri. Tempo fa, per esempio, Mario Luzzatto Fegiz attribuì, sul Corriere, un pezzo di Jimi Hendrix ai Cream. Mi è arrivato un colpo al cuore: va bene sbagliare, l’errore è intorno a noi, è in noi; non dice forse Krishna nella Baghavad Gita:
“Tutto viene da me, la memoria, la conoscenza e l’errore”;
e qualcuno forse dirà: insomma, esageri, tutti sbagliano. E’ vero, ma come fa un giornalista che scrive di musica da oltre trent’anni a prendere uno svarione del genere? E’ come attribuire la Nona Sinfonia a Mozart. E poi è recidivo: quando vivevo a Milano leggevo sempre il Corriere, c’era la new wawe, e ricordo il suo pressapochismo nei titoli, nelle date, nei riferimenti.
Il fatto è che ci provano, quello che non sanno lo inventano, oppure lo copiano. Non si prendono la briga di verificare, di consultare i testi. Troppa fatica, troppo tempo. Non c’è la tradizione, questa è roba per gli anglosassoni, non per gli italiani. I nostri grandi quotidiani non hanno mai avuto, come ci ha invece raccontato Jay Mc Irney in quel romanzo americano anni Ottanta che era Le mille luci di New York, un “ufficio analisi dei fatti”, che aveva (parlo al passato perché, con l’attuale involuzione della stampa americana, non so se queste istituzioni siano ancora attive) come unico compito quello di passare al microscopio ogni articolo per verificare con puntiglio le date, le citazioni, i nomi.
L’ultimo esempio di questo artigianato giornalistico all’italiana l’ho trovato su Repubblica qualche giorno fa, in un articolo firmato Ernesto Assante. Costui è persona rispettabile, ama veramente la musica, e, benché, per cause di forza maggiore debba occuparsi di fenomeni deteriori e deprimenti come Laura Pausini o Eros Ramazzotti, o il cantautore-horror Biagio Antonacci, è uno serio. Però l’altro giorno ha scritto:
“C’è stato un Dylan prima di Bob Dylan. E non era un cantautore. Il giovane Robert Zimmerman, quando era uno studente in un college del nativo Minnesota, voleva essere un poeta e si esercitava scrivendo piccoli poemi”.
Non è vero. Oppure, per essere un po’ meno intransigente, diciamo che è altissimamente impreciso. Troviamo Bob nel 1957, al liceo, totalmente invasato dalla musica di Bill Haley e Little Richard. Voleva suonare come loro, essere come loro. Fondò addirittura un gruppo per tentare di suonare alle feste universitarie, ma quando i selezionatori vedevano questo ragazzo che si contorceva e si dimenava e urlava come un pazzo si spaventavano. E la fidanzata Echo Hellstrom racconta che nel 1958 “Bob aveva già stabilito che il suo futuro era nella musica”. Nel 1960 poi lo troviamo a Minneapolis che suona in un locale musica folk già col nome di Bob Dylan. E’ quindi una balla, uno svolazzo mondano scrivere che Bob non sapeva di essere un musicista, che doveva ancora scoprire la sua strada. Il fatto è che Assante doveva commentare la notizia che questi poemetti sono andati all’asta, così deve avere pensato: “dai, scrivo che prima di cantare era un poeta, magari è vero”.
Già, chi se ne accorge in fondo? Io, che ho letto la mitica biografia di Anthony Scaduto, uno dei migliori testi biografici mai scritti (è stato recentemente ripubblicato e lo consiglio a tutti gli amanti di Dylan).
Negli Usa di Mc Irney l’analista dei fatti sarebbe immediatamente intervenuto, qua da noi si passa oltre, e si accende la TV.
domenica, novembre 20, 2005
Il giornalismo all’italiana del giovane Santi Piotta
Sono sempre titubante nell'inserire questi racconti, perché sono un po' lunghi per il video; però, riflettendo, se risultano faticosi si può immediatamente interrompere la lettura, è questa la libertà dei blog, non si prova rancore (come io lo provo) per un testo acquistato, pagato e lasciato per strada.
I giornalisti italiani, è noto, hanno fama di essere piuttosto pigri. Soprattutto quelli alla moda, le grandi firme. Non hanno voglia di sbattersi per produrre servizi, non amano operare sul campo, e rischiare. Preferiscono avere la pappa pronta, riscrivere i flash di agenzia, tradurre articoli dall’estero, becchettare qua e là. E’ meglio stare al calduccio nel proprio studio, o in albergo, che mettere il naso fuori in questo mondo cattivo. Che ci pensino gli altri, gli stranieri, o i giovani, a muovere le chiappe. Giornalisti come Giuliana Sgrena, o i poveri Baldoni, Ilaria Alpi, Tiziano terzani, Ettore Mo, sono una minoranza in Italia.
Era così anche nei primi anni Ottanta, quando noialtri del Frigido ci facevamo il mazzo per scandagliare le schiume sotterranee del mondo.
Io avevo sempre la macchina fotografica in mano. Forse era perché avevo appena comprato la leggendaria Nikon F2A, tutta nera, massiccia, con un otturatore che sembrava una macchina da guerra, che tenevo in mano con una sorta di voluttà; fatto sta che non me ne separavo mai. Oggi, anche sulla base della lettura di Sulla fotografia di Susan Sontag, so che era una sorta di chiave di accesso per la realtà, ma questa è un’altra storia.
Fotografavo soprattutto i giovani: gruppi musicali, le feste trendy, le ragazzine con le stanze tappezzate di poster di Marilyn Monroe, giovani teppisti col coltello e gli occhiali neri, motociclisti. La F2A mi apriva tutte le porte, mi permetteva di essere un esploratore e un navigatore.
Sfogliando le riviste illustrate ammiravo le immagini dei punk inglesi, bellissimi. E i punk italiani, mi chiedevo, dov’erano le foto? Si narrava che un fotografo, a Milano, era stato preso a sassate mentre cercava di ritrarli col teleobiettivo. Erano inavvicinabili, ostili.
Inavvicinabili per me e per la mia F2A? Impossibile. Non esisteva ambiente in cui noi due non potessimo entrare. Non avevo dubbi: avrei fotografato i punk italiani.
Così telefonai al direttore del Frigido Vincenzo Sparagna e gli proposi la cosa. “Ma bene!” disse subito. “Molto interessante. Cerca anche di intervistarli, non c’è niente in giro su di loro”.
Le interviste, certo. Mi piacevano le interviste. Cioè, io sono sempre stato un pessimo intervistatore, questo va detto, mi ingarbugliavo, facevo domande contorte, andavo fuori tema, ma proprio questa mia difficoltà, questa mia crisi perenne era avvertita dai soggetti che intervistavo i quali, per aiutarmi – o forse per togliersi dai guai – mi aprivano il loro cuore e non la smettevano più di parlare. Sì, avrei fotografato e intervistato i punk italiani.
A quei tempi vivevo ancora al paese, così andai nell’armadio di mio padre e presi il suo vecchio impermeabile degli anni Quaranta, larghissimo di spalle e stretto in vita da un cinturone con la fibbia dorata. Gli attaccai sul bavero due badges rasta che avevo comprato in un mercatino, poi andai a rovistare in un cassettone in cantina che conteneva ancora le mie cose da ragazzino e la trovai: la fascia elastica ricamata che mi mettevo intorno alla fronte quando avevo i capelli lunghi, dieci anni prima. Quindi scesi in garage, aprii l’armadietto delle cianfrusaglie di mio padre cacciatore e presi le due bellissime penne di fagiano che conservava come trofeo (grazie a Dio mio padre non è mai stato uno di quei dementi che imbalsamavano gli uccelli uccisi). Tornai nella stanza da letto dei miei genitori, dove c’era uno specchio a figura intera, infilai le penne nella fascia elastica e mi guardai: ero una via di mezzo tra Humphrey Bogarth, un indiano sioux e un rastafari. Perfetto. Sapevo che l’aspetto fisico era importante in certi casi. Una volta per avvicinare dei teppisti molto temuti, dei ragazzotti che avevano fatto saltare in aria per errore l’acquedotto di un paese vicino, accendendo una sigaretta nella vasca piena di metano (restando miracolosamente incolumi) e lasciando la cittadinanza furiosa senz’acqua per un mese, mi ero presentato zoppicando vistosamente; trascinavo una gamba, come se fossi uno sciancato grave, ma portavo la mia menomazione con dignità, anzi, con durezza. Li guardavo con aria di sfida, e parlavo bruscamente, come se non avessi tempo da perdere con le loro idiozie. Loro mi fissavano dietro gli occhiali scuri, con volti inespressivi. La cosa funzionò. Realizzai delle foto meravigliose, immagini in posa con esibizioni di coltelli, una pistola (era finta, d’accordo, ma sembrava vera) e le immancabili pose da bullo.
Aspettai che tornasse la mia fidanzata Lucilla da un paese del Polesine dove lavorava tutta la settimana (era venerdi), intanto mi rollai un paio di canne di erba romagnola coltivata in un luogo segreto sull’argine del fiume, tanto per sciogliere le ultime resistenze.
Lucilla arrivò alle otto, trascinando il suo valigione, stanca dopo otto ore di lavoro nell’ufficio contabilità di una cooperativa edile e 150 chilometri di macchina. Salì faticosamente le scale della casa semidiroccata dove abitavamo ed entrò nella stanza disadorna e disordinata che, secondo i canoni dell’abitare, era il salotto.
“Lucy” dissi, balzando in piedi, “andiamo a Bologna”. La borsa con l’attrezzatura era già pronta sul pavimento.,
Lucilla mi guardò a bocca aperta, ancora col valigione in mano.
“A Bologna? Adesso? No, sono stanca morta”.
“Dobbiamo andare adesso” dissi con enfasi. “Andiamo a fare delle foto. Partiamo subito, sennò si fa tardi”.
Lucilla lasciò cadere la valigia e sospirò. Quando dicevo “a fare delle foto” non c’era speranza di farmi cambiare idea, lei lo sapeva, io lo sapevo; era nelle cose, era il destino.
“Non potremmo andare domani?” disse, ma senza convinzione.
Domani? Non se ne parlava. Ero pronto adesso, in quel momento preciso; ero in tiro, l’energia era al massimo, impossibile perdere quell’occasione.
“No, Lucy, si va subito. Andiamo a fotografare i punk, e anche a intervistarli. Prendi il registratore”.
“Ma io ho anche fame” disse, debolmente, guardando il pavimento di piastrelle a orribili chiazze marroni che chiamavano graniglia e che era di gran moda nelle case del dopoguerra.
“Uh. Anch’io. Ci mangiamo un panino per strada”.
Non aspettai la sua replica, mi catapultai in camera da letto, inforcai l’impermeabile, la fascia sulla fronte, le penne di fagiano e mi presentai a lei. “Che ne dici?”
Lucilla mi guardò stranita. “Oh” disse. “Ah”.
"Ok“ tagliai corto. “Andiamo, dai”.
Presi la borsa con la F2A, l’inseparabile 28mm, la mia focale preferita, le pellicole e il flash, mentre Lucilla faceva una puntata in bagno. Scendemmo le ripide scale di travertino sbrecciato, salimmo sulla mia R4 e partimmo per Bologna.
Percorsi i 70 km immerso in una sorta di sogno, come sempre mi accadeva prima di un servizio impegnativo. Era un magma caotico di paura, eccitazione, gusto della sfida e chissà che altro. Ero assente, incapace di ascoltare il resoconto della settimana di Lucilla, di rispondere alla sue domande. Ero sospeso nello spazio, brancolavo nella notte profonda.
Arrivammo a Bologna, dopo una breve sosta in un desolato bar sulla statale, e puntai subito verso Via Marconi. Era lì il punto di ritrovo, davanti a un negozio di dischi. Parcheggiai a una certa distanza, perché volevo arrivare a piedi, volevo vedere le loro immagini che ingrandivano progressivamente.
Mentre Lucilla ed io avanzavamo sotto il portico affollato, li vidi: erano una decina, forse di più, al bivacco. Molto bene. Il materiale umano c’era. I giubbotti di pelle nera, i chiodi, brillavano sotto la luce dei lampioni; niente creste colorate, quelle erano cose per i modaioli inglesi. Gli italiani erano più sobri, più duri, più politici.
Arrivammo nel gruppo e ci fermammo. Mi guardai intorno, li fissai per bene. Anche loro mi fissavano. Guardavano le penne di fagiano, l’impermeabile enorme, i badges rasta. I miei occhi, duri e aggressivi, dicevano: “e allora? C’è qualche merdoso punk che osa stupirsi del mio aspetto?”
Mi avvicinai a un tipo alto e massiccio con una faccia da bravo ragazzo. Era appoggiato al muro in postura di puro disgusto, ma il viso era buono. Poiché anch’io ero un tipo buono, cercavo istintivamente i miei simili. E il mio istinto non sbagliava mai.
Mi presentai: siamo del Frigido eccetera. Lui sbatté le palpebre. “Urgh” fece.
“Senti un po’, voglio farvi delle foto”. Intanto aprii la borsa, tirai fuori la F2A e montai il 28.
“Urgh” ripetè lui.
“Delle foto, così” dissi, infilando il manico del flash nella baionetta, “delle foto di voi, roba buona, roba forte, in bianco e nero”.
“Urgh. Argh” disse.
“Bene, stai così, non ti muovere”. Lo inquadrai e scattai. Il flash lo accecò. Quello era un momento molto delicato, dalla sua reazione poteva dipendere la riuscita del servizio. Si irrigidì, guardò per aria, come se avesse difficoltà a respirare, poi si rilassò, e fece tutto quello che gli ordinai: girati di spalle (facevo spesso le foto di spalle col soggetto appoggiato al muro con le braccia alzate, come in stato di arresto), di fianco, guarda in macchina e così via.
Bene, era andata. E ora volevo gli atri, li volevo tutti.
“Ok ragazzi, facciamo un po’ di foto come si deve adesso”.
Sentivo le penne di fagiano che vibravano sotto la leggera brezza che scorreva sotto il portico come in un corridoio. Li tenevo in pugno. Li avevo colti di sorpresa, non potevano resistermi. Mi dedicai a due ragazze molto giovani, di non più di quattordici anni, che scoppiarono a ridere e si lasciarono fotografare in maniera meravigliosa, offrendosi completamente, senza riserve né timidezze.
Coi tipi più duri, quelli che si chiudevano a riccio, mandavo avanti Lucilla. Lei era avvolta da un’aura molto particolare, come un riverbero di candore infantile che faceva breccia nei cuori più duri e scioglieva ogni resistenza. Un gigante biondo con un paio di anfibi che sembravano due dragamine le ciondolava intorno docilmente e si lasciava sistemare come un manichino contro una colonna.
E io scattavo, scattavo, felice perché vedevo il servizio che prendeva forma, e la F2A assorbiva vorace tutti quei neri scintillanti, quei grigi, quei bianchi luminosi.
Mentre concludevo quella documentazione stupenda, la più fantastica di tutta la mia produzione, una voce mi apostrofò.
“Ehi, sei fortunato, sai?”
Un ragazzo magro, con un faccia ironica, mi squadrava ridendo. “Stasera siamo in parecchi qua. Non capita spesso, di venerdi”.
