Guardando, leggendo, comici spaventati ricettori
Aspettando Benigni a Rockpolitik, ho avuto uno scatto di insofferenza quando Adriano Celentano ha tirato fuori la sua animaccia di vekkio democristiano reazionario, durante la lettura del lento e del rock: "Zapatero è lento, lentissimo". Triste. Ci fossero più Zapatero nel mondo la vita, l’ambiente, tutto migliorerebbe. Poi c’è stata la predica, lunga, pesante, con quell’interminabile blob di politici; pazienza, lasciare scorrere il tempo, magari pensando ad altro, cambiando canale; e le canzoni, ovviamente, un prezzo alto da pagare, per il sottoscritto; ma si aspetta, senza fretta, perché immagino che la fretta sia lenta; di Valentino Rossi c’è da segnalare la faccetta sorridente, simpatica, dell’eterno ragazzino; che altro? Finalmente è arrivato lui, ed è stato fantastico. Una parentesi di altissima qualità, di pura comicità classica, con citazioni di Totò, dei saltimbanchi da circo; caustico, coraggioso, irridente; vera arte, energia pura. Dicono che Benigni, dopo il matrimonio con la Braschi, che descrivono come donna seria, osservante, si sia appannato, abbia ceduto troppo al businness; lo spettacolo di ieri sera ha dimostrato il contrario: il suo talento pazzoide, geniale, è intatto, e si rinnova. Invece mi preoccupa la reazione composta delle jene della Destra. Perché? Forse quella di Benigni è una satira inoffensiva? Oppure, più probabilmente, stanno diventando moderni? Trovo questa seconda ipotesi semplicemente terrificante. Loro, i killers, i censori, si mettono al passo coi tempi. Da ladroni di una destraccia gaglioffa e bananiera si riciclano in illuminati del centro. Sono ancora più pericolosi, una minaccia letale… è questo il vero horror.
L’intellettuale parlante Francesco Merlo, quello che, dalle colonne portanti de La Repubblica, lanciò un anatema contro gli antiquati, polverosi, nostalgici intellettuali che non dichiaravano il proprio amore incondizionato per le sorelle Lecciso, chiamandoli "scimmie di Umberto Eco", l’altro giorno, sempre dalla sua tribuna, ha fatto uscire un elzeviro dove, col consueto stile arzigogolato e mondano, ha tentato di dimostrare l’equazione Bertinotti = Cuffaro; e ha scritto, tra l’altro, che "al Nord la Destra lombrosoneggia". Mi è venuto un crampo. Credo che l’intellettuale parlante modaiolo risieda in Francia, e mi chiedo: perché scrive in Italia? Ma soprattutto, perché lo leggo?
venerdì, ottobre 28, 2005
mercoledì, ottobre 26, 2005
L’era degli Uomini Grigi
Un paio di anni fa Pietro Citati, in un lungo articolo, giudicava severamente la scuola moderna, in particolare il tempo prolungato, che, se da un lato permette ai genitori, oberati di impegni, di "parcheggiare" i figli, e inserisce nei programmi materie e attività più creative, dall’altro sottrae a questi ultimi una parte della loro adolescenza, o preadolescenza. Non c’è rispetto, scriveva, per i loro ritmi, per le esigenze di gioco, di nomadismo; ricordava come lui, da ragazzino, tornava da scuola e subito correva a giocare, andava a zonzo; oggi invece, una volta tornati a casa dopo una giornata di lavoro, devono chinarsi sui compiti. Devono stare al passo, tenere duro, perché la scuola non permette di restare indietro, si diventa di serie B, si soffre nei confronti degli amici, che nell’atmosfera competitiva combattono duramente per primeggiare. Non è più possibile prendersi il proprio tempo, è severamente vietato perdere tempo, perché il tempo è diventato prezioso, un bene ad altissima potenzialità di scambio.
Lessi quell’articolo con una sorta di dubbioso interesse, perché sapevo che, con l’attuale organizzazione della vita, per una famiglia il tempo prolungato può essere un’ancora di salvezza.
Oggi, che mia figlia è passata in prima media col tempo prolungato, sono dolorosamente d’accordo.
