sabato, maggio 27, 2006
martedì, maggio 23, 2006
I misteri di Belzebù
Belzebù era il candidato della destra per la Presidenza della Repubblica. Ha perso, si sa.
Belzebù ha votato la fiducia al governo Prodi.
Doppiezza portata fino ai limiti estremi dell’esistenza, doppiezza come pratica definitiva di vita, come vocazione?
Errore nel mettere la croce?
Un disegno a noi imperscrutabile?
Uno sberleffo?
E chi lo sa?
domenica, maggio 14, 2006
Il Premio Strega, i candidati
(Questo è un réportage politicamente scorreto dell'evento, che si è tenuto giovedi 11 maggio a Bologna. Per la versione politicamente corretta si va su vibrisse.)
I grandi patrimoni, si sa, talvolta vengono svenduti, smembrati, sperperati. Un vecchio imprenditore di stampo austro-ungarico lavora tutta la vita dodici ore al giorno compresa la domenica per creare un capitale solido, un plusvalore garantito, poi arriva il figlio, o magari il genero, che se lo distrugge in ballerine, gioco d’azzardo, aereo privato, la villa a Portofino.
Il Premio Strega era uno questi grandi patrimoni. Lo fondò una grande scrittrice, Maria Bellonci, sessant’anni fa, e vi ha dedicato una parte importante della sua vita. Hanno vinto il Premio Strega, tra gli altri: Ennio Flaiano, Cesare Pavese, Elsa Morante, Dino Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Paolo Volponi (2 volte, nel 1965 e nel 1991), Guido Piovene, Tommaso Landolfi, Primo Levi, Umberto Eco, Goffredo Parise, la stessa Maria Bellonci (dopo la morte). Insomma, il meglio del Novecento. Poi, arrivano i generi spendaccioni, e progressivamente la qualità cala: premiano persino Margaret Mazzantini, siamo alle mode, ai droga-party. Dopo il premio alla Bellonci, che possiamo chiamare l’anno zero, ha vinto sette volte Mondadori, due volte Bompiani, tre Einaudi, una volta Leonardo, tre Feltrinelli, una Garzanti. Insomma, il taglio della torta, e il padrone di casa si cucca le fette più grosse.
Quest’anno la comunicazione ufficiale dei candidati è avvenuta a Bologna, nel salone dello Stabat Mater (perché i vip vanno ospitati a dovere, devono stare comodi, e rifarsi gli occhi con gli affreschi).
Il pubblico era quello delle celebrazioni trombonesche d’élite: c’era il sindaco d’acciaio Cofferati, che vuole sfrattare i centri sociali, ma non si perde un ricevimento come si deve. C’erano i cumenda col vestito grigio, i baroni e le baronesse, in nero e in lungo (fosse stato inverno avremmo assistito a una sfilata di pellicce). Dopo un saluto balbettato da un esausto assessore Guglielmi è arrivato il distratto, lunatico, felliniano Maurizio Baggiani (così l’hanno chiamato sulle pagine bolognesi dei giornali), che ha iniziato a parlare lontano dal microfono, e non si capiva niente; allora la temibile Anna Maria Rimoaldi, la padrona del Premio (o la segretaria? Avevamo l’impressione che i padroni fossero gli editori), seduta accanto al sindaco d’acciaio, è sbottata con un “non-si-sente-niente!” Allora Maggiani si è avvicinato al microfono, ha traballato e poi ha ripreso a parlare lontano. Così tutti a dire al vicino: “eh? Cos’ha detto?” e il vicino: “boh, non ho mica capito”. Ecco dunque i candidati, con una noticina a margine sui loro libri di uno dei due scrittori che li propongono:
Massimo Cacciapuoti, di Napoli, infermiere, con L’abito da Sposa (Garzanti); di lui Segio Campailla, ha detto: “dei fardelli antichi, che pesano sulle spalle, alla fine si scaricano, esprimendosi”.
Sergio De Santis, di Napoli, giornalista, con Cronache dalla città dei crolli (Avagliano); Raffaele la Capria ha detto: “c’è la caverna primordiale, e gli uomini della caverna. Solo che la caverna è Napoli”.