Aveva una voce dolce, un timbro garbato. Si chiamava Giampi, ed era il leader, disse (per la verità non usò il termine leader, ma era quello il senso) dei punk anarchici. Accanto a lui c’era un tipo più massiccio, coi capelli rapati quasi a zero. Era Steno, il referente dei punk nichilisti.
Li fotografai di fronte e di spalle, under arrest, come gli altri. Ed ora era il momento delle interviste. Giampi e Steno mi illustrarono, come degli oratori consumati, le posizioni degli anarchici – politicizzati, pacifisti, ecologisti – e dei nichilisti – rabbiosi, pessimisti, provocatori: i loro gruppi di riferimento, il loro guardare al movimento punk di Berlino come il più avanzato del mondo. La chiacchierata con loro sarebbe andata avanti per ore, ma c’erano anche gli altri da intervistare. Ci diedero appuntamento per l’indomani, sabato sera, in un magazzino occupato per un concerto. Non potevo assolutamente mancare, disse Giampi, sarebbero venute delle foto “fantastiche”.
Mentre tornavamo verso la macchina, a mezzanotte e quaranta, mi complimentai con Lucilla: i suoi modi garbati, il suo fascino avevano fatto parlare dei tipi chiusi come crostacei. Lei rideva, cadeva dalle nuvole. Non si rendeva conto delle proprie qualità.
Guidai verso casa in uno stato di trance, pensando furiosamente alle immagini, ai problemi tecnici, alle interviste da sbobinare. Sapevo che la notte non avrei chiuso occhio. Lucilla invece dormiva profondamente, si era addormentata di colpo mentre giravo la chiave dell’accensione.
Mi alzo alle otto, distrutto dalla veglia, ma mi riprendo con un fiume di caffè e due brioches laidissime al cioccolato. Il cuore mi martella nel petto, ho un’unica esigenza totalitaria da soddisfare: sviluppare il materiale. Prendo i rullini e, mentre Lucilla dorme, scendo le scale, esco in cortile, giro intorno alla casa ed entro nel miniappartamento al piano terra, che si trova accanto alla stanzona dove vive la mia vecchia nonna svalvolata. Sono due locali, camera più cucina, privi di mobili, a parte il tavolo che regge l’ingranditore e le vaschette coi bagni di sviluppo. Qui infatti ho allestito la mia camera oscura, qui lavoro per ore, per giorni e per notti quando ho del materiale importante.
Benché sia tormentato da questo entusiasmo frenetico, da questa tensione che mi spacca in due quando un servizio è ancora nel limbo delle pellicole non sviluppate, i miei gesti sono precisi, attenti: sviluppo i quattro rullini, li lavo, li asciugo e li guardo controluce: subito un senso di calma inizia a diffondersi nel mio animo febbricitante: tutto bene, anzi benissimo; i negativi sono perfetti. Saltello sul pavimento e prendo a pugni l’aria: sììì!!! E’ una documentazione superinteressante, nessuno in Italia ha niente del genere, ne sono sicuro!
Bisogna stampare adesso. Preparo gli acidi, accendo la luce gialla, mi metto al lavoro.
A mezzogiorno scende Lucilla. Ha gli occhi gonfi di sonno, la voce rauca. Guarda le stampe appese al filo ad asciugare. “Belle” dice.
“Sì!” esclamo. “Hai visto che roba?” Sono davvero belle: dei 30 X 40 ad alto contrasto, come nel mio stile.
“Dunque...” dice Lucilla, “stasera... cos’è, torniamo a Bologna?”
“Ehm sì” dico, immergendo una stampa nel fissaggio. “C’è un concerto importante”.
Silenzio. La sento sospirare. “Volevo chiedere all’Antonella e Piero se uscivamo a cena insieme...” Di nuovo silenzio. Le vado vicino, le prendo le mani. Le mie puzzano di fissaggio.
“Lucy, ti prego, cerca di capire. Devo concludere il servizio, è importante”.
China il capo. “E’ sempre importante” mormora, a testa bassa. Non insiste. Conosce la mia febbre cerebrale. Sa che sarebbe inutile. “Va bene” dice. “Vado a preparare da mangiare. Vieni su tra un po’”.
“Eh?” dico, mentre faccio scorrere la pellicola nella maschera dell’ingranditore.
La sento mentre sale le scale. Canta.
Il locale è un seminterrato, in centro. E’ molto ampio, disseminato di colonne verniciate di nero. Anche i muri sono verniciati di nero, ma in molti punti l’intonaco si stacca, così ci sono delle chiazze color pietra non ancora verniciate. E’ stracolmo: ci sono i punk, quelli che ho fotografato ma anche altri, ragazzi giovanissimi stipati sotto a un palco allestito con delle assi grezze da muratore; gruppi di studelinquenti, militanti din Autonomia Operaia. Sul muro dietro al palco è appeso uno striscione con la scritta: “Occupare le case sfitte”. Gli occhi mi lacrimano per il fumo, così denso che oscura persino la luce delle brutte lampadine che pendono dal soffitto.
Due punk ben piantati non ci mollano un istante. Sono le nostre guardie del corpo. Uno di loro, un ragazzo coi capelli cortissimi, la gonna e le calze a rete (era un particolare stile punk berlinese quello di inserire elementi femminili nel proprio aspetto) dice che la mia macchina fotografica è troppo bella, potrebbe suscitare tentazioni troppo forti. Ride, lanciando occhiate intorno a sé. Guardo la F2A: sono d’accordo.
Dopo mezz’ora inizia il concerto. Sono in quattro: cantante, chitarra, basso e batteria. Il bassista è a torso nudo e tiene il basso con la tracolla allungata al massimo, come Sid Vicious. Nella sala si riversa subito un ruggito furibondo, una materia sonora solida, selvaggia che ingoia ogni ritmo, ogni melodia. I ragazzi sotto al palco ballano e si spintonano, come fanno i punk, mentre gli autonomi e gli studelinquenti vagano per la sala, con aria assente.
Dopo quaranta minuti decido che ho scattato abbastanza. Le orecchie mi fischiano, la testa mi scoppia. Faccio capire a gesti a Lucilla che possiamo andare. Salutiamo i due nostri accompagnatori e usciamo all’aria aperta. Respiro a pieni polmoni, mi sembra di essere in montagna dopo l’oppressione di quella cantina fumosa. Ho il tam-tam della musica cavernosa ancora nelle tempie.
Spedisco le foto e le interviste con un corriere. Non me la sento di andare a Roma. Non ho dormito per due notti, e quando la tensione che mi sosteneva è calata mi è venuta una febbricola e un mal di schiena che mi ha costretto a letto per un giorno e una notte.
Telefono al direttore. E’ entusiasta. Gli va dato atto che, se un servizio gli piace, non lesina le lodi. Forse perché in questo modo compensa l’esiguità del compenso. Infatti me lo paga una miseria, una cifra che basta appena a pagarmi i viaggi a Bologna e una parte del materiale fotografico. Ma è inutile protestare. Col direttore è così: prendere o lasciare; e siccome il servizio è in mano sua, e non lo mollerebbe per nessuna ragione al mondo, è inevitabile lasciare. E poi sono troppo contento del lavoro, la mia documentazione sui giovani adesso è monumentale, unica.
Il servizio uscì dopo due mesi. Bellissimo. Era su sei pagine, uno standard elevato per la fogliazione di quel periodo, in cui i servizi raramente superavano le quattro. Bologna punk, questo il titolo. Ne comprai due copie e le riposi gelosamente nella mia collezione.
Dopo due settimane mi telefonò Giampi.
“Eilà” dissi, sorpreso.
“Bellissimo il servizio” disse. “Complimenti. Le interviste sono così... fresche, sincere. Le foto poi... splendide”.
“Grazie” dissi.
“Hai visto l’#*+?” chiese, e nominò uno dei settimanali più diffusi.
“No. Perché?”
“Te l’hanno copiato completamente. Va’ a comprarlo, è pazzesco”.
Riattaccai in preda a emozioni contrastanti: mi divertiva l’idea che i giornali ricchi sfruttassero il lavoro di avventurieri squattrinati come noi, questo confermava alla perfezione che su questa terra il Potere vince sempre le sue battaglie, mentre noi, gli ultimi eroi solitari, i cavalieri del Santo Graal, siamo sempre sconfitti, derubati, perché così vuole la Storia, così vuole Dio. Ma domani noi saremo i primi, mentre loro, i ladri e i furbi, razzoleranno nella merda. Però provavo anche rabbia, disprezzo, voglia di vendetta.
Andai all’edicola e comprai la rivista. Il servizio era molto esteso, firmato Santi Piotta. Con stupore lessi le nostre interviste inserite nell’articolo, che era il solito svolazzo mondano, salottiero; le interviste erano diventate sue, le aveva realizzate lui. L’impianto del testo poi si basava sul fatto che i punk italiani si dividevano in anarchici e nichilisti, e facevano riferimento al movimento di Berlino.
Scoppiai a ridere. No, era troppo buffo, inutile arrabbiarsi. Seduto al suo bel tavolinetto, col telefono in mano, gli era stato servito su un piatto d’argento questa bella pietanza già cucinata e condita. Doveva solo consumarla. Che fortuna, eh?
Sono sempre titubante nell'inserire questi racconti, perché sono un po' lunghi per il video; però, riflettendo, se risultano faticosi si può immediatamente interrompere la lettura, è questa la libertà dei blog, non si prova rancore (come io lo provo) per un testo acquistato, pagato e lasciato per strada.
I giornalisti italiani, è noto, hanno fama di essere piuttosto pigri. Soprattutto quelli alla moda, le grandi firme. Non hanno voglia di sbattersi per produrre servizi, non amano operare sul campo, e rischiare. Preferiscono avere la pappa pronta, riscrivere i flash di agenzia, tradurre articoli dall’estero, becchettare qua e là. E’ meglio stare al calduccio nel proprio studio, o in albergo, che mettere il naso fuori in questo mondo cattivo. Che ci pensino gli altri, gli stranieri, o i giovani, a muovere le chiappe. Giornalisti come Giuliana Sgrena, o i poveri Baldoni, Ilaria Alpi, Tiziano terzani, Ettore Mo, sono una minoranza in Italia.
Era così anche nei primi anni Ottanta, quando noialtri del Frigido ci facevamo il mazzo per scandagliare le schiume sotterranee del mondo.
Io avevo sempre la macchina fotografica in mano. Forse era perché avevo appena comprato la leggendaria Nikon F2A, tutta nera, massiccia, con un otturatore che sembrava una macchina da guerra, che tenevo in mano con una sorta di voluttà; fatto sta che non me ne separavo mai. Oggi, anche sulla base della lettura di Sulla fotografia di Susan Sontag, so che era una sorta di chiave di accesso per la realtà, ma questa è un’altra storia.
Fotografavo soprattutto i giovani: gruppi musicali, le feste trendy, le ragazzine con le stanze tappezzate di poster di Marilyn Monroe, giovani teppisti col coltello e gli occhiali neri, motociclisti. La F2A mi apriva tutte le porte, mi permetteva di essere un esploratore e un navigatore.
Sfogliando le riviste illustrate ammiravo le immagini dei punk inglesi, bellissimi. E i punk italiani, mi chiedevo, dov’erano le foto? Si narrava che un fotografo, a Milano, era stato preso a sassate mentre cercava di ritrarli col teleobiettivo. Erano inavvicinabili, ostili.
Inavvicinabili per me e per la mia F2A? Impossibile. Non esisteva ambiente in cui noi due non potessimo entrare. Non avevo dubbi: avrei fotografato i punk italiani.
Così telefonai al direttore del Frigido Vincenzo Sparagna e gli proposi la cosa. “Ma bene!” disse subito. “Molto interessante. Cerca anche di intervistarli, non c’è niente in giro su di loro”.
Le interviste, certo. Mi piacevano le interviste. Cioè, io sono sempre stato un pessimo intervistatore, questo va detto, mi ingarbugliavo, facevo domande contorte, andavo fuori tema, ma proprio questa mia difficoltà, questa mia crisi perenne era avvertita dai soggetti che intervistavo i quali, per aiutarmi – o forse per togliersi dai guai – mi aprivano il loro cuore e non la smettevano più di parlare. Sì, avrei fotografato e intervistato i punk italiani.
A quei tempi vivevo ancora al paese, così andai nell’armadio di mio padre e presi il suo vecchio impermeabile degli anni Quaranta, larghissimo di spalle e stretto in vita da un cinturone con la fibbia dorata. Gli attaccai sul bavero due badges rasta che avevo comprato in un mercatino, poi andai a rovistare in un cassettone in cantina che conteneva ancora le mie cose da ragazzino e la trovai: la fascia elastica ricamata che mi mettevo intorno alla fronte quando avevo i capelli lunghi, dieci anni prima. Quindi scesi in garage, aprii l’armadietto delle cianfrusaglie di mio padre cacciatore e presi le due bellissime penne di fagiano che conservava come trofeo (grazie a Dio mio padre non è mai stato uno di quei dementi che imbalsamavano gli uccelli uccisi). Tornai nella stanza da letto dei miei genitori, dove c’era uno specchio a figura intera, infilai le penne nella fascia elastica e mi guardai: ero una via di mezzo tra Humphrey Bogarth, un indiano sioux e un rastafari. Perfetto. Sapevo che l’aspetto fisico era importante in certi casi. Una volta per avvicinare dei teppisti molto temuti, dei ragazzotti che avevano fatto saltare in aria per errore l’acquedotto di un paese vicino, accendendo una sigaretta nella vasca piena di metano (restando miracolosamente incolumi) e lasciando la cittadinanza furiosa senz’acqua per un mese, mi ero presentato zoppicando vistosamente; trascinavo una gamba, come se fossi uno sciancato grave, ma portavo la mia menomazione con dignità, anzi, con durezza. Li guardavo con aria di sfida, e parlavo bruscamente, come se non avessi tempo da perdere con le loro idiozie. Loro mi fissavano dietro gli occhiali scuri, con volti inespressivi. La cosa funzionò. Realizzai delle foto meravigliose, immagini in posa con esibizioni di coltelli, una pistola (era finta, d’accordo, ma sembrava vera) e le immancabili pose da bullo.
Aspettai che tornasse la mia fidanzata Lucilla da un paese del Polesine dove lavorava tutta la settimana (era venerdi), intanto mi rollai un paio di canne di erba romagnola coltivata in un luogo segreto sull’argine del fiume, tanto per sciogliere le ultime resistenze.
Lucilla arrivò alle otto, trascinando il suo valigione, stanca dopo otto ore di lavoro nell’ufficio contabilità di una cooperativa edile e 150 chilometri di macchina. Salì faticosamente le scale della casa semidiroccata dove abitavamo ed entrò nella stanza disadorna e disordinata che, secondo i canoni dell’abitare, era il salotto.
“Lucy” dissi, balzando in piedi, “andiamo a Bologna”. La borsa con l’attrezzatura era già pronta sul pavimento.,
Lucilla mi guardò a bocca aperta, ancora col valigione in mano.
“A Bologna? Adesso? No, sono stanca morta”.
“Dobbiamo andare adesso” dissi con enfasi. “Andiamo a fare delle foto. Partiamo subito, sennò si fa tardi”.