Dobbiamo incalzarla, talvolta sgridarla, perché alla fine delle lezioni, a 11 anni, ha voglia, ha il diritto di perdersi nei giochi, nei sogni. Invece no, "non c’è tempo!". Questa frase, che si ripete minacciosa, mi ricorda Momo, il bel cartone animato di Enzo D’Alò, il regista de La gabbianella e il gatto: gli Uomini Grigi sono i predatori del tempo degli esseri umani, li attaccano con tutti i mezzi, cercano di sottrarre loro questo bene prezioso. Tutti noi siamo Uomini Grigi ormai, anche se questo ruolo ci fa soffrire, perché col cuore siamo dalla parte dei ragazzini, ma non c’è alternativa: o si è ricchi, e furbi, come la Moratti, come Berlusconi, che mentre "riformano" la scuola pubblica mandano i loro figli dagli steineriani, o si è costretti ad adeguarsi, perché non c’è alternativa. Non c’è una via d’uscita. Se procedi con lentezza, se contesti - e non la Moratti, no, se contesti il sistema - sei fuori, perché il sistema non ti aspetta, non perdona. E se lotti per cambiare puoi cambiare dei dettagli, ma non l’essenza, perché il sistema non è di destra né di sinistra, è dentro di noi, è il modulo di autodifesa – o di autodistruzione - della società umana.
Mia figlia alla sera è spesso nervosa. Esce poco, vede raramente le amiche fuori dall’orario scolastico, deve correre, darsi da fare, perché c’è l’incubo di non farcela, e di andare a scuola, il mattino dopo, senza avere terminato i compiti. E noi siamo nervosi con lei. Io lo sono, e talvolta alzo la voce, e discutiamo e litighiamo. "E’ tardi" dice l’Uomo Grigio, "non perdere tempo!". L’altra sera scalciava, rispondeva male, c’è stato uno scambio di battute aspre. Io vagavo per la casa teso e angosciato, io, l’Uomo Grigio mio malgrado; così sono andato in camera da letto, ho indossato la tuta da ginnastica, sono salito sul materasso e l’ho chiamata. E’ arrivata con espressione abbastanza truce, ha detto "cosa c’è?". E io: "forza, vieni". Lei mi ha guardato, ha detto "cosa?" E io: "dai, salta su". Ha capito. E’ saltata sul letto e abbiamo subito iniziato una lotta furiosa. Gridava, mi assaliva, mi rompeva le costole coi ginocchi. Abbiamo lottato per una mezz’ora, e alla fine eravamo esausti e sudati, io con le ossa rotte e la schiena indolenzita. Ma la nostra espressione era mutata. Le nostre facce, prima indurite, corrucciate, erano distese. Poi lei mi ha chiesto: "eri nervoso prima?" E io: "sì". E lei: "anch’io". E io: "e adesso?" E lei: "non più. Sai una cosa?" ha soggiunto, "hai avuto proprio una grande idea". Mi sono sentito bene, meno grigio, e ho vagato per la casa gonfio come un galletto di euforia e di soddisfazione.
Lottate spesso coi vostri figli. La lotta è una pratica antichissima, serve per scaricare tensioni, ma anche rancori, che vengono sublimati, raffinati ed espulsi. La lotta è il miglior antitodo contro la depressione, il pessimismo e la paura. Lottate spesso con loro, fateli faticare, fateli sudare, e fateli vincere, perché non sono molte le occasioni di vittoria nella società degli Uomini Grigi.
Un paio di anni fa Pietro Citati, in un lungo articolo, giudicava severamente la scuola moderna, in particolare il tempo prolungato, che, se da un lato permette ai genitori, oberati di impegni, di "parcheggiare" i figli, e inserisce nei programmi materie e attività più creative, dall’altro sottrae a questi ultimi una parte della loro adolescenza, o preadolescenza. Non c’è rispetto, scriveva, per i loro ritmi, per le esigenze di gioco, di nomadismo; ricordava come lui, da ragazzino, tornava da scuola e subito correva a giocare, andava a zonzo; oggi invece, una volta tornati a casa dopo una giornata di lavoro, devono chinarsi sui compiti. Devono stare al passo, tenere duro, perché la scuola non permette di restare indietro, si diventa di serie B, si soffre nei confronti degli amici, che nell’atmosfera competitiva combattono duramente per primeggiare. Non è più possibile prendersi il proprio tempo, è severamente vietato perdere tempo, perché il tempo è diventato prezioso, un bene ad altissima potenzialità di scambio.