Francesco Fontana, di Mestre, metereologo, con L’Imitatore di corvi (Feltrinelli); Maurizio Maggiani ha detto: “è la storia di un circo che gira la Germania portando carrozzoni di mostruose meraviglie, è la storia di una reclusione forzata che ridà allo spirito libero e sensuale di Fritz una dimensione inattesa”.
Pietro Grossi, di Milano, con Pugni (Sellerio); Salvatore Nigro ha detto: “uno stile scuro e inconfondibile. I racconti i Pugni ritagliano storie di intima vita quotidiana, e le distruggono là dove tutto incalza e costringe a misurarsi con le incertezze”.
Lucrezia Lerro, poetessa, con Certi giorni sono felice (peQuod); Vivian Lamarque ha detto: “Un lupo dentro la pancia di Cappuccetto Rosso. Un lupo vivo e tra i più affamati e spaventevoli che un lettore abbia mai incontrato”.
Giuseppe Manfridi, di Roma, drammaturgo, con Cronache del paesaggio (Gremese); Alberto Bevilacqua ha detto: “C’è una aspirazione alla totalità di impronta musiliana”.
Massimiliano Palmese, di Roma, autore teatrale, con L’Amante proibita (Newton Compon); Renato Minore ha detto: “mi ha convinto”; e Arnaldo Colasanti: “un libro semplicemente vero. Ne siamo entusiasti”.
Claudia Patuzzi, di Roma, insegnante, con La stanza di Garibaldi (Manni); Vincenzo Consolo ha detto: “è scritto bene, in modo chiaro ed essenziale, comprensibile e mai banale, cosa rara ai nostri giorni”.
Wilson Saba, di Roma e Bologna, attore, con Sole & Baleno (Il Foglio); Paolo Terni ha detto: “Il testo è abitato da un vero e proprio atto di fede, davvero furibondo e appassionato, una testualità forte, significativa, non autoreferenziale, processiva e necessaria”.
Sandro Veronesi, di Firenze, scrittore, con Caos Calmo (Bompiani); Tullio de Mauro ha detto: “Dalla prima pagina del ‘surf’, di pagina in pagina, come tanti, sono stato trascinato dalla corrente del racconto; coglie, mi pare, il correre inutile, vuoto, che ci affligge”.
Rossana Rossanda, giornalista, scrittrice, con La ragazza del secolo scorso (Einaudi); Dacia Maraini ha detto: “si scopre una persona tenerissima, anche fragile, ma capace di una amara e divertita ironia nel racconto dei propri abbagli e di quelli di tutta la sinistra, pur non rinnegando le ragioni di quelle scelte”.
Cioè, voglio dire, non sono mica invenzioni, sono campionamenti delle schede, hanno proprio detto “dei fardelli antichi, che pesano sulle spalle, alla fine si scaricano, esprimendosi”, oppure “una testualità forte, significativa, non autoreferenziale, processiva e necessaria”. E’ tutto documentato nella cartella stampa che mi hanno dato due hostess del Premio che prendevano gli accrediti, e alle quali ho tentato con ogni mezzo a mia disposizione di fare scrivere correttamente l’URL di vibrisse e quella di Nazione Indiana, che non avevano mai sentito nominare in vita loro.
Guardavo tutti quegli scrittori pubblicati da piccoli e medi editori: rappresentavano la faccia pulita del Premio, il contorno, la lattuga: vedete, sembravano dire, non è mica vero che ci sono solo i boss allo Strega, ci siamo anche noi, i piccoli, gli esordienti; è democratico lo Strega, è una cosa seria lo Strega. Chi parla di lottizzazione guardi noi, le nostre facce pulite, la nostra imbranataggine nel parlare (perché quando Maggiani rivolgeva loro una domanda precisa loro mica rispondevano, macché, recitavano a memoria la schedina dei loro libri). In realtà lo sanno anche i muli che vincerà la Rossanda, con qualche chance di Veronesi.