Lucilla lasciò cadere la valigia e sospirò. Quando dicevo “a fare delle foto” non c’era speranza di farmi cambiare idea, lei lo sapeva, io lo sapevo; era nelle cose, era il destino.
“Non potremmo andare domani?” disse, ma senza convinzione.
Domani? Non se ne parlava. Ero pronto adesso, in quel momento preciso; ero in tiro, l’energia era al massimo, impossibile perdere quell’occasione.
“No, Lucy, si va subito. Andiamo a fotografare i punk, e anche a intervistarli. Prendi il registratore”.
“Ma io ho anche fame” disse, debolmente, guardando il pavimento di piastrelle a orribili chiazze marroni che chiamavano graniglia e che era di gran moda nelle case del dopoguerra.
“Uh. Anch’io. Ci mangiamo un panino per strada”.
Non aspettai la sua replica, mi catapultai in camera da letto, inforcai l’impermeabile, la fascia sulla fronte, le penne di fagiano e mi presentai a lei. “Che ne dici?”
Lucilla mi guardò stranita. “Oh” disse. “Ah”.
"Ok“ tagliai corto. “Andiamo, dai”.
Presi la borsa con la F2A, l’inseparabile 28mm, la mia focale preferita, le pellicole e il flash, mentre Lucilla faceva una puntata in bagno. Scendemmo le ripide scale di travertino sbrecciato, salimmo sulla mia R4 e partimmo per Bologna.
Percorsi i 70 km immerso in una sorta di sogno, come sempre mi accadeva prima di un servizio impegnativo. Era un magma caotico di paura, eccitazione, gusto della sfida e chissà che altro. Ero assente, incapace di ascoltare il resoconto della settimana di Lucilla, di rispondere alla sue domande. Ero sospeso nello spazio, brancolavo nella notte profonda.
Arrivammo a Bologna, dopo una breve sosta in un desolato bar sulla statale, e puntai subito verso Via Marconi. Era lì il punto di ritrovo, davanti a un negozio di dischi. Parcheggiai a una certa distanza, perché volevo arrivare a piedi, volevo vedere le loro immagini che ingrandivano progressivamente.
Mentre Lucilla ed io avanzavamo sotto il portico affollato, li vidi: erano una decina, forse di più, al bivacco. Molto bene. Il materiale umano c’era. I giubbotti di pelle nera, i chiodi, brillavano sotto la luce dei lampioni; niente creste colorate, quelle erano cose per i modaioli inglesi. Gli italiani erano più sobri, più duri, più politici.
Arrivammo nel gruppo e ci fermammo. Mi guardai intorno, li fissai per bene. Anche loro mi fissavano. Guardavano le penne di fagiano, l’impermeabile enorme, i badges rasta. I miei occhi, duri e aggressivi, dicevano: “e allora? C’è qualche merdoso punk che osa stupirsi del mio aspetto?”
Mi avvicinai a un tipo alto e massiccio con una faccia da bravo ragazzo. Era appoggiato al muro in postura di puro disgusto, ma il viso era buono. Poiché anch’io ero un tipo buono, cercavo istintivamente i miei simili. E il mio istinto non sbagliava mai.
Mi presentai: siamo del Frigido eccetera. Lui sbatté le palpebre. “Urgh” fece.
“Senti un po’, voglio farvi delle foto”. Intanto aprii la borsa, tirai fuori la F2A e montai il 28.
“Urgh” ripetè lui.
“Delle foto, così” dissi, infilando il manico del flash nella baionetta, “delle foto di voi, roba buona, roba forte, in bianco e nero”.
“Urgh. Argh” disse.
“Bene, stai così, non ti muovere”. Lo inquadrai e scattai. Il flash lo accecò. Quello era un momento molto delicato, dalla sua reazione poteva dipendere la riuscita del servizio. Si irrigidì, guardò per aria, come se avesse difficoltà a respirare, poi si rilassò, e fece tutto quello che gli ordinai: girati di spalle (facevo spesso le foto di spalle col soggetto appoggiato al muro con le braccia alzate, come in stato di arresto), di fianco, guarda in macchina e così via.
Bene, era andata. E ora volevo gli atri, li volevo tutti.
“Ok ragazzi, facciamo un po’ di foto come si deve adesso”.
Sentivo le penne di fagiano che vibravano sotto la leggera brezza che scorreva sotto il portico come in un corridoio. Li tenevo in pugno. Li avevo colti di sorpresa, non potevano resistermi. Mi dedicai a due ragazze molto giovani, di non più di quattordici anni, che scoppiarono a ridere e si lasciarono fotografare in maniera meravigliosa, offrendosi completamente, senza riserve né timidezze.
Coi tipi più duri, quelli che si chiudevano a riccio, mandavo avanti Lucilla. Lei era avvolta da un’aura molto particolare, come un riverbero di candore infantile che faceva breccia nei cuori più duri e scioglieva ogni resistenza. Un gigante biondo con un paio di anfibi che sembravano due dragamine le ciondolava intorno docilmente e si lasciava sistemare come un manichino contro una colonna.
E io scattavo, scattavo, felice perché vedevo il servizio che prendeva forma, e la F2A assorbiva vorace tutti quei neri scintillanti, quei grigi, quei bianchi luminosi.
Mentre concludevo quella documentazione stupenda, la più fantastica di tutta la mia produzione, una voce mi apostrofò.
“Ehi, sei fortunato, sai?”
Un ragazzo magro, con un faccia ironica, mi squadrava ridendo. “Stasera siamo in parecchi qua. Non capita spesso, di venerdi”.
Aveva una voce dolce, un timbro garbato. Si chiamava Giampi, ed era il leader, disse (per la verità non usò il termine leader, ma era quello il senso) dei punk anarchici. Accanto a lui c’era un tipo più massiccio, coi capelli rapati quasi a zero. Era Steno, il referente dei punk nichilisti.
Li fotografai di fronte e di spalle, under arrest, come gli altri. Ed ora era il momento delle interviste. Giampi e Steno mi illustrarono, come degli oratori consumati, le posizioni degli anarchici – politicizzati, pacifisti, ecologisti – e dei nichilisti – rabbiosi, pessimisti, provocatori: i loro gruppi di riferimento, il loro guardare al movimento punk di Berlino come il più avanzato del mondo. La chiacchierata con loro sarebbe andata avanti per ore, ma c’erano anche gli altri da intervistare. Ci diedero appuntamento per l’indomani, sabato sera, in un magazzino occupato per un concerto. Non potevo assolutamente mancare, disse Giampi, sarebbero venute delle foto “fantastiche”.
Mentre tornavamo verso la macchina, a mezzanotte e quaranta, mi complimentai con Lucilla: i suoi modi garbati, il suo fascino avevano fatto parlare dei tipi chiusi come crostacei. Lei rideva, cadeva dalle nuvole. Non si rendeva conto delle proprie qualità.
Guidai verso casa in uno stato di trance, pensando furiosamente alle immagini, ai problemi tecnici, alle interviste da sbobinare. Sapevo che la notte non avrei chiuso occhio. Lucilla invece dormiva profondamente, si era addormentata di colpo mentre giravo la chiave dell’accensione.
Mi alzo alle otto, distrutto dalla veglia, ma mi riprendo con un fiume di caffè e due brioches laidissime al cioccolato. Il cuore mi martella nel petto, ho un’unica esigenza totalitaria da soddisfare: sviluppare il materiale. Prendo i rullini e, mentre Lucilla dorme, scendo le scale, esco in cortile, giro intorno alla casa ed entro nel miniappartamento al piano terra, che si trova accanto alla stanzona dove vive la mia vecchia nonna svalvolata. Sono due locali, camera più cucina, privi di mobili, a parte il tavolo che regge l’ingranditore e le vaschette coi bagni di sviluppo. Qui infatti ho allestito la mia camera oscura, qui lavoro per ore, per giorni e per notti quando ho del materiale importante.
Benché sia tormentato da questo entusiasmo frenetico, da questa tensione che mi spacca in due quando un servizio è ancora nel limbo delle pellicole non sviluppate, i miei gesti sono precisi, attenti: sviluppo i quattro rullini, li lavo, li asciugo e li guardo controluce: subito un senso di calma inizia a diffondersi nel mio animo febbricitante: tutto bene, anzi benissimo; i negativi sono perfetti. Saltello sul pavimento e prendo a pugni l’aria: sììì!!! E’ una documentazione superinteressante, nessuno in Italia ha niente del genere, ne sono sicuro!
Bisogna stampare adesso. Preparo gli acidi, accendo la luce gialla, mi metto al lavoro.
A mezzogiorno scende Lucilla. Ha gli occhi gonfi di sonno, la voce rauca. Guarda le stampe appese al filo ad asciugare. “Belle” dice.
“Sì!” esclamo. “Hai visto che roba?” Sono davvero belle: dei 30 X 40 ad alto contrasto, come nel mio stile.
“Dunque...” dice Lucilla, “stasera... cos’è, torniamo a Bologna?”
“Ehm sì” dico, immergendo una stampa nel fissaggio. “C’è un concerto importante”.
Silenzio. La sento sospirare. “Volevo chiedere all’Antonella e Piero se uscivamo a cena insieme...” Di nuovo silenzio. Le vado vicino, le prendo le mani. Le mie puzzano di fissaggio.
“Lucy, ti prego, cerca di capire. Devo concludere il servizio, è importante”.
China il capo. “E’ sempre importante” mormora, a testa bassa. Non insiste. Conosce la mia febbre cerebrale. Sa che sarebbe inutile. “Va bene” dice. “Vado a preparare da mangiare. Vieni su tra un po’”.
“Eh?” dico, mentre faccio scorrere la pellicola nella maschera dell’ingranditore.
La sento mentre sale le scale. Canta.
Il locale è un seminterrato, in centro. E’ molto ampio, disseminato di colonne verniciate di nero. Anche i muri sono verniciati di nero, ma in molti punti l’intonaco si stacca, così ci sono delle chiazze color pietra non ancora verniciate. E’ stracolmo: ci sono i punk, quelli che ho fotografato ma anche altri, ragazzi giovanissimi stipati sotto a un palco allestito con delle assi grezze da muratore; gruppi di studelinquenti, militanti din Autonomia Operaia. Sul muro dietro al palco è appeso uno striscione con la scritta: “Occupare le case sfitte”. Gli occhi mi lacrimano per il fumo, così denso che oscura persino la luce delle brutte lampadine che pendono dal soffitto.
Due punk ben piantati non ci mollano un istante. Sono le nostre guardie del corpo. Uno di loro, un ragazzo coi capelli cortissimi, la gonna e le calze a rete (era un particolare stile punk berlinese quello di inserire elementi femminili nel proprio aspetto) dice che la mia macchina fotografica è troppo bella, potrebbe suscitare tentazioni troppo forti. Ride, lanciando occhiate intorno a sé. Guardo la F2A: sono d’accordo.
Dopo mezz’ora inizia il concerto. Sono in quattro: cantante, chitarra, basso e batteria. Il bassista è a torso nudo e tiene il basso con la tracolla allungata al massimo, come Sid Vicious. Nella sala si riversa subito un ruggito furibondo, una materia sonora solida, selvaggia che ingoia ogni ritmo, ogni melodia. I ragazzi sotto al palco ballano e si spintonano, come fanno i punk, mentre gli autonomi e gli studelinquenti vagano per la sala, con aria assente.
Dopo quaranta minuti decido che ho scattato abbastanza. Le orecchie mi fischiano, la testa mi scoppia. Faccio capire a gesti a Lucilla che possiamo andare. Salutiamo i due nostri accompagnatori e usciamo all’aria aperta. Respiro a pieni polmoni, mi sembra di essere in montagna dopo l’oppressione di quella cantina fumosa. Ho il tam-tam della musica cavernosa ancora nelle tempie.
Spedisco le foto e le interviste con un corriere. Non me la sento di andare a Roma. Non ho dormito per due notti, e quando la tensione che mi sosteneva è calata mi è venuta una febbricola e un mal di schiena che mi ha costretto a letto per un giorno e una notte.
Telefono al direttore. E’ entusiasta. Gli va dato atto che, se un servizio gli piace, non lesina le lodi. Forse perché in questo modo compensa l’esiguità del compenso. Infatti me lo paga una miseria, una cifra che basta appena a pagarmi i viaggi a Bologna e una parte del materiale fotografico. Ma è inutile protestare. Col direttore è così: prendere o lasciare; e siccome il servizio è in mano sua, e non lo mollerebbe per nessuna ragione al mondo, è inevitabile lasciare. E poi sono troppo contento del lavoro, la mia documentazione sui giovani adesso è monumentale, unica.
Il servizio uscì dopo due mesi. Bellissimo. Era su sei pagine, uno standard elevato per la fogliazione di quel periodo, in cui i servizi raramente superavano le quattro. Bologna punk, questo il titolo. Ne comprai due copie e le riposi gelosamente nella mia collezione.
Dopo due settimane mi telefonò Giampi.
“Eilà” dissi, sorpreso.
“Bellissimo il servizio” disse. “Complimenti. Le interviste sono così... fresche, sincere. Le foto poi... splendide”.
“Grazie” dissi.
“Hai visto l’#*+?” chiese, e nominò uno dei settimanali più diffusi.
“No. Perché?”
“Te l’hanno copiato completamente. Va’ a comprarlo, è pazzesco”.
Riattaccai in preda a emozioni contrastanti: mi divertiva l’idea che i giornali ricchi sfruttassero il lavoro di avventurieri squattrinati come noi, questo confermava alla perfezione che su questa terra il Potere vince sempre le sue battaglie, mentre noi, gli ultimi eroi solitari, i cavalieri del Santo Graal, siamo sempre sconfitti, derubati, perché così vuole la Storia, così vuole Dio. Ma domani noi saremo i primi, mentre loro, i ladri e i furbi, razzoleranno nella merda. Però provavo anche rabbia, disprezzo, voglia di vendetta.
Andai all’edicola e comprai la rivista. Il servizio era molto esteso, firmato Santi Piotta. Con stupore lessi le nostre interviste inserite nell’articolo, che era il solito svolazzo mondano, salottiero; le interviste erano diventate sue, le aveva realizzate lui. L’impianto del testo poi si basava sul fatto che i punk italiani si dividevano in anarchici e nichilisti, e facevano riferimento al movimento di Berlino.
Scoppiai a ridere. No, era troppo buffo, inutile arrabbiarsi. Seduto al suo bel tavolinetto, col telefono in mano, gli era stato servito su un piatto d’argento questa bella pietanza già cucinata e condita. Doveva solo consumarla. Che fortuna, eh?
venerdì, novembre 18, 2005
Avanti tutta
E’ il momento dell’indignazione per gli sprechi della politica. Tutti ne parlano, i giornali, la tv, tutti si indignano, questionano, puntano l’indice, poi, tra qualche settimana, tutto finirà in quel grande contenitore interrato dove c’è la mucca pazza, l’aviaria, e tutti gli altri tormentoni stagionali, e si continuerà come prima, anzi, peggio, in allegria e leggerezza, come sempre.