Lessi quell’articolo con una sorta di dubbioso interesse, perché sapevo che, con l’attuale organizzazione della vita, per una famiglia il tempo prolungato può essere un’ancora di salvezza.
Oggi, che mia figlia è passata in prima media col tempo prolungato, sono dolorosamente d’accordo.
Dobbiamo incalzarla, talvolta sgridarla, perché alla fine delle lezioni, a 11 anni, ha voglia, ha il diritto di perdersi nei giochi, nei sogni. Invece no, "non c’è tempo!". Questa frase, che si ripete minacciosa, mi ricorda Momo, il bel cartone animato di Enzo D’Alò, il regista de La gabbianella e il gatto: gli Uomini Grigi sono i predatori del tempo degli esseri umani, li attaccano con tutti i mezzi, cercano di sottrarre loro questo bene prezioso. Tutti noi siamo Uomini Grigi ormai, anche se questo ruolo ci fa soffrire, perché col cuore siamo dalla parte dei ragazzini, ma non c’è alternativa: o si è ricchi, e furbi, come la Moratti, come Berlusconi, che mentre "riformano" la scuola pubblica mandano i loro figli dagli steineriani, o si è costretti ad adeguarsi, perché non c’è alternativa. Non c’è una via d’uscita. Se procedi con lentezza, se contesti - e non la Moratti, no, se contesti il sistema - sei fuori, perché il sistema non ti aspetta, non perdona. E se lotti per cambiare puoi cambiare dei dettagli, ma non l’essenza, perché il sistema non è di destra né di sinistra, è dentro di noi, è il modulo di autodifesa – o di autodistruzione - della società umana.
Mia figlia alla sera è spesso nervosa. Esce poco, vede raramente le amiche fuori dall’orario scolastico, deve correre, darsi da fare, perché c’è l’incubo di non farcela, e di andare a scuola, il mattino dopo, senza avere terminato i compiti. E noi siamo nervosi con lei. Io lo sono, e talvolta alzo la voce, e discutiamo e litighiamo. "E’ tardi" dice l’Uomo Grigio, "non perdere tempo!". L’altra sera scalciava, rispondeva male, c’è stato uno scambio di battute aspre. Io vagavo per la casa teso e angosciato, io, l’Uomo Grigio mio malgrado; così sono andato in camera da letto, ho indossato la tuta da ginnastica, sono salito sul materasso e l’ho chiamata. E’ arrivata con espressione abbastanza truce, ha detto "cosa c’è?". E io: "forza, vieni". Lei mi ha guardato, ha detto "cosa?" E io: "dai, salta su". Ha capito. E’ saltata sul letto e abbiamo subito iniziato una lotta furiosa. Gridava, mi assaliva, mi rompeva le costole coi ginocchi. Abbiamo lottato per una mezz’ora, e alla fine eravamo esausti e sudati, io con le ossa rotte e la schiena indolenzita. Ma la nostra espressione era mutata. Le nostre facce, prima indurite, corrucciate, erano distese. Poi lei mi ha chiesto: "eri nervoso prima?" E io: "sì". E lei: "anch’io". E io: "e adesso?" E lei: "non più. Sai una cosa?" ha soggiunto, "hai avuto proprio una grande idea". Mi sono sentito bene, meno grigio, e ho vagato per la casa gonfio come un galletto di euforia e di soddisfazione.
Lottate spesso coi vostri figli. La lotta è una pratica antichissima, serve per scaricare tensioni, ma anche rancori, che vengono sublimati, raffinati ed espulsi. La lotta è il miglior antitodo contro la depressione, il pessimismo e la paura. Lottate spesso con loro, fateli faticare, fateli sudare, e fateli vincere, perché non sono molte le occasioni di vittoria nella società degli Uomini Grigi.
venerdì, ottobre 21, 2005
A.C.S.T.V.
(Alcune Cazzate Sulla TV)
Rockpolitik, l’evento televisivo dell’anno: poiché aspettavo con curiosità l’arrivo di Santoro ho sopportato stoicamente Celentano che cantava, che per per me equivale, più o meno, a spostare dei sacchi di cemento di 50Kg (che ho davvero spostato nei cantieri, per un certo periodo della mia vita). Devo dire comunque che la lettura di ciò che è lento e ciò che è rock è stato divertente, con quel chitarrista bravo che sembrava Jimmy Page da giovane; e tutta la vicenda della censura, con Berlusconi minaccioso che sembrava Pinochet, e Santoro così accorato, e Biagi, Luttazzi, è stato forte, una volta tanto senza falsi pudori, senza ipocrisie, Ed è bello assistere, il giorno dopo, alle reazioni scomposte dei giannizzeri della destra. Che non si prendono davvero sul serio, ho idea; perché, come ha detto Santoro, forse l’epoca del più turpe pecoreccio italiano in politica sta lentamente tramontando; prende nuovamente forma, per l’ennesima volta, forse per l’eternità, il centro, e i parassiti, le belve fameliche ululano, ma si stanno già riciclando.