Veronesi era per l’appunto la star, visto che la Rossanda era assente. E io a guardargli sempre le scarpe. Erano sbagliate, sono sicuro, perché l’ha detto Daria Bignardi: Veronesi è elegante, “ma sbaglia sempre le scarpe”. Erano certamente sbagliate, due scarpantibus color cacca di stitico sotto due pantaloni troppo lunghi che gli facevano “il zalappo”. Se ci fosse stato Piperno, invece, lui sì che sarebbe stato in tiro, minimo un doppiopetto o un gessato, perché frequenta il bel mondo Piperno, si tiene a modo Piperno. Ma se ci fosse stato uno del bel mondo poi doveva vincere al mille per mille, e allora come la mettiamo con le belle facce pulite degli scrittori imbranati?
Quando finalmente la trombonata è finita, nell’atrio abbiamo fatto incetta di libri gratis, che erano a disposizione su un banchetto. C’era chi andava via con la schiena curva. Poi tutti nell’enorme bar Le Scuderie, in Piazza Verdi, con tutti i ragazzi e gli studenti e i punk bestia accoccolati sull’asfalto, a ridere, a bere birra, a vivere un po’. C’era l’incontro degli autori col pubblico. Macché incontro. A nessuno importava un accidente, c’erano i cocktails, i beveraggi, lo struscio, nessuno ha fatto domande e tutti si sono strusciati, hanno sbevazzato, e hanno potuto dire “io c’ero”.
(Nelle foto: le scarpe di Veronesi; Maggiani presenta il libro di Veronesi)
(Questo è un réportage politicamente scorreto dell'evento, che si è tenuto giovedi 11 maggio a Bologna. Per la versione politicamente corretta si va su vibrisse.)
I grandi patrimoni, si sa, talvolta vengono svenduti, smembrati, sperperati. Un vecchio imprenditore di stampo austro-ungarico lavora tutta la vita dodici ore al giorno compresa la domenica per creare un capitale solido, un plusvalore garantito, poi arriva il figlio, o magari il genero, che se lo distrugge in ballerine, gioco d’azzardo, aereo privato, la villa a Portofino.
Il Premio Strega era uno questi grandi patrimoni. Lo fondò una grande scrittrice, Maria Bellonci, sessant’anni fa, e vi ha dedicato una parte importante della sua vita. Hanno vinto il Premio Strega, tra gli altri: Ennio Flaiano, Cesare Pavese, Elsa Morante, Dino Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Paolo Volponi (2 volte, nel 1965 e nel 1991), Guido Piovene, Tommaso Landolfi, Primo Levi, Umberto Eco, Goffredo Parise, la stessa Maria Bellonci (dopo la morte). Insomma, il meglio del Novecento. Poi, arrivano i generi spendaccioni, e progressivamente la qualità cala: premiano persino Margaret Mazzantini, siamo alle mode, ai droga-party. Dopo il premio alla Bellonci, che possiamo chiamare l’anno zero, ha vinto sette volte Mondadori, due volte Bompiani, tre Einaudi, una volta Leonardo, tre Feltrinelli, una Garzanti. Insomma, il taglio della torta, e il padrone di casa si cucca le fette più grosse.
Quest’anno la comunicazione ufficiale dei candidati è avvenuta a Bologna, nel salone dello Stabat Mater (perché i vip vanno ospitati a dovere, devono stare comodi, e rifarsi gli occhi con gli affreschi).
Il pubblico era quello delle celebrazioni trombonesche d’élite: c’era il sindaco d’acciaio Cofferati, che vuole sfrattare i centri sociali, ma non si perde un ricevimento come si deve. C’erano i cumenda col vestito grigio, i baroni e le baronesse, in nero e in lungo (fosse stato inverno avremmo assistito a una sfilata di pellicce). Dopo un saluto balbettato da un esausto assessore Guglielmi è arrivato il distratto, lunatico, felliniano Maurizio Baggiani (così l’hanno chiamato sulle pagine bolognesi dei giornali), che ha iniziato a parlare lontano dal microfono, e non si capiva niente; allora la temibile Anna Maria Rimoaldi, la padrona del Premio (o la segretaria? Avevamo l’impressione che i padroni fossero gli editori), seduta accanto al sindaco d’acciaio, è sbottata con un “non-si-sente-niente!” Allora Maggiani si è avvicinato al microfono, ha traballato e poi ha ripreso a parlare lontano. Così tutti a dire al vicino: “eh? Cos’ha detto?” e il vicino: “boh, non ho mica capito”. Ecco dunque i candidati, con una noticina a margine sui loro libri di uno dei due scrittori che li propongono:
Massimo Cacciapuoti, di Napoli, infermiere, con L’abito da Sposa (Garzanti); di lui Segio Campailla, ha detto: “dei fardelli antichi, che pesano sulle spalle, alla fine si scaricano, esprimendosi”.