Comunque stamattina su La 7, nel programma Omnibus, Antonello Pirroso presentava un libro di due DS (uno è Cesare Salvi, l’altro non ricordo) che faceva un elenco impressionante di sprechi scandalosi, nazionali e locali: opere finanziate e mai realizzate, eventi assurdi (e costosissimi), consulenze d’oro e tutto il resto. Poi c’era un altro DS, credo un senatore, un soggetto con un gran faccione, che si è messo a questionare sul "populismo" che viene regolarmente utilizzato per attaccare gli stipendi e i privilegi degli onorevoli. Anche loro, diceva, hanno dei problemi. Ci sono degli industriali che, poverini, perdono un sacco di soldi mentre sono parlamentari; lui, poi, perde scatti e carriera, perché sarebbe direttore generale della sua azienda, invece deve trascinarsi nel logorante mestiere del parlamentare. Stiamo attenti ad attaccare, a criticare, perché i poveri parlamentari sono sotto pressione, e si sacrificano.
Quello che mi ha colpito di questo individuo DS era la boria che traspirava dal suo faccione. Erano offensive le cose che diceva. Mai avevo assistito a una tale esibizione spudorata di privilegio. Credo che, con quella apparizione, questo personaggio avrà fatto perdere centinaia, se non migliaia, di voti al suo partito.
E’ il momento dell’indignazione per gli sprechi della politica. Tutti ne parlano, i giornali, la tv, tutti si indignano, questionano, puntano l’indice, poi, tra qualche settimana, tutto finirà in quel grande contenitore interrato dove c’è la mucca pazza, l’aviaria, e tutti gli altri tormentoni stagionali, e si continuerà come prima, anzi, peggio, in allegria e leggerezza, come sempre.
Comunque stamattina su La 7, nel programma Omnibus, Antonello Pirroso presentava un libro di due DS (uno è Cesare Salvi, l’altro non ricordo) che faceva un elenco impressionante di sprechi scandalosi, nazionali e locali: opere finanziate e mai realizzate, eventi assurdi (e costosissimi), consulenze d’oro e tutto il resto. Poi c’era un altro DS, credo un senatore, un soggetto con un gran faccione, che si è messo a questionare sul "populismo" che viene regolarmente utilizzato per attaccare gli stipendi e i privilegi degli onorevoli. Anche loro, diceva, hanno dei problemi. Ci sono degli industriali che, poverini, perdono un sacco di soldi mentre sono parlamentari; lui, poi, perde scatti e carriera, perché sarebbe direttore generale della sua azienda, invece deve trascinarsi nel logorante mestiere del parlamentare. Stiamo attenti ad attaccare, a criticare, perché i poveri parlamentari sono sotto pressione, e si sacrificano.
Quello che mi ha colpito di questo individuo DS era la boria che traspirava dal suo faccione. Erano offensive le cose che diceva. Mai avevo assistito a una tale esibizione spudorata di privilegio. Credo che, con quella apparizione, questo personaggio avrà fatto perdere centinaia, se non migliaia, di voti al suo partito.
mercoledì, novembre 16, 2005
Una situazione imbarazzante
La Corte Costituzionale ha bocciato i tagli agli enti locali, e l’opposizione esulta. I "governatori" delle Regioni poi parlano di sentenza storica. Ecco, vedete, il governo non ne imbrocca una su una, e Tremonti crea solo disastri. Come non condividere queste affermazioni? Però vediamo nel dettaglio quali erano i tagli bocciati: 50% per spese di consulenze esterne; 50% per spese di relazioni pubbliche e rappresentanza; 50% per spese di auto blu; 10% per le indennità dei sindaci e gov di Regioni e Province; 10% per le indennità dei managers di aziende controllate dagli enti locali. Bene. Non si può essere d’accordo con questo governo, con questi personaggi, perché è contronatura. Le creature del Buio non possono avere ragione, mai. Però io taglierei almeno il 75% delle spese per consulenze esterne, perché gli enti locali con queste trovate buttano via miliardi di euro; e i sindacati, quelli ufficiali, non solo gli autonomi, sono furiosi, perché in questo modo si sviliscono le professionalità interne, si fanno "regali" agli amici, e anche le giunte di sinistra non scherzano. Taglierei minimo il 50% delle spese di relazioni pubbliche e rappresentanze varie, perché questo è un enorme buco nero di cui nessuno è in grado di vedere il fondo. Taglierei almeno il 50% delle auto blu perché tutti ne abusano, è stranoto; e taglierei più del 10% delle indennità varie, perché tutti sanno che i politici italiani sono i più pagati d’Europa. Dunque: è contronatura essere d’accordo coi demoni, però come la mettiamo?
La Corte Costituzionale ha bocciato i tagli agli enti locali, e l’opposizione esulta. I "governatori" delle Regioni poi parlano di sentenza storica. Ecco, vedete, il governo non ne imbrocca una su una, e Tremonti crea solo disastri. Come non condividere queste affermazioni? Però vediamo nel dettaglio quali erano i tagli bocciati: 50% per spese di consulenze esterne; 50% per spese di relazioni pubbliche e rappresentanza; 50% per spese di auto blu; 10% per le indennità dei sindaci e gov di Regioni e Province; 10% per le indennità dei managers di aziende controllate dagli enti locali. Bene. Non si può essere d’accordo con questo governo, con questi personaggi, perché è contronatura. Le creature del Buio non possono avere ragione, mai. Però io taglierei almeno il 75% delle spese per consulenze esterne, perché gli enti locali con queste trovate buttano via miliardi di euro; e i sindacati, quelli ufficiali, non solo gli autonomi, sono furiosi, perché in questo modo si sviliscono le professionalità interne, si fanno "regali" agli amici, e anche le giunte di sinistra non scherzano. Taglierei minimo il 50% delle spese di relazioni pubbliche e rappresentanze varie, perché questo è un enorme buco nero di cui nessuno è in grado di vedere il fondo. Taglierei almeno il 50% delle auto blu perché tutti ne abusano, è stranoto; e taglierei più del 10% delle indennità varie, perché tutti sanno che i politici italiani sono i più pagati d’Europa. Dunque: è contronatura essere d’accordo coi demoni, però come la mettiamo?
lunedì, novembre 14, 2005
Sono arrivati i calendari
Sì, siamo in pieno periodo. I mensili presentano la brava velina di turno, la starlette doverosamente nuda, o seminuda. Posare per un calendario "in", cioè allegato a un giornale "importante", è un segno di sicuro successo, un segnale di arrivo, o di partenza per una sfolgorante carriera di soap televisive, di film pecorecci di natale (anche se spesso è un percorso accidentato e di breve durata). Poche rifiutano, qualche attrice con un look impegnato, o, cosa rara, di temperamento serioso. Ovviamente poche tra quelle calendariabili, perché non tutte hanno i requisiti giusti: che sono abbastanza rigidi, non tanto sul piano fisico, perché tutte le starlettes sono belle, morfologicamente adeguate; no, il requisito fondamentale è che la sua immagine contenga già un messaggio di peccato, abbia qualche scomparto segreto in cui la fantasia dell’osservatore possa scatenarsi. La modella-calendario di turno deve fare parte del piccolo squadrone di veline, soubrettes, presentatrici che già appaiono semisvestite in video, e che l’osservatore potrà finalmente svestire del tutto, spiare, frugare. Le foto sono studiate accuratamente per questo scopo, e la tecnica è ormai acquisita solidamente e senza alcuna incertezza. Sono ripetitive, sempre uguali da oltre vent’anni. I corpi sono tesi, ritratti perlopiù in pose drammatiche e spesso innaturali. Il nudo è integrale, ma non viene mostrato il pube. C’è questa meticolosa autocensura, questa pruderia mascherata da trasgressione. Sono foto per consumo voyeuristico, non hanno nulla in comune con le cosiddette "foto artistiche"; non sono immagini di ricerca; non sono oggetto di studio della bellezza, dell’armonia (o della disarmonia, perché no), dell’erotismo; appartengono a schemi fissi, e nonostante le luci calde, da spiagge tropicali, sono fredde, distanti, negative. E non cambieranno mai, almeno finché non cambierà la subcultura che genera la domanda; il che, considerando il nostro paese, mi sembra abbastanza improbabile.
Sì, siamo in pieno periodo. I mensili presentano la brava velina di turno, la starlette doverosamente nuda, o seminuda. Posare per un calendario "in", cioè allegato a un giornale "importante", è un segno di sicuro successo, un segnale di arrivo, o di partenza per una sfolgorante carriera di soap televisive, di film pecorecci di natale (anche se spesso è un percorso accidentato e di breve durata). Poche rifiutano, qualche attrice con un look impegnato, o, cosa rara, di temperamento serioso. Ovviamente poche tra quelle calendariabili, perché non tutte hanno i requisiti giusti: che sono abbastanza rigidi, non tanto sul piano fisico, perché tutte le starlettes sono belle, morfologicamente adeguate; no, il requisito fondamentale è che la sua immagine contenga già un messaggio di peccato, abbia qualche scomparto segreto in cui la fantasia dell’osservatore possa scatenarsi. La modella-calendario di turno deve fare parte del piccolo squadrone di veline, soubrettes, presentatrici che già appaiono semisvestite in video, e che l’osservatore potrà finalmente svestire del tutto, spiare, frugare. Le foto sono studiate accuratamente per questo scopo, e la tecnica è ormai acquisita solidamente e senza alcuna incertezza. Sono ripetitive, sempre uguali da oltre vent’anni. I corpi sono tesi, ritratti perlopiù in pose drammatiche e spesso innaturali. Il nudo è integrale, ma non viene mostrato il pube. C’è questa meticolosa autocensura, questa pruderia mascherata da trasgressione. Sono foto per consumo voyeuristico, non hanno nulla in comune con le cosiddette "foto artistiche"; non sono immagini di ricerca; non sono oggetto di studio della bellezza, dell’armonia (o della disarmonia, perché no), dell’erotismo; appartengono a schemi fissi, e nonostante le luci calde, da spiagge tropicali, sono fredde, distanti, negative. E non cambieranno mai, almeno finché non cambierà la subcultura che genera la domanda; il che, considerando il nostro paese, mi sembra abbastanza improbabile.
mercoledì, novembre 09, 2005
I Sempregiovani
Quando il tempo passa, e il corpo umano prosegue nel suo spietato declino fisico, perché non sappiamo in quale altro modo chiamare l’invecchiamento delle cellule e dei tessuti, vi sono persone che provano un grande disagio, forse un vero e proprio terrore, nel verificare questo processo su se stessi. Si soffre a invecchiare, non si accetta questo destino che unisce ricchi e poveri, carnefici e vittime.
Il Sempregiovane cerca di opporsi con tutte le sue forze a questo implacabile processo. Durante il ciclo vitale il corpo, l’aspetto fisico, e spesso la mentalità entrano in fasi di sviluppo diverse, procedono per tappe nel loro cammino di crescita, sviluppo e declino. Quando si diventa “grandi” ci si veste da grandi, si parla da grandi, si agisce da grandi. I Sempregiovani intristiscono quando si rendono conto di essere grandi, o quanto meno che dovrebbero esserlo. Si deprimono, si sentono perduti, condannati. Eccoli quindi, a quaranta, cinquant’anni, che frequentano i negozi di abbigliamento per ragazzi, comprano pantaloni militari, da rapper, da skateboardista, jeans stracciati e camicie col collo alto, a righe sgargianti; inforcano occhiali scuri avvolgenti, all’ultima moda, e non è raro che si facciano tatuare simboli Maori o un filo spinato su un bicipite; si sentono un po’ a disagio attorniati da ragazzini, si sentono fuori posto, ma si sentirebbero peggio a entrare nei negozi per babbioni a comprare pantaloni con la riga, e la giacchetta grigia, e la camicia azzurrastra. Più il tempo passa, e il processus si fa evidente, più loro si accaniscono nelle scelte giovaniliste. Il Sempregiovane cerca anche di mantenere il proprio corpo in forma fisica perfetta, con lunghe corse nei parchi, spesso con due pesi in mano, o in cintura - soffrendo come un cane, ma soddisfatto, in fondo, perché l’arresto del tempo va pagato caro - e una frequentazione più o meno regolare di palestre e centri estetici. In questo sono seguiti dalle Sempregiovani, che devono lottare ancora più duramente contro l’invecchiamento e il terrificante rilassamento dei tessuti. Perché, ovviamente, vi è anche la versione femminile: ho conosciuto di persona alcune Sempregiovani, a Milano, quando mi capitava di frequentare le agenzie di pubbliche relazioni, moda e pubblicità. Erano soprannominate “le belve”, o “le fiere”, per gli atteggiamenti aggressivi. La pelle era brunita, seccata dalle continue lampade, e sul torace scarno, con le ossa in evidenza, perché erano mezze morte di fame per le feroci diete, non mancavano mai lussuose e sfarzose collane; il trucco, benché raffinato, era sempre eccessivo sui loro volti scarnificati di donna matura, e le labbra scarlatte, non ancora gonfiate dalle iniezioni di silicone, sembravano ferite sanguinanti. Indossavano corpetti o giacche di tessuto maculato, calze a rete, scarpe con tacco alto rosse, o viola, o blu, o gialle, o a scacchi stile anni Sessanta.
I Sempregiovani hanno difficoltà spesso dolorose in famiglia. Lui, se è accasato, e spesso lo è, si sente oppresso, e tende a rinchiudersi in uno spazio tutto suo, uno studio, o fuori casa, con gli amici. Quando deve occuparsi della famiglia, quando è costretto a uscire con loro, per una cena al ristorante, o per fare compere, si sente raddoppiare di peso, diventa cupo. Vorrebbe fuggire via, ritrovare la libertà della giovinezza, frequentare gente libera, come lui, perché è libero, nell’abisso dell’animo. Lei raramente ha famiglia, spesso è divorziata, o separata. La famiglia la spaventa, perché è attratta solo dai ragazzi: impazzisce per i corpi maschili giovani, in tiro, scattanti; l’uomo che secondo le regole della società sarebbe adatto a lei, l’uomo maturo, che ha superato i cinquanta e si avvia ai sessanta, con la pancia, le guance che iniziano a cadere, i capelli radi, o grigi, e il tono muscolare in fase calante, le ispira una sorta di repulsione, o di tristezza. Talvolta ci pensa, una voce estranea e sgradevole le dice che non può continuare a correre dietro ai ragazzi, perché i ragazzi se ne fregano di lei, o se la guardano, e l’accettano, è per motivi di interesse, perché sono dei fotomodelli, degli aspiranti qualcuno e lei può aiutarli nella carriera; dovrebbe rivolgersi a un uomo adatto a lei, alla sua età; ma questo è un pensiero straziante, che lei scaccia subito, con un guizzo repentino dell’animo.
I Sempregiovani rifiutano, non si adeguano, cercano di mandare in frantumi i ruoli che pretendono di imprigionarli e di rovinarli: quei ruoli che esaltano attraverso i media la bellezza giovanile, e relegano chi è fuori, chi ha perduto per sempre l’età, nella folta, grigia, triste, claudicante truppa dei brutti, dei vecchi, delle persone di serie B. I Sempregiovani si ribellano a questo destino che è loro imposto dalle convenzioni, ma la loro è una ribellione anomala, è implosiva: inseguono una deterritorializzazione della persona, cercano di spezzare la gabbia degli schemi conformisti, ma finiscono per riterritorializzarsi crudelmente assumendo su di sé proprio gli imperativi di quei ruoli, il conformismo della giovinezza, della moda giovanile propagandata dai media spinta ai limiti estremi.