Lo spot della Wolkswagen è odioso. Fa pubblicità a un gioco mortale, il salto dai ponti (alcuni ragazzi si sono sfracellati con questo sport). Poi è un inno all’ipocrisia, alla coscienza sporca, che viene rappresentata con finta ironia, con stile glam. E’ eticamente laido, una porcheria. Meglio quello della BMW, che scorre sulla musica di Jimi Hendrix.
Abbasso la W!
(Alcune Cazzate Sulla TV)
Rockpolitik, l’evento televisivo dell’anno: poiché aspettavo con curiosità l’arrivo di Santoro ho sopportato stoicamente Celentano che cantava, che per per me equivale, più o meno, a spostare dei sacchi di cemento di 50Kg (che ho davvero spostato nei cantieri, per un certo periodo della mia vita). Devo dire comunque che la lettura di ciò che è lento e ciò che è rock è stato divertente, con quel chitarrista bravo che sembrava Jimmy Page da giovane; e tutta la vicenda della censura, con Berlusconi minaccioso che sembrava Pinochet, e Santoro così accorato, e Biagi, Luttazzi, è stato forte, una volta tanto senza falsi pudori, senza ipocrisie, Ed è bello assistere, il giorno dopo, alle reazioni scomposte dei giannizzeri della destra. Che non si prendono davvero sul serio, ho idea; perché, come ha detto Santoro, forse l’epoca del più turpe pecoreccio italiano in politica sta lentamente tramontando; prende nuovamente forma, per l’ennesima volta, forse per l’eternità, il centro, e i parassiti, le belve fameliche ululano, ma si stanno già riciclando.
Lo spot della Wolkswagen è odioso. Fa pubblicità a un gioco mortale, il salto dai ponti (alcuni ragazzi si sono sfracellati con questo sport). Poi è un inno all’ipocrisia, alla coscienza sporca, che viene rappresentata con finta ironia, con stile glam. E’ eticamente laido, una porcheria. Meglio quello della BMW, che scorre sulla musica di Jimi Hendrix.
Abbasso la W!
martedì, ottobre 18, 2005
Un viaggio di Tiziano Terzani
Da tempo volevo affrontare l’opera di Tiziano Terzani, l’autore delle Lettere contro la guerra, ma poiché è uno scrittore molto prolifico, non riuscivo a decidere come e quando cominciare. Partire dall’ultimo libro, Ultimo giro di giostra, che per le tematiche affrontate è quello che più mi interessa? In libreria a lungo soppesavo i grossi tomi, e leggiucchiavo qua e là, senza capirci granché, come al solito (questo, dicono, è il sistema usato dagli editori per valutare i manoscritti, ma non fa per me); infine ho comprato due testi, l’ultimo, ovviamente, ma l’ho riposto sullo scaffale, perché ho deciso di iniziare con Buonanotte signor Lenin, l’opera del Terzani giornalista, del Terzani operativo, del grande viaggiatore. Quello che segue è il resoconto di questa lettura, mentre Ultimo giro di giostra attualmente è a pagina 80.