Sergio De Santis, di Napoli, giornalista, con Cronache dalla città dei crolli (Avagliano); Raffaele la Capria ha detto: “c’è la caverna primordiale, e gli uomini della caverna. Solo che la caverna è Napoli”.
Francesco Fontana, di Mestre, metereologo, con L’Imitatore di corvi (Feltrinelli); Maurizio Maggiani ha detto: “è la storia di un circo che gira la Germania portando carrozzoni di mostruose meraviglie, è la storia di una reclusione forzata che ridà allo spirito libero e sensuale di Fritz una dimensione inattesa”.
Pietro Grossi, di Milano, con Pugni (Sellerio); Salvatore Nigro ha detto: “uno stile scuro e inconfondibile. I racconti i Pugni ritagliano storie di intima vita quotidiana, e le distruggono là dove tutto incalza e costringe a misurarsi con le incertezze”.
Lucrezia Lerro, poetessa, con Certi giorni sono felice (peQuod); Vivian Lamarque ha detto: “Un lupo dentro la pancia di Cappuccetto Rosso. Un lupo vivo e tra i più affamati e spaventevoli che un lettore abbia mai incontrato”.
Giuseppe Manfridi, di Roma, drammaturgo, con Cronache del paesaggio (Gremese); Alberto Bevilacqua ha detto: “C’è una aspirazione alla totalità di impronta musiliana”.
Massimiliano Palmese, di Roma, autore teatrale, con L’Amante proibita (Newton Compon); Renato Minore ha detto: “mi ha convinto”; e Arnaldo Colasanti: “un libro semplicemente vero. Ne siamo entusiasti”.
Claudia Patuzzi, di Roma, insegnante, con La stanza di Garibaldi (Manni); Vincenzo Consolo ha detto: “è scritto bene, in modo chiaro ed essenziale, comprensibile e mai banale, cosa rara ai nostri giorni”.
Wilson Saba, di Roma e Bologna, attore, con Sole & Baleno (Il Foglio); Paolo Terni ha detto: “Il testo è abitato da un vero e proprio atto di fede, davvero furibondo e appassionato, una testualità forte, significativa, non autoreferenziale, processiva e necessaria”.
Sandro Veronesi, di Firenze, scrittore, con Caos Calmo (Bompiani); Tullio de Mauro ha detto: “Dalla prima pagina del ‘surf’, di pagina in pagina, come tanti, sono stato trascinato dalla corrente del racconto; coglie, mi pare, il correre inutile, vuoto, che ci affligge”.
Rossana Rossanda, giornalista, scrittrice, con La ragazza del secolo scorso (Einaudi); Dacia Maraini ha detto: “si scopre una persona tenerissima, anche fragile, ma capace di una amara e divertita ironia nel racconto dei propri abbagli e di quelli di tutta la sinistra, pur non rinnegando le ragioni di quelle scelte”.
Cioè, voglio dire, non sono mica invenzioni, sono campionamenti delle schede, hanno proprio detto “dei fardelli antichi, che pesano sulle spalle, alla fine si scaricano, esprimendosi”, oppure “una testualità forte, significativa, non autoreferenziale, processiva e necessaria”. E’ tutto documentato nella cartella stampa che mi hanno dato due hostess del Premio che prendevano gli accrediti, e alle quali ho tentato con ogni mezzo a mia disposizione di fare scrivere correttamente l’URL di vibrisse e quella di Nazione Indiana, che non avevano mai sentito nominare in vita loro.