Per questo, per questa sofferenza senza uscita, per questa contraddizione che si avvita su se stessa, i Sempregiovani sono persone fragili, vulnerabili, e meritano tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà.
Quando il tempo passa, e il corpo umano prosegue nel suo spietato declino fisico, perché non sappiamo in quale altro modo chiamare l’invecchiamento delle cellule e dei tessuti, vi sono persone che provano un grande disagio, forse un vero e proprio terrore, nel verificare questo processo su se stessi. Si soffre a invecchiare, non si accetta questo destino che unisce ricchi e poveri, carnefici e vittime.
Il Sempregiovane cerca di opporsi con tutte le sue forze a questo implacabile processo. Durante il ciclo vitale il corpo, l’aspetto fisico, e spesso la mentalità entrano in fasi di sviluppo diverse, procedono per tappe nel loro cammino di crescita, sviluppo e declino. Quando si diventa “grandi” ci si veste da grandi, si parla da grandi, si agisce da grandi. I Sempregiovani intristiscono quando si rendono conto di essere grandi, o quanto meno che dovrebbero esserlo. Si deprimono, si sentono perduti, condannati. Eccoli quindi, a quaranta, cinquant’anni, che frequentano i negozi di abbigliamento per ragazzi, comprano pantaloni militari, da rapper, da skateboardista, jeans stracciati e camicie col collo alto, a righe sgargianti; inforcano occhiali scuri avvolgenti, all’ultima moda, e non è raro che si facciano tatuare simboli Maori o un filo spinato su un bicipite; si sentono un po’ a disagio attorniati da ragazzini, si sentono fuori posto, ma si sentirebbero peggio a entrare nei negozi per babbioni a comprare pantaloni con la riga, e la giacchetta grigia, e la camicia azzurrastra. Più il tempo passa, e il processus si fa evidente, più loro si accaniscono nelle scelte giovaniliste. Il Sempregiovane cerca anche di mantenere il proprio corpo in forma fisica perfetta, con lunghe corse nei parchi, spesso con due pesi in mano, o in cintura - soffrendo come un cane, ma soddisfatto, in fondo, perché l’arresto del tempo va pagato caro - e una frequentazione più o meno regolare di palestre e centri estetici. In questo sono seguiti dalle Sempregiovani, che devono lottare ancora più duramente contro l’invecchiamento e il terrificante rilassamento dei tessuti. Perché, ovviamente, vi è anche la versione femminile: ho conosciuto di persona alcune Sempregiovani, a Milano, quando mi capitava di frequentare le agenzie di pubbliche relazioni, moda e pubblicità. Erano soprannominate “le belve”, o “le fiere”, per gli atteggiamenti aggressivi. La pelle era brunita, seccata dalle continue lampade, e sul torace scarno, con le ossa in evidenza, perché erano mezze morte di fame per le feroci diete, non mancavano mai lussuose e sfarzose collane; il trucco, benché raffinato, era sempre eccessivo sui loro volti scarnificati di donna matura, e le labbra scarlatte, non ancora gonfiate dalle iniezioni di silicone, sembravano ferite sanguinanti. Indossavano corpetti o giacche di tessuto maculato, calze a rete, scarpe con tacco alto rosse, o viola, o blu, o gialle, o a scacchi stile anni Sessanta.
I Sempregiovani hanno difficoltà spesso dolorose in famiglia. Lui, se è accasato, e spesso lo è, si sente oppresso, e tende a rinchiudersi in uno spazio tutto suo, uno studio, o fuori casa, con gli amici. Quando deve occuparsi della famiglia, quando è costretto a uscire con loro, per una cena al ristorante, o per fare compere, si sente raddoppiare di peso, diventa cupo. Vorrebbe fuggire via, ritrovare la libertà della giovinezza, frequentare gente libera, come lui, perché è libero, nell’abisso dell’animo. Lei raramente ha famiglia, spesso è divorziata, o separata. La famiglia la spaventa, perché è attratta solo dai ragazzi: impazzisce per i corpi maschili giovani, in tiro, scattanti; l’uomo che secondo le regole della società sarebbe adatto a lei, l’uomo maturo, che ha superato i cinquanta e si avvia ai sessanta, con la pancia, le guance che iniziano a cadere, i capelli radi, o grigi, e il tono muscolare in fase calante, le ispira una sorta di repulsione, o di tristezza. Talvolta ci pensa, una voce estranea e sgradevole le dice che non può continuare a correre dietro ai ragazzi, perché i ragazzi se ne fregano di lei, o se la guardano, e l’accettano, è per motivi di interesse, perché sono dei fotomodelli, degli aspiranti qualcuno e lei può aiutarli nella carriera; dovrebbe rivolgersi a un uomo adatto a lei, alla sua età; ma questo è un pensiero straziante, che lei scaccia subito, con un guizzo repentino dell’animo.
I Sempregiovani rifiutano, non si adeguano, cercano di mandare in frantumi i ruoli che pretendono di imprigionarli e di rovinarli: quei ruoli che esaltano attraverso i media la bellezza giovanile, e relegano chi è fuori, chi ha perduto per sempre l’età, nella folta, grigia, triste, claudicante truppa dei brutti, dei vecchi, delle persone di serie B. I Sempregiovani si ribellano a questo destino che è loro imposto dalle convenzioni, ma la loro è una ribellione anomala, è implosiva: inseguono una deterritorializzazione della persona, cercano di spezzare la gabbia degli schemi conformisti, ma finiscono per riterritorializzarsi crudelmente assumendo su di sé proprio gli imperativi di quei ruoli, il conformismo della giovinezza, della moda giovanile propagandata dai media spinta ai limiti estremi.
Per questo, per questa sofferenza senza uscita, per questa contraddizione che si avvita su se stessa, i Sempregiovani sono persone fragili, vulnerabili, e meritano tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà.
giovedì, novembre 03, 2005
Venite a me
Due interventi di maline e Sergio stimolano alcune riflessioni. Riguardo a Celentano siamo tutti stupiti del successo delle sue prediche, di come uno che cantava "Yuppy Du" e recitava nei film pecorecci stia diventando una sorta di telepredicatore nazionale. In particolare Sergio scriveva: "spara le peggiori cazzate da bar con l'aria di un profeta e tutti accolgono queste cazzate come lampi di genio. Veramente incomprensibile"; e maline: "che oggi poi proprio l'Adriano-da-via-Glück venga "osannato" e "chiamato" a rappresentare una parte della lotta contro Berlusconi... beh, la dice tutta sul punto (e sulla miseria) cui si è giunti". Il punto è proprio questo: i predicatori, le cazzate, le banalità, la retorica da bar. Ci inondano, ci sommergono. Ma non è solo un fenomeno italiano, è tipico di tutto l’Occidente moderno, il mondo post-caduta-del-muro diciamo. L’America ne è piena. E da altre parti, dove vi è povertà, corruzione, infuriano gli integralismi, che vengono utilizzati con astuzia dai governanti locali per coprire i proprio fallimenti e le ruberie. C’è un passo del libro di Terzani Buonanotte signor Lenin che mi sembra significativo: durante il lungo viaggio nelle regioni più remote dell’impero sovietico in sfacelo un prete gli dice: (cito a memoria perché ho prestato il libro) "noi siamo per il capitalismo, perché questo sistema distrugge tutti gli ideali e la morale, e la gente si rivolgerà alla Chiesa per avere conforto e spiritualità".
E’ una grande, tremenda verità. Il trionfo del capitalismo sul pianeta, il sistema fondato unicamente sul consumo di beni non necessari, la rovina dell’ambiente, la paura del futuro, della crisi economica sempre minacciosa, della disoccupazione, della guerra, del terrorismo, ha distrutto le ideologie, ma anche le speranze. Nessuno crede più veramente nel futuro, nello "sviluppo". Il tempo è fermo al presente. Eppure è nella nostra natura guardare avanti, credere, sperare, avere fiducia. A questo ci pensano le religioni, e i predicatori fai da te. Tutto ciò è perfettamente funzionale al Potere, che prospera nell’incertezza, e soprattutto nella paura. E’ un’analisi già ampiamente sviluppata da molti commentatori, ed è abbastanza semplice. Quello che non trovo semplice è il motivo per cui nulla cambia. Sui falsi ideali, sulla tendenza dell’uomo a rubare il pane al fratello per avere piaceri e ricchezze il dio terribile dell’Antico Testamento scaglia i suoi anatemi e le maledizioni; e Gesù caccia fuori a calci i mercanti dal tempio; sono problematiche eterne, già affrontate dagli antichi. Eppure i mercanti tornano sempre, più arroganti che mai. Pochi individuo, furbi, senza scrupoli, controllano le risorse del pianeta e causano la morte per fame di milioni di persone. E nulla cambia. L’uomo non riesce a darsi un’organizzazione sociale positiva, non riesce a trovare un rapporto pacifico coi suoi simili e con la natura. Questo non è per nulla semplice, è incomprensibile e angosciante.
Comunque stasera dal vekkio caciarone c’è Patti Smith, non perdiamocela. Speriamo solo che, come si mormora da tempo, non spunti fuori, lui, sì, proprio lui, il Berlusca in persona.
Due interventi di maline e Sergio stimolano alcune riflessioni. Riguardo a Celentano siamo tutti stupiti del successo delle sue prediche, di come uno che cantava "Yuppy Du" e recitava nei film pecorecci stia diventando una sorta di telepredicatore nazionale. In particolare Sergio scriveva: "spara le peggiori cazzate da bar con l'aria di un profeta e tutti accolgono queste cazzate come lampi di genio. Veramente incomprensibile"; e maline: "che oggi poi proprio l'Adriano-da-via-Glück venga "osannato" e "chiamato" a rappresentare una parte della lotta contro Berlusconi... beh, la dice tutta sul punto (e sulla miseria) cui si è giunti". Il punto è proprio questo: i predicatori, le cazzate, le banalità, la retorica da bar. Ci inondano, ci sommergono. Ma non è solo un fenomeno italiano, è tipico di tutto l’Occidente moderno, il mondo post-caduta-del-muro diciamo. L’America ne è piena. E da altre parti, dove vi è povertà, corruzione, infuriano gli integralismi, che vengono utilizzati con astuzia dai governanti locali per coprire i proprio fallimenti e le ruberie. C’è un passo del libro di Terzani Buonanotte signor Lenin che mi sembra significativo: durante il lungo viaggio nelle regioni più remote dell’impero sovietico in sfacelo un prete gli dice: (cito a memoria perché ho prestato il libro) "noi siamo per il capitalismo, perché questo sistema distrugge tutti gli ideali e la morale, e la gente si rivolgerà alla Chiesa per avere conforto e spiritualità".
E’ una grande, tremenda verità. Il trionfo del capitalismo sul pianeta, il sistema fondato unicamente sul consumo di beni non necessari, la rovina dell’ambiente, la paura del futuro, della crisi economica sempre minacciosa, della disoccupazione, della guerra, del terrorismo, ha distrutto le ideologie, ma anche le speranze. Nessuno crede più veramente nel futuro, nello "sviluppo". Il tempo è fermo al presente. Eppure è nella nostra natura guardare avanti, credere, sperare, avere fiducia. A questo ci pensano le religioni, e i predicatori fai da te. Tutto ciò è perfettamente funzionale al Potere, che prospera nell’incertezza, e soprattutto nella paura. E’ un’analisi già ampiamente sviluppata da molti commentatori, ed è abbastanza semplice. Quello che non trovo semplice è il motivo per cui nulla cambia. Sui falsi ideali, sulla tendenza dell’uomo a rubare il pane al fratello per avere piaceri e ricchezze il dio terribile dell’Antico Testamento scaglia i suoi anatemi e le maledizioni; e Gesù caccia fuori a calci i mercanti dal tempio; sono problematiche eterne, già affrontate dagli antichi. Eppure i mercanti tornano sempre, più arroganti che mai. Pochi individuo, furbi, senza scrupoli, controllano le risorse del pianeta e causano la morte per fame di milioni di persone. E nulla cambia. L’uomo non riesce a darsi un’organizzazione sociale positiva, non riesce a trovare un rapporto pacifico coi suoi simili e con la natura. Questo non è per nulla semplice, è incomprensibile e angosciante.
Comunque stasera dal vekkio caciarone c’è Patti Smith, non perdiamocela. Speriamo solo che, come si mormora da tempo, non spunti fuori, lui, sì, proprio lui, il Berlusca in persona.
martedì, novembre 01, 2005
Che fine ha fatto la meraviglia? E i meravigliosi?
Se proprio dovete andare, se il richiamo è troppo forte – come lo è stato per me – scegliete almeno la prima proiezione, perché durante la seconda, dopo le 22.30, se siete un po’ stanchi The interpreter vi farà piombare in sonno tombale. Il film è piuttosto monotono, per due terzi non accade assolutamente nulla, la storia non è particolarmente avvincente né è sviluppata con stile originale. Ero molto attratto dalla grande firma di Sidney Pollack, pensavo: finalmente uno di quelli tosti, in questi tempi di commedie o di kolossal hollywoodiani e qualche italianata sentimentale. Invece niente da fare. Un racconto lento, scarsamente intrigante, con pochi colpi di scena. Sean Penn, nei panni di un poliziotto buono e malinconico, sembra sempre sul punto di addormentarsi, come lo spettatore; almeno Nicole Kidman, ripresa in frequentissimi primi piani che mostrano la trama della pelle, lo strato del trucco e i capillari degli occhi, è molto fotogenica; e la poliziotta socia di Penn ha un viso interessante: sono le cose migliori di questo pizzone surgelato.
Oggi il marketing è padrone dei nostri gusti, determina le nostre esigenze. Confezionano gli spot, i trailers con una tale carica che tutti corriamo a vedere The interpreter, o la burbanzata di turno, e usciamo regolarmente delusi, e magari un po’ arrabbiati; qua a Bologna per esempio il marketing ha martellato sull’ultimo libro di Grisham, The Broker (una volta in Italia si traducevano anche i colpi di tosse, oggi guai a togliere la patina di americano) e tutti corrono a comprarlo, come un oggetto prezioso, raro (mentre è presente, sotto forma di altipiano, in tutte le librerie), poi lo iniziano, e si piantano perché è una noia, fa schifo. C’è sempre questa attesa per l’ultima meraviglia, e questa delusione perché la meraviglia promessa non esiste, è solo fumo, solo packaging. Ma poi si ricomincia, si corre, si compra con una sorta di affanno, e si impreca.
Non esiste più la meraviglia? I freddi managers che hanno occupato le case editrici, le case discografiche e cinematografiche l’hanno uccisa, come si dice da tempo? Può darsi. Solo dalla libera creatività, dalla fantasia liberata, dal coraggio, dalla sfida, e dalla sofferenza, nasce la meraviglia artistica. I prodotti in linea con le mode, con le esigenze del mercato, i prodotti da supermarket, non contengono la meraviglia. Tutto è medio, costruito, manierista.