Nel 1991 il nostro autore si trova all’estremo confine dell’ex URSS con la Cina, lungo il fiume Amur, quando viene raggiunto dalla notizia del tentativo di colpo di Stato contro Gorbaciov e la sua perestrojka (ricordate le immagini dei carri armati e di Eltsin sulle barricate?). Immediatamente l’infallibile fiuto del grande giornalista intuisce che la svolta è storica: la caduta definitiva del regime. Inizia così un viaggio, spesso con mezzi di fortuna, attraverso l’immenso territorio dell'URSS, nella Russia asiatica, nel Caucaso musulmano, fino a Mosca. E’ una discesa agli inferi: come l’autore – e con lui il lettore – ha capito, in realtà il regime è già caduto, si è sgretolato nella sua inefficienza, nei continui niet, feroci ed esilaranti, che accompagnano il viaggiatore in cerca di una stanza, un biglietto, un’informazione; è tracollato nell’apatia della gente, nel fatalismo senza speranza, nella corruzione. Quello che resta è un ammasso di rovine, terra di conquista di mafiosi rampanti, imprenditori senza scrupoli, politici riciclati. Ovunque vi è grigiore, povertà estrema, infelicità. Le persone sono di aspetto trascurato, malaticcio, curve sotto il peso della miseria e della sventura : “C’è un dettaglio piacevole? Una faccia sorridente? Mai”. E’ un’umanità spettrale, che si trascina per strade dissestate e fangose. La potenza di un tempo, la tracotanza del regime sono visibili solo dalle gigantesche statue di Lenin e degli eroi della rivoluzione che troneggiano in ogni città, in ogni piazza; oppure dai resti dell’edilizia sovietica, tronfia, minacciosa, simbolo della brutta architettura comunista. Per il resto le città e i villaggi sono degradati oltre ogni limite e tutto cade a pezzi, tutto è invaso da rifiuti, mentre i popoli si dividono, e tornano a riaffiorare antichi odi.
Il Terzani di questo libro, di questo viaggio, è il grande reporter che studia l’ambiente e i personaggi, che vuole conoscere, che intervista, che scava sotto la superficie dell’apparenza, che raccoglie informazioni con instancabile, meticolosa precisione. Racconta storie, fornisce dati, cenni storici. Non è Bruce Chatwin, non è lunare, sognatore; è uno scrittore di viaggi funzionale all’uso, esatto, coerente; per cui non abbiamo dubbi sul fatto che ciò di cui ci parla corrisponde alla realtà dei fatti; non dubitiamo che il disastro sociale che ci descrive sia reale, e probabilmente irreversibile.
Eppure, qualcosa mi ha disturbato. Più volte ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per una irritazione serpeggiante che “scaldava” la lettura fino a provocare una vera e propria ripulsa. Perché? L’ho scoperto presto. Nel testo aleggia, come una sovrastruttura non scritta, non dichiarata, un eccesso di anticomunismo che sfugge al metro esatto col quale l’autore misura la realtà. Qui non si vogliono certo giustificare le catastrofi causate dalle politiche sociali e ambientali del regime, ma non si può, in una analisi storica, non diversificare la Rivoluzione d’Ottobre dall’involuzione stalinista, dalla chiusura estrema causata anche dalla Guerra Fredda. Capire non è giustificare. Occorre semplicemente mantenere la lucidità fino in fondo. Terzani inorridisce di fronte all’architettura comunista, fatta di casermoni, alveari, scatoloni che deturpano il paesaggio; rimpiange l’eleganza zarista, il culto del bello, cancellato dalla brutalità dell’industria pesante sovietica. E’ vero, come negarlo? Ma non può esservi solo rimpianto. Come possiamo dimenticare che l’eleganza degli zar era costruita sulla miseria nel popolo russo, e gli eleganti edificatori rubavano persino il latte che serviva per alimentare i bambini? E che i quartieri-mostro edificati dal regime, obbrobri che ora bisognerebbe abbattere, servivano per dare una casa a tutti? Questo fatto non rappresenta certo una giustificazione, ma deve comunque essere valutato, ha un peso, un valore. E talvolta Terzani è costretto ad ammetterlo, seppure a denti stretti: al vecchio ordine repressivo e ottuso, corrotto e volgare, si sostituisce il non-ordine del denaro, della prepotenza e della speculazione, con una tale violenza che in certi casi si può addirittura rimpiangere il passato.
Molti libri, anche grandi, hanno dei difetti: in certi casi è la noia, la piattezza della scrittura, il manierismo, una trama troppo intricata, un eccesso di personaggi, e altro ancora; dalla gravità di questi difetti, e dalla bellezza dell’opera, dipende la possibilità di perdonarli oppure no. Il difetto di questo libro di Terzani, un anticomunismo che talvolta assume toni berlusconiani (c’è addirittura “la mente irriverente e sacrilega dei comunisti sovietici”) è perfettamente perdonabile, perché scaturisce dal profondo di una personalità anarco-borghese che ha orrore dell’ordine costituito, delle leggi, dei divieti; ed è bilanciato dalla vivacità della narrazione, dalla quantità di storie che ci meravigliano, ci stupiscono, ci fanno ridere e riflettere; dalla folla di personaggi strambi, dalle leggende, dalla pazzia che lo pervade; e dalla sincerità del suo autore, che è forse il pregio più grande e indimenticabile.