Guardavo tutti quegli scrittori pubblicati da piccoli e medi editori: rappresentavano la faccia pulita del Premio, il contorno, la lattuga: vedete, sembravano dire, non è mica vero che ci sono solo i boss allo Strega, ci siamo anche noi, i piccoli, gli esordienti; è democratico lo Strega, è una cosa seria lo Strega. Chi parla di lottizzazione guardi noi, le nostre facce pulite, la nostra imbranataggine nel parlare (perché quando Maggiani rivolgeva loro una domanda precisa loro mica rispondevano, macché, recitavano a memoria la schedina dei loro libri). In realtà lo sanno anche i muli che vincerà la Rossanda, con qualche chance di Veronesi.
Veronesi era per l’appunto la star, visto che la Rossanda era assente. E io a guardargli sempre le scarpe. Erano sbagliate, sono sicuro, perché l’ha detto Daria Bignardi: Veronesi è elegante, “ma sbaglia sempre le scarpe”. Erano certamente sbagliate, due scarpantibus color cacca di stitico sotto due pantaloni troppo lunghi che gli facevano “il zalappo”. Se ci fosse stato Piperno, invece, lui sì che sarebbe stato in tiro, minimo un doppiopetto o un gessato, perché frequenta il bel mondo Piperno, si tiene a modo Piperno. Ma se ci fosse stato uno del bel mondo poi doveva vincere al mille per mille, e allora come la mettiamo con le belle facce pulite degli scrittori imbranati?
Quando finalmente la trombonata è finita, nell’atrio abbiamo fatto incetta di libri gratis, che erano a disposizione su un banchetto. C’era chi andava via con la schiena curva. Poi tutti nell’enorme bar Le Scuderie, in Piazza Verdi, con tutti i ragazzi e gli studenti e i punk bestia accoccolati sull’asfalto, a ridere, a bere birra, a vivere un po’. C’era l’incontro degli autori col pubblico. Macché incontro. A nessuno importava un accidente, c’erano i cocktails, i beveraggi, lo struscio, nessuno ha fatto domande e tutti si sono strusciati, hanno sbevazzato, e hanno potuto dire “io c’ero”.
(Nelle foto: le scarpe di Veronesi; Maggiani presenta il libro di Veronesi)
mercoledì, maggio 10, 2006
Alto profilo
Al settimanale Sorrisi e Canzoni è allegato il secondo album di Jimi Hendrix, Axis:Bold as Love. E’ un disco bellissimo, una delle quattro-cinque opere fondamentali di Jimi. In giro per le edicole bolognesi non l’ho trovato, era esaurito già da lunedì sera. Il fatto che un disco come questo, che ha quasi quarant’anni, susciti tanto interesse mi riempie di ottimismo, perché dimostra che la musica immortale continua ad avere un futuro.
lunedì, maggio 08, 2006
Basso profilo
Oggi, nel tardo pomeriggio, ho acceso la tv e ho guardato un programma sui servizi parlamentari (era in atto la prima votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica), condotto dalla mitica Anna La Rosa. Sono note le polemiche che seguono questa giornalista, per le sue evidenti simpatie verso la destra, una certa faziosità e superficialità delle sue conduzioni. A me ha colpito soprattutto la sua insicurezza, e l’incapacità quasi assoluta di districarsi tra la folla di deputati che si affannava a intervistare. Aveva elaborato una domanda, che riguardava la scelta di D’Alema di ritirarsi dalla competizione a favore di Napolitano: “non sarà una mossa tattica per tornare in pista con una forza contrattuale ancora maggiore?” che ha rivolto a tutti, con una ossessione che sembrava demenziale, a Paolo Miei, a due deputati della destra, a Pecoraro Scanio, a Fassino con particolare insistenza, tanto che il segretario DS ha dovuto dire “basta, non la seguo”; in realtà era una risorsa, l’unica, che usava per mascherare la sua quasi totale atonia. Era priva di argomenti, di dialettica, di prontezza, era come balbuziente. Continuava a rivolgersi a Paolo Mieli, che era collegato dal Corriere, per fargli intervistare i politici (e Mieli, da quel gran professionista navigato che è, le toglieva le castagne dal fuoco), e quando il direttore ha detto, per due volte, che doveva lasciarla perché aveva il giornale da chiudere, lo pregava con voce strozzata di restare ancora un poco, di rivolgere qualche altra domanda; e quando proprio non c’è stato più nulla da fare gli ha gridato con disperazione: “ma domani, Paolo, do-ma-ni sarai ancora collegato con noi, ve-e-ro?”. C’era ansia, e terrore nella sua voce, perché lo stava supplicando di non lasciarla sola, in quella fossa di leoni.