Ma non è solo colpa dei freddi managers. E’ anche colpa nostra. Se gli artisti, quelli veri, sono in sonno, o gridano nel buio, è anche perché noi, impegnati nell’opera di quotidiana omologazione, noi che corriamo a Mediaword a meravigliarci per le ultima, strabilianti offerte di quel mondo sfavillante di consumi facili, noi non siamo più disposti ad ascoltarli.
Se proprio dovete andare, se il richiamo è troppo forte – come lo è stato per me – scegliete almeno la prima proiezione, perché durante la seconda, dopo le 22.30, se siete un po’ stanchi The interpreter vi farà piombare in sonno tombale. Il film è piuttosto monotono, per due terzi non accade assolutamente nulla, la storia non è particolarmente avvincente né è sviluppata con stile originale. Ero molto attratto dalla grande firma di Sidney Pollack, pensavo: finalmente uno di quelli tosti, in questi tempi di commedie o di kolossal hollywoodiani e qualche italianata sentimentale. Invece niente da fare. Un racconto lento, scarsamente intrigante, con pochi colpi di scena. Sean Penn, nei panni di un poliziotto buono e malinconico, sembra sempre sul punto di addormentarsi, come lo spettatore; almeno Nicole Kidman, ripresa in frequentissimi primi piani che mostrano la trama della pelle, lo strato del trucco e i capillari degli occhi, è molto fotogenica; e la poliziotta socia di Penn ha un viso interessante: sono le cose migliori di questo pizzone surgelato.
Oggi il marketing è padrone dei nostri gusti, determina le nostre esigenze. Confezionano gli spot, i trailers con una tale carica che tutti corriamo a vedere The interpreter, o la burbanzata di turno, e usciamo regolarmente delusi, e magari un po’ arrabbiati; qua a Bologna per esempio il marketing ha martellato sull’ultimo libro di Grisham, The Broker (una volta in Italia si traducevano anche i colpi di tosse, oggi guai a togliere la patina di americano) e tutti corrono a comprarlo, come un oggetto prezioso, raro (mentre è presente, sotto forma di altipiano, in tutte le librerie), poi lo iniziano, e si piantano perché è una noia, fa schifo. C’è sempre questa attesa per l’ultima meraviglia, e questa delusione perché la meraviglia promessa non esiste, è solo fumo, solo packaging. Ma poi si ricomincia, si corre, si compra con una sorta di affanno, e si impreca.
Non esiste più la meraviglia? I freddi managers che hanno occupato le case editrici, le case discografiche e cinematografiche l’hanno uccisa, come si dice da tempo? Può darsi. Solo dalla libera creatività, dalla fantasia liberata, dal coraggio, dalla sfida, e dalla sofferenza, nasce la meraviglia artistica. I prodotti in linea con le mode, con le esigenze del mercato, i prodotti da supermarket, non contengono la meraviglia. Tutto è medio, costruito, manierista.
Ma non è solo colpa dei freddi managers. E’ anche colpa nostra. Se gli artisti, quelli veri, sono in sonno, o gridano nel buio, è anche perché noi, impegnati nell’opera di quotidiana omologazione, noi che corriamo a Mediaword a meravigliarci per le ultima, strabilianti offerte di quel mondo sfavillante di consumi facili, noi non siamo più disposti ad ascoltarli.
venerdì, ottobre 28, 2005
Guardando, leggendo, comici spaventati ricettori
Aspettando Benigni a Rockpolitik, ho avuto uno scatto di insofferenza quando Adriano Celentano ha tirato fuori la sua animaccia di vekkio democristiano reazionario, durante la lettura del lento e del rock: "Zapatero è lento, lentissimo". Triste. Ci fossero più Zapatero nel mondo la vita, l’ambiente, tutto migliorerebbe. Poi c’è stata la predica, lunga, pesante, con quell’interminabile blob di politici; pazienza, lasciare scorrere il tempo, magari pensando ad altro, cambiando canale; e le canzoni, ovviamente, un prezzo alto da pagare, per il sottoscritto; ma si aspetta, senza fretta, perché immagino che la fretta sia lenta; di Valentino Rossi c’è da segnalare la faccetta sorridente, simpatica, dell’eterno ragazzino; che altro? Finalmente è arrivato lui, ed è stato fantastico. Una parentesi di altissima qualità, di pura comicità classica, con citazioni di Totò, dei saltimbanchi da circo; caustico, coraggioso, irridente; vera arte, energia pura. Dicono che Benigni, dopo il matrimonio con la Braschi, che descrivono come donna seria, osservante, si sia appannato, abbia ceduto troppo al businness; lo spettacolo di ieri sera ha dimostrato il contrario: il suo talento pazzoide, geniale, è intatto, e si rinnova. Invece mi preoccupa la reazione composta delle jene della Destra. Perché? Forse quella di Benigni è una satira inoffensiva? Oppure, più probabilmente, stanno diventando moderni? Trovo questa seconda ipotesi semplicemente terrificante. Loro, i killers, i censori, si mettono al passo coi tempi. Da ladroni di una destraccia gaglioffa e bananiera si riciclano in illuminati del centro. Sono ancora più pericolosi, una minaccia letale… è questo il vero horror.
L’intellettuale parlante Francesco Merlo, quello che, dalle colonne portanti de La Repubblica, lanciò un anatema contro gli antiquati, polverosi, nostalgici intellettuali che non dichiaravano il proprio amore incondizionato per le sorelle Lecciso, chiamandoli "scimmie di Umberto Eco", l’altro giorno, sempre dalla sua tribuna, ha fatto uscire un elzeviro dove, col consueto stile arzigogolato e mondano, ha tentato di dimostrare l’equazione Bertinotti = Cuffaro; e ha scritto, tra l’altro, che "al Nord la Destra lombrosoneggia". Mi è venuto un crampo. Credo che l’intellettuale parlante modaiolo risieda in Francia, e mi chiedo: perché scrive in Italia? Ma soprattutto, perché lo leggo?
Aspettando Benigni a Rockpolitik, ho avuto uno scatto di insofferenza quando Adriano Celentano ha tirato fuori la sua animaccia di vekkio democristiano reazionario, durante la lettura del lento e del rock: "Zapatero è lento, lentissimo". Triste. Ci fossero più Zapatero nel mondo la vita, l’ambiente, tutto migliorerebbe. Poi c’è stata la predica, lunga, pesante, con quell’interminabile blob di politici; pazienza, lasciare scorrere il tempo, magari pensando ad altro, cambiando canale; e le canzoni, ovviamente, un prezzo alto da pagare, per il sottoscritto; ma si aspetta, senza fretta, perché immagino che la fretta sia lenta; di Valentino Rossi c’è da segnalare la faccetta sorridente, simpatica, dell’eterno ragazzino; che altro? Finalmente è arrivato lui, ed è stato fantastico. Una parentesi di altissima qualità, di pura comicità classica, con citazioni di Totò, dei saltimbanchi da circo; caustico, coraggioso, irridente; vera arte, energia pura. Dicono che Benigni, dopo il matrimonio con la Braschi, che descrivono come donna seria, osservante, si sia appannato, abbia ceduto troppo al businness; lo spettacolo di ieri sera ha dimostrato il contrario: il suo talento pazzoide, geniale, è intatto, e si rinnova. Invece mi preoccupa la reazione composta delle jene della Destra. Perché? Forse quella di Benigni è una satira inoffensiva? Oppure, più probabilmente, stanno diventando moderni? Trovo questa seconda ipotesi semplicemente terrificante. Loro, i killers, i censori, si mettono al passo coi tempi. Da ladroni di una destraccia gaglioffa e bananiera si riciclano in illuminati del centro. Sono ancora più pericolosi, una minaccia letale… è questo il vero horror.
L’intellettuale parlante Francesco Merlo, quello che, dalle colonne portanti de La Repubblica, lanciò un anatema contro gli antiquati, polverosi, nostalgici intellettuali che non dichiaravano il proprio amore incondizionato per le sorelle Lecciso, chiamandoli "scimmie di Umberto Eco", l’altro giorno, sempre dalla sua tribuna, ha fatto uscire un elzeviro dove, col consueto stile arzigogolato e mondano, ha tentato di dimostrare l’equazione Bertinotti = Cuffaro; e ha scritto, tra l’altro, che "al Nord la Destra lombrosoneggia". Mi è venuto un crampo. Credo che l’intellettuale parlante modaiolo risieda in Francia, e mi chiedo: perché scrive in Italia? Ma soprattutto, perché lo leggo?
mercoledì, ottobre 26, 2005
L’era degli Uomini Grigi
Un paio di anni fa Pietro Citati, in un lungo articolo, giudicava severamente la scuola moderna, in particolare il tempo prolungato, che, se da un lato permette ai genitori, oberati di impegni, di "parcheggiare" i figli, e inserisce nei programmi materie e attività più creative, dall’altro sottrae a questi ultimi una parte della loro adolescenza, o preadolescenza. Non c’è rispetto, scriveva, per i loro ritmi, per le esigenze di gioco, di nomadismo; ricordava come lui, da ragazzino, tornava da scuola e subito correva a giocare, andava a zonzo; oggi invece, una volta tornati a casa dopo una giornata di lavoro, devono chinarsi sui compiti. Devono stare al passo, tenere duro, perché la scuola non permette di restare indietro, si diventa di serie B, si soffre nei confronti degli amici, che nell’atmosfera competitiva combattono duramente per primeggiare. Non è più possibile prendersi il proprio tempo, è severamente vietato perdere tempo, perché il tempo è diventato prezioso, un bene ad altissima potenzialità di scambio.
Lessi quell’articolo con una sorta di dubbioso interesse, perché sapevo che, con l’attuale organizzazione della vita, per una famiglia il tempo prolungato può essere un’ancora di salvezza.
Oggi, che mia figlia è passata in prima media col tempo prolungato, sono dolorosamente d’accordo.
Dobbiamo incalzarla, talvolta sgridarla, perché alla fine delle lezioni, a 11 anni, ha voglia, ha il diritto di perdersi nei giochi, nei sogni. Invece no, "non c’è tempo!". Questa frase, che si ripete minacciosa, mi ricorda Momo, il bel cartone animato di Enzo D’Alò, il regista de La gabbianella e il gatto: gli Uomini Grigi sono i predatori del tempo degli esseri umani, li attaccano con tutti i mezzi, cercano di sottrarre loro questo bene prezioso. Tutti noi siamo Uomini Grigi ormai, anche se questo ruolo ci fa soffrire, perché col cuore siamo dalla parte dei ragazzini, ma non c’è alternativa: o si è ricchi, e furbi, come la Moratti, come Berlusconi, che mentre "riformano" la scuola pubblica mandano i loro figli dagli steineriani, o si è costretti ad adeguarsi, perché non c’è alternativa. Non c’è una via d’uscita. Se procedi con lentezza, se contesti - e non la Moratti, no, se contesti il sistema - sei fuori, perché il sistema non ti aspetta, non perdona. E se lotti per cambiare puoi cambiare dei dettagli, ma non l’essenza, perché il sistema non è di destra né di sinistra, è dentro di noi, è il modulo di autodifesa – o di autodistruzione - della società umana.
Mia figlia alla sera è spesso nervosa. Esce poco, vede raramente le amiche fuori dall’orario scolastico, deve correre, darsi da fare, perché c’è l’incubo di non farcela, e di andare a scuola, il mattino dopo, senza avere terminato i compiti. E noi siamo nervosi con lei. Io lo sono, e talvolta alzo la voce, e discutiamo e litighiamo. "E’ tardi" dice l’Uomo Grigio, "non perdere tempo!". L’altra sera scalciava, rispondeva male, c’è stato uno scambio di battute aspre. Io vagavo per la casa teso e angosciato, io, l’Uomo Grigio mio malgrado; così sono andato in camera da letto, ho indossato la tuta da ginnastica, sono salito sul materasso e l’ho chiamata. E’ arrivata con espressione abbastanza truce, ha detto "cosa c’è?". E io: "forza, vieni". Lei mi ha guardato, ha detto "cosa?" E io: "dai, salta su". Ha capito. E’ saltata sul letto e abbiamo subito iniziato una lotta furiosa. Gridava, mi assaliva, mi rompeva le costole coi ginocchi. Abbiamo lottato per una mezz’ora, e alla fine eravamo esausti e sudati, io con le ossa rotte e la schiena indolenzita. Ma la nostra espressione era mutata. Le nostre facce, prima indurite, corrucciate, erano distese. Poi lei mi ha chiesto: "eri nervoso prima?" E io: "sì". E lei: "anch’io". E io: "e adesso?" E lei: "non più. Sai una cosa?" ha soggiunto, "hai avuto proprio una grande idea". Mi sono sentito bene, meno grigio, e ho vagato per la casa gonfio come un galletto di euforia e di soddisfazione.
Lottate spesso coi vostri figli. La lotta è una pratica antichissima, serve per scaricare tensioni, ma anche rancori, che vengono sublimati, raffinati ed espulsi. La lotta è il miglior antitodo contro la depressione, il pessimismo e la paura. Lottate spesso con loro, fateli faticare, fateli sudare, e fateli vincere, perché non sono molte le occasioni di vittoria nella società degli Uomini Grigi.
Un paio di anni fa Pietro Citati, in un lungo articolo, giudicava severamente la scuola moderna, in particolare il tempo prolungato, che, se da un lato permette ai genitori, oberati di impegni, di "parcheggiare" i figli, e inserisce nei programmi materie e attività più creative, dall’altro sottrae a questi ultimi una parte della loro adolescenza, o preadolescenza. Non c’è rispetto, scriveva, per i loro ritmi, per le esigenze di gioco, di nomadismo; ricordava come lui, da ragazzino, tornava da scuola e subito correva a giocare, andava a zonzo; oggi invece, una volta tornati a casa dopo una giornata di lavoro, devono chinarsi sui compiti. Devono stare al passo, tenere duro, perché la scuola non permette di restare indietro, si diventa di serie B, si soffre nei confronti degli amici, che nell’atmosfera competitiva combattono duramente per primeggiare. Non è più possibile prendersi il proprio tempo, è severamente vietato perdere tempo, perché il tempo è diventato prezioso, un bene ad altissima potenzialità di scambio.
Lessi quell’articolo con una sorta di dubbioso interesse, perché sapevo che, con l’attuale organizzazione della vita, per una famiglia il tempo prolungato può essere un’ancora di salvezza.
Oggi, che mia figlia è passata in prima media col tempo prolungato, sono dolorosamente d’accordo.
Dobbiamo incalzarla, talvolta sgridarla, perché alla fine delle lezioni, a 11 anni, ha voglia, ha il diritto di perdersi nei giochi, nei sogni. Invece no, "non c’è tempo!". Questa frase, che si ripete minacciosa, mi ricorda Momo, il bel cartone animato di Enzo D’Alò, il regista de La gabbianella e il gatto: gli Uomini Grigi sono i predatori del tempo degli esseri umani, li attaccano con tutti i mezzi, cercano di sottrarre loro questo bene prezioso. Tutti noi siamo Uomini Grigi ormai, anche se questo ruolo ci fa soffrire, perché col cuore siamo dalla parte dei ragazzini, ma non c’è alternativa: o si è ricchi, e furbi, come la Moratti, come Berlusconi, che mentre "riformano" la scuola pubblica mandano i loro figli dagli steineriani, o si è costretti ad adeguarsi, perché non c’è alternativa. Non c’è una via d’uscita. Se procedi con lentezza, se contesti - e non la Moratti, no, se contesti il sistema - sei fuori, perché il sistema non ti aspetta, non perdona. E se lotti per cambiare puoi cambiare dei dettagli, ma non l’essenza, perché il sistema non è di destra né di sinistra, è dentro di noi, è il modulo di autodifesa – o di autodistruzione - della società umana.