Da tempo volevo affrontare l’opera di Tiziano Terzani, l’autore delle Lettere contro la guerra, ma poiché è uno scrittore molto prolifico, non riuscivo a decidere come e quando cominciare. Partire dall’ultimo libro, Ultimo giro di giostra, che per le tematiche affrontate è quello che più mi interessa? In libreria a lungo soppesavo i grossi tomi, e leggiucchiavo qua e là, senza capirci granché, come al solito (questo, dicono, è il sistema usato dagli editori per valutare i manoscritti, ma non fa per me); infine ho comprato due testi, l’ultimo, ovviamente, ma l’ho riposto sullo scaffale, perché ho deciso di iniziare con Buonanotte signor Lenin, l’opera del Terzani giornalista, del Terzani operativo, del grande viaggiatore. Quello che segue è il resoconto di questa lettura, mentre Ultimo giro di giostra attualmente è a pagina 80.
Nel 1991 il nostro autore si trova all’estremo confine dell’ex URSS con la Cina, lungo il fiume Amur, quando viene raggiunto dalla notizia del tentativo di colpo di Stato contro Gorbaciov e la sua perestrojka (ricordate le immagini dei carri armati e di Eltsin sulle barricate?). Immediatamente l’infallibile fiuto del grande giornalista intuisce che la svolta è storica: la caduta definitiva del regime. Inizia così un viaggio, spesso con mezzi di fortuna, attraverso l’immenso territorio dell'URSS, nella Russia asiatica, nel Caucaso musulmano, fino a Mosca. E’ una discesa agli inferi: come l’autore – e con lui il lettore – ha capito, in realtà il regime è già caduto, si è sgretolato nella sua inefficienza, nei continui niet, feroci ed esilaranti, che accompagnano il viaggiatore in cerca di una stanza, un biglietto, un’informazione; è tracollato nell’apatia della gente, nel fatalismo senza speranza, nella corruzione. Quello che resta è un ammasso di rovine, terra di conquista di mafiosi rampanti, imprenditori senza scrupoli, politici riciclati. Ovunque vi è grigiore, povertà estrema, infelicità. Le persone sono di aspetto trascurato, malaticcio, curve sotto il peso della miseria e della sventura : “C’è un dettaglio piacevole? Una faccia sorridente? Mai”. E’ un’umanità spettrale, che si trascina per strade dissestate e fangose. La potenza di un tempo, la tracotanza del regime sono visibili solo dalle gigantesche statue di Lenin e degli eroi della rivoluzione che troneggiano in ogni città, in ogni piazza; oppure dai resti dell’edilizia sovietica, tronfia, minacciosa, simbolo della brutta architettura comunista. Per il resto le città e i villaggi sono degradati oltre ogni limite e tutto cade a pezzi, tutto è invaso da rifiuti, mentre i popoli si dividono, e tornano a riaffiorare antichi odi.
Il Terzani di questo libro, di questo viaggio, è il grande reporter che studia l’ambiente e i personaggi, che vuole conoscere, che intervista, che scava sotto la superficie dell’apparenza, che raccoglie informazioni con instancabile, meticolosa precisione. Racconta storie, fornisce dati, cenni storici. Non è Bruce Chatwin, non è lunare, sognatore; è uno scrittore di viaggi funzionale all’uso, esatto, coerente; per cui non abbiamo dubbi sul fatto che ciò di cui ci parla corrisponde alla realtà dei fatti; non dubitiamo che il disastro sociale che ci descrive sia reale, e probabilmente irreversibile.