Ora, a sua discolpa c’è da dire che non è facile navigare in quel mare di onorevole chiacchieroni, perché sono delle macchine, uno spinge un pulsante e iniziano a snocciolare le loro litanie retoriche, ed è quasi impossibile strappare loro un discorso, una parola non retorica (non ci riusciva neanche Paolo Mieli); ma insomma, questo è il viaggio; e se da un lato ho provato una sorta di tenerezza, di compassione, dall’altro mi sono chiesto come sia possibile che un programma hard come quello parlamentare sia lasciato in mano una giornalista di un tale spessore.
giovedì, maggio 04, 2006
Lavorare stanca
Mia nonna Adelcisa ha lavorato come mondina per tutta la vita. E’ un mestiere, questo, che era molto diffuso nella pianura padana, fino agli anni Sessanta, quando ha iniziato a scomparire per il prosciugamento di molte risaie e per l’introduzione delle moderne tecniche di coltivazione.
Nonna Adelcisa, come tutte le persone anziane, mi raccontava spesso le sue giornate di lavoro. Erano impresse a fuoco nella sua memoria, perché rappresentavano una parte molto importante della sua vita, della sua giovinezza. Lavorava dieci, dodici ore al giorno, per sette giorni alla settimana, sempre coi piedi nell’acqua fino al ginocchio. C’era una pausa per mangiare, a mezzogiorno, e il pasto era composto da due cipolle crude e pane. Insisteva molto su questo particolare delle cipolle, che avevano probabilmente una doppia funzione: un pasto povero, in tempi di miseria, dove la carne, il formaggio, erano un lusso; ma anche un alimento che, con la sua componente basica, funzionava da antidoto all’esposizione prolungata al sole cocente. Ho pensato spesso a queste ragazze giovani e carine (perché guardando le foto dell’impareggiabile Enrico Pasquali, che negli anni Cinquanta ha documentato i lavori agricoli e le condizioni dei braccianti in Emilia Romagna, colpiscono quei visi giovani, allegri, delicati) che mangiavano cipolle come le mele. Che contrasto coi giorni nostri, col trucco sempre perfetto, e l’attenzione all’alito fresco ecc.
Le mondine hanno elaborato dei canti di lavoro molto particolari, canti collettivi con una voce solista cui facevano da contrappunto risposte in ritornello e piccoli cori, sul modello dei blues dei primi raccoglitori di cotone; registrazioni di questi canti sono state raccolte, e pubblicate su disco, da numerosi ricercatori.
Nonna Adelcisa ha fatto questo viaggio, nella sua lunga vita (è morta a 97 anni), che le ha lasciato un’artrite cronica alle caviglie, gonfie come zampe di elefante. E forse la sua giovinezza passata coi piedi nell’acqua, e la schiena curva per piantare il riso, strappare le erbacce, diradare le piantine, ha plasmato una parte del suo carattare, così forte, allegro, caparbio e anche un po’ folle.
(nella foto di Enrico Pasquali le mondine negli anni Cinquanta)
martedì, maggio 02, 2006
Pulp Fiction
Il 25 aprile Letizia Brichetto Moratti è andata al corteo e si è beccata una valanga di fischi e, dicono, di insulti. Sono seguite parole indignate della sinistra e una non dissimulata soddisfazione della destra per lo spot pubblicitario gratuito. Il primo maggio cos’hanno pensato alcuni settori della sinistra? Quale nuova illuminazione hanno avuto, quale intuizione? Invitiamo Letizia Brichetto Moratti. La signora è andata, ovviamente, e si è beccata una seconda valanga di fischi. Sono seguite parole indignate della sinistra e una enorme soddisfazione della destra per il secondo, clamoroso spot pubblicitario gratuito.
Sembra il copione scritto da un comico, tipo Vergassola, Oreglio, uno così.
Non riesco a crederci.
A capire ci ho rinunciato da tempo.
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