Mia figlia alla sera è spesso nervosa. Esce poco, vede raramente le amiche fuori dall’orario scolastico, deve correre, darsi da fare, perché c’è l’incubo di non farcela, e di andare a scuola, il mattino dopo, senza avere terminato i compiti. E noi siamo nervosi con lei. Io lo sono, e talvolta alzo la voce, e discutiamo e litighiamo. "E’ tardi" dice l’Uomo Grigio, "non perdere tempo!". L’altra sera scalciava, rispondeva male, c’è stato uno scambio di battute aspre. Io vagavo per la casa teso e angosciato, io, l’Uomo Grigio mio malgrado; così sono andato in camera da letto, ho indossato la tuta da ginnastica, sono salito sul materasso e l’ho chiamata. E’ arrivata con espressione abbastanza truce, ha detto "cosa c’è?". E io: "forza, vieni". Lei mi ha guardato, ha detto "cosa?" E io: "dai, salta su". Ha capito. E’ saltata sul letto e abbiamo subito iniziato una lotta furiosa. Gridava, mi assaliva, mi rompeva le costole coi ginocchi. Abbiamo lottato per una mezz’ora, e alla fine eravamo esausti e sudati, io con le ossa rotte e la schiena indolenzita. Ma la nostra espressione era mutata. Le nostre facce, prima indurite, corrucciate, erano distese. Poi lei mi ha chiesto: "eri nervoso prima?" E io: "sì". E lei: "anch’io". E io: "e adesso?" E lei: "non più. Sai una cosa?" ha soggiunto, "hai avuto proprio una grande idea". Mi sono sentito bene, meno grigio, e ho vagato per la casa gonfio come un galletto di euforia e di soddisfazione.
Lottate spesso coi vostri figli. La lotta è una pratica antichissima, serve per scaricare tensioni, ma anche rancori, che vengono sublimati, raffinati ed espulsi. La lotta è il miglior antitodo contro la depressione, il pessimismo e la paura. Lottate spesso con loro, fateli faticare, fateli sudare, e fateli vincere, perché non sono molte le occasioni di vittoria nella società degli Uomini Grigi.
venerdì, ottobre 21, 2005
A.C.S.T.V.
(Alcune Cazzate Sulla TV)
Rockpolitik, l’evento televisivo dell’anno: poiché aspettavo con curiosità l’arrivo di Santoro ho sopportato stoicamente Celentano che cantava, che per per me equivale, più o meno, a spostare dei sacchi di cemento di 50Kg (che ho davvero spostato nei cantieri, per un certo periodo della mia vita). Devo dire comunque che la lettura di ciò che è lento e ciò che è rock è stato divertente, con quel chitarrista bravo che sembrava Jimmy Page da giovane; e tutta la vicenda della censura, con Berlusconi minaccioso che sembrava Pinochet, e Santoro così accorato, e Biagi, Luttazzi, è stato forte, una volta tanto senza falsi pudori, senza ipocrisie, Ed è bello assistere, il giorno dopo, alle reazioni scomposte dei giannizzeri della destra. Che non si prendono davvero sul serio, ho idea; perché, come ha detto Santoro, forse l’epoca del più turpe pecoreccio italiano in politica sta lentamente tramontando; prende nuovamente forma, per l’ennesima volta, forse per l’eternità, il centro, e i parassiti, le belve fameliche ululano, ma si stanno già riciclando.
Lo spot della Wolkswagen è odioso. Fa pubblicità a un gioco mortale, il salto dai ponti (alcuni ragazzi si sono sfracellati con questo sport). Poi è un inno all’ipocrisia, alla coscienza sporca, che viene rappresentata con finta ironia, con stile glam. E’ eticamente laido, una porcheria. Meglio quello della BMW, che scorre sulla musica di Jimi Hendrix.
Abbasso la W!
(Alcune Cazzate Sulla TV)
Rockpolitik, l’evento televisivo dell’anno: poiché aspettavo con curiosità l’arrivo di Santoro ho sopportato stoicamente Celentano che cantava, che per per me equivale, più o meno, a spostare dei sacchi di cemento di 50Kg (che ho davvero spostato nei cantieri, per un certo periodo della mia vita). Devo dire comunque che la lettura di ciò che è lento e ciò che è rock è stato divertente, con quel chitarrista bravo che sembrava Jimmy Page da giovane; e tutta la vicenda della censura, con Berlusconi minaccioso che sembrava Pinochet, e Santoro così accorato, e Biagi, Luttazzi, è stato forte, una volta tanto senza falsi pudori, senza ipocrisie, Ed è bello assistere, il giorno dopo, alle reazioni scomposte dei giannizzeri della destra. Che non si prendono davvero sul serio, ho idea; perché, come ha detto Santoro, forse l’epoca del più turpe pecoreccio italiano in politica sta lentamente tramontando; prende nuovamente forma, per l’ennesima volta, forse per l’eternità, il centro, e i parassiti, le belve fameliche ululano, ma si stanno già riciclando.
Lo spot della Wolkswagen è odioso. Fa pubblicità a un gioco mortale, il salto dai ponti (alcuni ragazzi si sono sfracellati con questo sport). Poi è un inno all’ipocrisia, alla coscienza sporca, che viene rappresentata con finta ironia, con stile glam. E’ eticamente laido, una porcheria. Meglio quello della BMW, che scorre sulla musica di Jimi Hendrix.
Abbasso la W!
martedì, ottobre 18, 2005
Un viaggio di Tiziano Terzani
Da tempo volevo affrontare l’opera di Tiziano Terzani, l’autore delle Lettere contro la guerra, ma poiché è uno scrittore molto prolifico, non riuscivo a decidere come e quando cominciare. Partire dall’ultimo libro, Ultimo giro di giostra, che per le tematiche affrontate è quello che più mi interessa? In libreria a lungo soppesavo i grossi tomi, e leggiucchiavo qua e là, senza capirci granché, come al solito (questo, dicono, è il sistema usato dagli editori per valutare i manoscritti, ma non fa per me); infine ho comprato due testi, l’ultimo, ovviamente, ma l’ho riposto sullo scaffale, perché ho deciso di iniziare con Buonanotte signor Lenin, l’opera del Terzani giornalista, del Terzani operativo, del grande viaggiatore. Quello che segue è il resoconto di questa lettura, mentre Ultimo giro di giostra attualmente è a pagina 80.
Nel 1991 il nostro autore si trova all’estremo confine dell’ex URSS con la Cina, lungo il fiume Amur, quando viene raggiunto dalla notizia del tentativo di colpo di Stato contro Gorbaciov e la sua perestrojka (ricordate le immagini dei carri armati e di Eltsin sulle barricate?). Immediatamente l’infallibile fiuto del grande giornalista intuisce che la svolta è storica: la caduta definitiva del regime. Inizia così un viaggio, spesso con mezzi di fortuna, attraverso l’immenso territorio dell'URSS, nella Russia asiatica, nel Caucaso musulmano, fino a Mosca. E’ una discesa agli inferi: come l’autore – e con lui il lettore – ha capito, in realtà il regime è già caduto, si è sgretolato nella sua inefficienza, nei continui niet, feroci ed esilaranti, che accompagnano il viaggiatore in cerca di una stanza, un biglietto, un’informazione; è tracollato nell’apatia della gente, nel fatalismo senza speranza, nella corruzione. Quello che resta è un ammasso di rovine, terra di conquista di mafiosi rampanti, imprenditori senza scrupoli, politici riciclati. Ovunque vi è grigiore, povertà estrema, infelicità. Le persone sono di aspetto trascurato, malaticcio, curve sotto il peso della miseria e della sventura : “C’è un dettaglio piacevole? Una faccia sorridente? Mai”. E’ un’umanità spettrale, che si trascina per strade dissestate e fangose. La potenza di un tempo, la tracotanza del regime sono visibili solo dalle gigantesche statue di Lenin e degli eroi della rivoluzione che troneggiano in ogni città, in ogni piazza; oppure dai resti dell’edilizia sovietica, tronfia, minacciosa, simbolo della brutta architettura comunista. Per il resto le città e i villaggi sono degradati oltre ogni limite e tutto cade a pezzi, tutto è invaso da rifiuti, mentre i popoli si dividono, e tornano a riaffiorare antichi odi.
Il Terzani di questo libro, di questo viaggio, è il grande reporter che studia l’ambiente e i personaggi, che vuole conoscere, che intervista, che scava sotto la superficie dell’apparenza, che raccoglie informazioni con instancabile, meticolosa precisione. Racconta storie, fornisce dati, cenni storici. Non è Bruce Chatwin, non è lunare, sognatore; è uno scrittore di viaggi funzionale all’uso, esatto, coerente; per cui non abbiamo dubbi sul fatto che ciò di cui ci parla corrisponde alla realtà dei fatti; non dubitiamo che il disastro sociale che ci descrive sia reale, e probabilmente irreversibile.
Eppure, qualcosa mi ha disturbato. Più volte ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per una irritazione serpeggiante che “scaldava” la lettura fino a provocare una vera e propria ripulsa. Perché? L’ho scoperto presto. Nel testo aleggia, come una sovrastruttura non scritta, non dichiarata, un eccesso di anticomunismo che sfugge al metro esatto col quale l’autore misura la realtà. Qui non si vogliono certo giustificare le catastrofi causate dalle politiche sociali e ambientali del regime, ma non si può, in una analisi storica, non diversificare la Rivoluzione d’Ottobre dall’involuzione stalinista, dalla chiusura estrema causata anche dalla Guerra Fredda. Capire non è giustificare. Occorre semplicemente mantenere la lucidità fino in fondo. Terzani inorridisce di fronte all’architettura comunista, fatta di casermoni, alveari, scatoloni che deturpano il paesaggio; rimpiange l’eleganza zarista, il culto del bello, cancellato dalla brutalità dell’industria pesante sovietica. E’ vero, come negarlo? Ma non può esservi solo rimpianto. Come possiamo dimenticare che l’eleganza degli zar era costruita sulla miseria nel popolo russo, e gli eleganti edificatori rubavano persino il latte che serviva per alimentare i bambini? E che i quartieri-mostro edificati dal regime, obbrobri che ora bisognerebbe abbattere, servivano per dare una casa a tutti? Questo fatto non rappresenta certo una giustificazione, ma deve comunque essere valutato, ha un peso, un valore. E talvolta Terzani è costretto ad ammetterlo, seppure a denti stretti: al vecchio ordine repressivo e ottuso, corrotto e volgare, si sostituisce il non-ordine del denaro, della prepotenza e della speculazione, con una tale violenza che in certi casi si può addirittura rimpiangere il passato.
Molti libri, anche grandi, hanno dei difetti: in certi casi è la noia, la piattezza della scrittura, il manierismo, una trama troppo intricata, un eccesso di personaggi, e altro ancora; dalla gravità di questi difetti, e dalla bellezza dell’opera, dipende la possibilità di perdonarli oppure no. Il difetto di questo libro di Terzani, un anticomunismo che talvolta assume toni berlusconiani (c’è addirittura “la mente irriverente e sacrilega dei comunisti sovietici”) è perfettamente perdonabile, perché scaturisce dal profondo di una personalità anarco-borghese che ha orrore dell’ordine costituito, delle leggi, dei divieti; ed è bilanciato dalla vivacità della narrazione, dalla quantità di storie che ci meravigliano, ci stupiscono, ci fanno ridere e riflettere; dalla folla di personaggi strambi, dalle leggende, dalla pazzia che lo pervade; e dalla sincerità del suo autore, che è forse il pregio più grande e indimenticabile.
Da tempo volevo affrontare l’opera di Tiziano Terzani, l’autore delle Lettere contro la guerra, ma poiché è uno scrittore molto prolifico, non riuscivo a decidere come e quando cominciare. Partire dall’ultimo libro, Ultimo giro di giostra, che per le tematiche affrontate è quello che più mi interessa? In libreria a lungo soppesavo i grossi tomi, e leggiucchiavo qua e là, senza capirci granché, come al solito (questo, dicono, è il sistema usato dagli editori per valutare i manoscritti, ma non fa per me); infine ho comprato due testi, l’ultimo, ovviamente, ma l’ho riposto sullo scaffale, perché ho deciso di iniziare con Buonanotte signor Lenin, l’opera del Terzani giornalista, del Terzani operativo, del grande viaggiatore. Quello che segue è il resoconto di questa lettura, mentre Ultimo giro di giostra attualmente è a pagina 80.
Nel 1991 il nostro autore si trova all’estremo confine dell’ex URSS con la Cina, lungo il fiume Amur, quando viene raggiunto dalla notizia del tentativo di colpo di Stato contro Gorbaciov e la sua perestrojka (ricordate le immagini dei carri armati e di Eltsin sulle barricate?). Immediatamente l’infallibile fiuto del grande giornalista intuisce che la svolta è storica: la caduta definitiva del regime. Inizia così un viaggio, spesso con mezzi di fortuna, attraverso l’immenso territorio dell'URSS, nella Russia asiatica, nel Caucaso musulmano, fino a Mosca. E’ una discesa agli inferi: come l’autore – e con lui il lettore – ha capito, in realtà il regime è già caduto, si è sgretolato nella sua inefficienza, nei continui niet, feroci ed esilaranti, che accompagnano il viaggiatore in cerca di una stanza, un biglietto, un’informazione; è tracollato nell’apatia della gente, nel fatalismo senza speranza, nella corruzione. Quello che resta è un ammasso di rovine, terra di conquista di mafiosi rampanti, imprenditori senza scrupoli, politici riciclati. Ovunque vi è grigiore, povertà estrema, infelicità. Le persone sono di aspetto trascurato, malaticcio, curve sotto il peso della miseria e della sventura : “C’è un dettaglio piacevole? Una faccia sorridente? Mai”. E’ un’umanità spettrale, che si trascina per strade dissestate e fangose. La potenza di un tempo, la tracotanza del regime sono visibili solo dalle gigantesche statue di Lenin e degli eroi della rivoluzione che troneggiano in ogni città, in ogni piazza; oppure dai resti dell’edilizia sovietica, tronfia, minacciosa, simbolo della brutta architettura comunista. Per il resto le città e i villaggi sono degradati oltre ogni limite e tutto cade a pezzi, tutto è invaso da rifiuti, mentre i popoli si dividono, e tornano a riaffiorare antichi odi.
Il Terzani di questo libro, di questo viaggio, è il grande reporter che studia l’ambiente e i personaggi, che vuole conoscere, che intervista, che scava sotto la superficie dell’apparenza, che raccoglie informazioni con instancabile, meticolosa precisione. Racconta storie, fornisce dati, cenni storici. Non è Bruce Chatwin, non è lunare, sognatore; è uno scrittore di viaggi funzionale all’uso, esatto, coerente; per cui non abbiamo dubbi sul fatto che ciò di cui ci parla corrisponde alla realtà dei fatti; non dubitiamo che il disastro sociale che ci descrive sia reale, e probabilmente irreversibile.
Eppure, qualcosa mi ha disturbato. Più volte ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per una irritazione serpeggiante che “scaldava” la lettura fino a provocare una vera e propria ripulsa. Perché? L’ho scoperto presto. Nel testo aleggia, come una sovrastruttura non scritta, non dichiarata, un eccesso di anticomunismo che sfugge al metro esatto col quale l’autore misura la realtà. Qui non si vogliono certo giustificare le catastrofi causate dalle politiche sociali e ambientali del regime, ma non si può, in una analisi storica, non diversificare la Rivoluzione d’Ottobre dall’involuzione stalinista, dalla chiusura estrema causata anche dalla Guerra Fredda. Capire non è giustificare. Occorre semplicemente mantenere la lucidità fino in fondo. Terzani inorridisce di fronte all’architettura comunista, fatta di casermoni, alveari, scatoloni che deturpano il paesaggio; rimpiange l’eleganza zarista, il culto del bello, cancellato dalla brutalità dell’industria pesante sovietica. E’ vero, come negarlo? Ma non può esservi solo rimpianto. Come possiamo dimenticare che l’eleganza degli zar era costruita sulla miseria nel popolo russo, e gli eleganti edificatori rubavano persino il latte che serviva per alimentare i bambini? E che i quartieri-mostro edificati dal regime, obbrobri che ora bisognerebbe abbattere, servivano per dare una casa a tutti? Questo fatto non rappresenta certo una giustificazione, ma deve comunque essere valutato, ha un peso, un valore. E talvolta Terzani è costretto ad ammetterlo, seppure a denti stretti: al vecchio ordine repressivo e ottuso, corrotto e volgare, si sostituisce il non-ordine del denaro, della prepotenza e della speculazione, con una tale violenza che in certi casi si può addirittura rimpiangere il passato.
Molti libri, anche grandi, hanno dei difetti: in certi casi è la noia, la piattezza della scrittura, il manierismo, una trama troppo intricata, un eccesso di personaggi, e altro ancora; dalla gravità di questi difetti, e dalla bellezza dell’opera, dipende la possibilità di perdonarli oppure no. Il difetto di questo libro di Terzani, un anticomunismo che talvolta assume toni berlusconiani (c’è addirittura “la mente irriverente e sacrilega dei comunisti sovietici”) è perfettamente perdonabile, perché scaturisce dal profondo di una personalità anarco-borghese che ha orrore dell’ordine costituito, delle leggi, dei divieti; ed è bilanciato dalla vivacità della narrazione, dalla quantità di storie che ci meravigliano, ci stupiscono, ci fanno ridere e riflettere; dalla folla di personaggi strambi, dalle leggende, dalla pazzia che lo pervade; e dalla sincerità del suo autore, che è forse il pregio più grande e indimenticabile.
giovedì, ottobre 13, 2005
Il bell’Enzo Paolo
Ho un rapporto affettivo con L’Isola dei famosi. Quando è uscita la prima edizione ero in ospedale per un ricovero pesante; col mio compagno di stanza, un signore di Salerno che stava molto male, malissimo – poi ho saputo che non ce l’ha fatta – alle 19 in punto aprivamo la tele perché scoccava "l’ora delle cazzate di Pappalardo". Quel programma era una compagnia, un piccolo appuntamento luminoso nel ritmo piatto, nella sequenza di riti del reparto ospedaliero, nel malessere e nella febbre. Il cicaleccio di quei personaggi "famosi", anche se di una fama media, piccola, quel loro desiderio ossessivo di mostrarsi, di essere in TV, mi ricordava, non so perché, la voce collettiva triste, un po’ folle, dell’Antologia di Spoon River. Poi, una volta dimesso, non l’ho quasi più guardato, anche se un’occhiata ogni tanto si allunga sul video, una breve incursione è talvolta piacevole. E’ quanto è accaduto l’altra sera, quando ho assistito allo sfogo psicologico di un ex ballerino coi capelli ossigenati di nome Enzo Paolo Tuchi, marito di un’ex ballerina, pure lei coi capelli ossigenati, che era nell’edizione di un anno fa, di nome Carmen Russo. L’Enzo Paolo, parlando con la moglie in studio, è scoppiato in lacrime e ha detto "ti prego, se mi vuoi bene fammi tornare!" Fammi tornare: e l’ha ripetuto più volte, con la voce rotta dai singhiozzi: la supplicava di riprenderlo tra le sue braccia, come un bambino supplica la mamma di accoglierlo, dopo averlo perdonato. Il fatto è che l’Enzo Paolo non reggeva le angherie di Al Bano, che è un tipo legnoso, polemico, prepotente, graffiante, e, a quanto pare, freddo, insensibile. Allora la produzione, per tentare di arginare la crisi (e la fuga), l’ha mandato tra le donne, perché donne e uomini erano, appunto, divisi; l’Enzo Paolo lontano dagli uomini cattivi è subito rinato, è rifiorito; ma ecco che il gruppo promiscuo è stato riformato e lui è nuovamente entrato in crisi: gli è venuta la diarrea ed è tornato subito a casa, accolto a braccia aperte dalla sua Carmen che ha superato la delusione di vedere il suo uomo così debole, così poco macho.
Proprio questo è il punto: l’Enzo Paolo ha dato un’immagine così poco "gallesca", così poco da duro, che, in un paese come il nostro, dove le icone sono i vari Costantino, Daniele Interrante (pure presente nel programma), mi ha ricordato Il bell’Antonio. Nel paese del "ce l’ho sempre duro" il poverone Enzo Paolo, il maschio che cede, si spezza, che non regge la competizione, si espone abbastanza pesantemente, come ha dimostrato il disagio – forse la vergogna - della Carmen di fronte al suo pianto dirotto. Infatti la Ventura continuava a strillare "ma come sei sensibile" e "quanta tenerezza". E lui a scuotere i capelli ossigenati, a cercare di ridere quando la Ventura ha chiesto alla coppia ossigenata riunita: "ma in casa vostra chi porta i pantaloni?".
Ho un rapporto affettivo con L’Isola dei famosi. Quando è uscita la prima edizione ero in ospedale per un ricovero pesante; col mio compagno di stanza, un signore di Salerno che stava molto male, malissimo – poi ho saputo che non ce l’ha fatta – alle 19 in punto aprivamo la tele perché scoccava "l’ora delle cazzate di Pappalardo". Quel programma era una compagnia, un piccolo appuntamento luminoso nel ritmo piatto, nella sequenza di riti del reparto ospedaliero, nel malessere e nella febbre. Il cicaleccio di quei personaggi "famosi", anche se di una fama media, piccola, quel loro desiderio ossessivo di mostrarsi, di essere in TV, mi ricordava, non so perché, la voce collettiva triste, un po’ folle, dell’Antologia di Spoon River. Poi, una volta dimesso, non l’ho quasi più guardato, anche se un’occhiata ogni tanto si allunga sul video, una breve incursione è talvolta piacevole. E’ quanto è accaduto l’altra sera, quando ho assistito allo sfogo psicologico di un ex ballerino coi capelli ossigenati di nome Enzo Paolo Tuchi, marito di un’ex ballerina, pure lei coi capelli ossigenati, che era nell’edizione di un anno fa, di nome Carmen Russo. L’Enzo Paolo, parlando con la moglie in studio, è scoppiato in lacrime e ha detto "ti prego, se mi vuoi bene fammi tornare!" Fammi tornare: e l’ha ripetuto più volte, con la voce rotta dai singhiozzi: la supplicava di riprenderlo tra le sue braccia, come un bambino supplica la mamma di accoglierlo, dopo averlo perdonato. Il fatto è che l’Enzo Paolo non reggeva le angherie di Al Bano, che è un tipo legnoso, polemico, prepotente, graffiante, e, a quanto pare, freddo, insensibile. Allora la produzione, per tentare di arginare la crisi (e la fuga), l’ha mandato tra le donne, perché donne e uomini erano, appunto, divisi; l’Enzo Paolo lontano dagli uomini cattivi è subito rinato, è rifiorito; ma ecco che il gruppo promiscuo è stato riformato e lui è nuovamente entrato in crisi: gli è venuta la diarrea ed è tornato subito a casa, accolto a braccia aperte dalla sua Carmen che ha superato la delusione di vedere il suo uomo così debole, così poco macho.
Proprio questo è il punto: l’Enzo Paolo ha dato un’immagine così poco "gallesca", così poco da duro, che, in un paese come il nostro, dove le icone sono i vari Costantino, Daniele Interrante (pure presente nel programma), mi ha ricordato Il bell’Antonio. Nel paese del "ce l’ho sempre duro" il poverone Enzo Paolo, il maschio che cede, si spezza, che non regge la competizione, si espone abbastanza pesantemente, come ha dimostrato il disagio – forse la vergogna - della Carmen di fronte al suo pianto dirotto. Infatti la Ventura continuava a strillare "ma come sei sensibile" e "quanta tenerezza". E lui a scuotere i capelli ossigenati, a cercare di ridere quando la Ventura ha chiesto alla coppia ossigenata riunita: "ma in casa vostra chi porta i pantaloni?".
martedì, ottobre 11, 2005
Poveroni
Quel bollettino governativo diretto da un giannizzero di AN che si autodefinisce "TG2 RAI", nell’edizione delle 13, in coda alla lista di stragi, morti in incidenti stradali (scovati anche all’estero, in capo al mondo, purché vi sia sangue), dichiarazioni rassicuranti dei politici della maggioranza, e altre amenità, produce la rubrica Costume e società, che dovrebbe essere un rotocalco di argomenti leggeri, gossip soprattutto; in realtà è una rubrica malconfezionata, zeppa di banalità; è più sgargiante Verissimo di Canale 5, almeno è gossip vero, cavolate degne di questo nome; comunque ieri, col solito tono pimpante, hanno realizzato un servizio "clamoroso" su un comico "che dice le cose senza guardare in faccia nessuno". Questo comico era Gene Gnocchi, un personaggio sicuramente interessante, con delle boutades divertenti, spesso caustiche, anche se, poverone, deve per forza mediare: o se lavora o nun se lavora, e quindi bisogna contenersi, o si finisce nella lista nera. Lo speaker, col consueto stile enfatico, ha detto che i comici come lui, cioè che "non guardano in faccia nessuno", sono "rimasti in pochi". Mi ha colpito questa affermazione. Se sono rimasti in pochi è proprio colpa loro, dei meschini, idioti censori, dei leccapiedi del potere che compilano le liste nere, e cacciano via i comici scomodi. E comunque è un’affermazione falsa, i comici che non guardano in faccia nessuno esistono, semplicemente non passano per i loro video ruffiani. C’è una bella differenza tra una realtà reale e una realtà inventata.
E il povero Lapo Elkan, che si è strafatto di droga fino a entrare in coma: oggi i vari tirapiedi del potere si sperticano in lodi, auguri, tiritere strappalacrime: "forza Lapo" "tieni duro Lapo"; loro, i proibizionisti feroci, che vogliono mandare in comunità un ragazzo beccato con un grammo di fumo, si commuovono per i vip, per Lapo, per l’attore famoso; i quali la galera neanche la vedono, entrano subito in clinica, perché i vip non stanno mai bene, devono sempre curarsi, vedi il povero Callisto Tanzi poverone, che appena varca il cancello della galera si sente male, e lo trasferiscono in infermeria.
Comunque è singolare assistere allo spettacolo di queste dinastie malate, o maledette, che hanno ispirato tanti film, tanti libri: qui il capostipite, il mito assoluta per l’Italia, era l’avvocato, che Paolo Volponi in un famoso romanzo chiamava "Donna Fulgenzia": ce lo descrive come una persona assolutamente cinica, gelida, capricciosa, che usava le persone come oggetti, che ci giocava; un falco, un predatore feroce e raffinato che ha avuto un figlio suicida, schiacciato psicologicamente dalla figura paterna, dalla sua insaziabile sete di potenza; che da vecchio, quasi in punto di morte, ha ammesso che come padre ha fallito totalmente; e intanto la maledizione continua, e sfiora anche gli ultimi discendenti con la sua ala nera.
Quel bollettino governativo diretto da un giannizzero di AN che si autodefinisce "TG2 RAI", nell’edizione delle 13, in coda alla lista di stragi, morti in incidenti stradali (scovati anche all’estero, in capo al mondo, purché vi sia sangue), dichiarazioni rassicuranti dei politici della maggioranza, e altre amenità, produce la rubrica Costume e società, che dovrebbe essere un rotocalco di argomenti leggeri, gossip soprattutto; in realtà è una rubrica malconfezionata, zeppa di banalità; è più sgargiante Verissimo di Canale 5, almeno è gossip vero, cavolate degne di questo nome; comunque ieri, col solito tono pimpante, hanno realizzato un servizio "clamoroso" su un comico "che dice le cose senza guardare in faccia nessuno". Questo comico era Gene Gnocchi, un personaggio sicuramente interessante, con delle boutades divertenti, spesso caustiche, anche se, poverone, deve per forza mediare: o se lavora o nun se lavora, e quindi bisogna contenersi, o si finisce nella lista nera. Lo speaker, col consueto stile enfatico, ha detto che i comici come lui, cioè che "non guardano in faccia nessuno", sono "rimasti in pochi". Mi ha colpito questa affermazione. Se sono rimasti in pochi è proprio colpa loro, dei meschini, idioti censori, dei leccapiedi del potere che compilano le liste nere, e cacciano via i comici scomodi. E comunque è un’affermazione falsa, i comici che non guardano in faccia nessuno esistono, semplicemente non passano per i loro video ruffiani. C’è una bella differenza tra una realtà reale e una realtà inventata.
E il povero Lapo Elkan, che si è strafatto di droga fino a entrare in coma: oggi i vari tirapiedi del potere si sperticano in lodi, auguri, tiritere strappalacrime: "forza Lapo" "tieni duro Lapo"; loro, i proibizionisti feroci, che vogliono mandare in comunità un ragazzo beccato con un grammo di fumo, si commuovono per i vip, per Lapo, per l’attore famoso; i quali la galera neanche la vedono, entrano subito in clinica, perché i vip non stanno mai bene, devono sempre curarsi, vedi il povero Callisto Tanzi poverone, che appena varca il cancello della galera si sente male, e lo trasferiscono in infermeria.
Comunque è singolare assistere allo spettacolo di queste dinastie malate, o maledette, che hanno ispirato tanti film, tanti libri: qui il capostipite, il mito assoluta per l’Italia, era l’avvocato, che Paolo Volponi in un famoso romanzo chiamava "Donna Fulgenzia": ce lo descrive come una persona assolutamente cinica, gelida, capricciosa, che usava le persone come oggetti, che ci giocava; un falco, un predatore feroce e raffinato che ha avuto un figlio suicida, schiacciato psicologicamente dalla figura paterna, dalla sua insaziabile sete di potenza; che da vecchio, quasi in punto di morte, ha ammesso che come padre ha fallito totalmente; e intanto la maledizione continua, e sfiora anche gli ultimi discendenti con la sua ala nera.
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