Eppure, qualcosa mi ha disturbato. Più volte ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per una irritazione serpeggiante che “scaldava” la lettura fino a provocare una vera e propria ripulsa. Perché? L’ho scoperto presto. Nel testo aleggia, come una sovrastruttura non scritta, non dichiarata, un eccesso di anticomunismo che sfugge al metro esatto col quale l’autore misura la realtà. Qui non si vogliono certo giustificare le catastrofi causate dalle politiche sociali e ambientali del regime, ma non si può, in una analisi storica, non diversificare la Rivoluzione d’Ottobre dall’involuzione stalinista, dalla chiusura estrema causata anche dalla Guerra Fredda. Capire non è giustificare. Occorre semplicemente mantenere la lucidità fino in fondo. Terzani inorridisce di fronte all’architettura comunista, fatta di casermoni, alveari, scatoloni che deturpano il paesaggio; rimpiange l’eleganza zarista, il culto del bello, cancellato dalla brutalità dell’industria pesante sovietica. E’ vero, come negarlo? Ma non può esservi solo rimpianto. Come possiamo dimenticare che l’eleganza degli zar era costruita sulla miseria nel popolo russo, e gli eleganti edificatori rubavano persino il latte che serviva per alimentare i bambini? E che i quartieri-mostro edificati dal regime, obbrobri che ora bisognerebbe abbattere, servivano per dare una casa a tutti? Questo fatto non rappresenta certo una giustificazione, ma deve comunque essere valutato, ha un peso, un valore. E talvolta Terzani è costretto ad ammetterlo, seppure a denti stretti: al vecchio ordine repressivo e ottuso, corrotto e volgare, si sostituisce il non-ordine del denaro, della prepotenza e della speculazione, con una tale violenza che in certi casi si può addirittura rimpiangere il passato.
Molti libri, anche grandi, hanno dei difetti: in certi casi è la noia, la piattezza della scrittura, il manierismo, una trama troppo intricata, un eccesso di personaggi, e altro ancora; dalla gravità di questi difetti, e dalla bellezza dell’opera, dipende la possibilità di perdonarli oppure no. Il difetto di questo libro di Terzani, un anticomunismo che talvolta assume toni berlusconiani (c’è addirittura “la mente irriverente e sacrilega dei comunisti sovietici”) è perfettamente perdonabile, perché scaturisce dal profondo di una personalità anarco-borghese che ha orrore dell’ordine costituito, delle leggi, dei divieti; ed è bilanciato dalla vivacità della narrazione, dalla quantità di storie che ci meravigliano, ci stupiscono, ci fanno ridere e riflettere; dalla folla di personaggi strambi, dalle leggende, dalla pazzia che lo pervade; e dalla sincerità del suo autore, che è forse il pregio più grande e indimenticabile.
giovedì, ottobre 13, 2005
Il bell’Enzo Paolo
Ho un rapporto affettivo con L’Isola dei famosi. Quando è uscita la prima edizione ero in ospedale per un ricovero pesante; col mio compagno di stanza, un signore di Salerno che stava molto male, malissimo – poi ho saputo che non ce l’ha fatta – alle 19 in punto aprivamo la tele perché scoccava "l’ora delle cazzate di Pappalardo". Quel programma era una compagnia, un piccolo appuntamento luminoso nel ritmo piatto, nella sequenza di riti del reparto ospedaliero, nel malessere e nella febbre. Il cicaleccio di quei personaggi "famosi", anche se di una fama media, piccola, quel loro desiderio ossessivo di mostrarsi, di essere in TV, mi ricordava, non so perché, la voce collettiva triste, un po’ folle, dell’Antologia di Spoon River. Poi, una volta dimesso, non l’ho quasi più guardato, anche se un’occhiata ogni tanto si allunga sul video, una breve incursione è talvolta piacevole. E’ quanto è accaduto l’altra sera, quando ho assistito allo sfogo psicologico di un ex ballerino coi capelli ossigenati di nome Enzo Paolo Tuchi, marito di un’ex ballerina, pure lei coi capelli ossigenati, che era nell’edizione di un anno fa, di nome Carmen Russo. L’Enzo Paolo, parlando con la moglie in studio, è scoppiato in lacrime e ha detto "ti prego, se mi vuoi bene fammi tornare!" Fammi tornare: e l’ha ripetuto più volte, con la voce rotta dai singhiozzi: la supplicava di riprenderlo tra le sue braccia, come un bambino supplica la mamma di accoglierlo, dopo averlo perdonato. Il fatto è che l’Enzo Paolo non reggeva le angherie di Al Bano, che è un tipo legnoso, polemico, prepotente, graffiante, e, a quanto pare, freddo, insensibile. Allora la produzione, per tentare di arginare la crisi (e la fuga), l’ha mandato tra le donne, perché donne e uomini erano, appunto, divisi; l’Enzo Paolo lontano dagli uomini cattivi è subito rinato, è rifiorito; ma ecco che il gruppo promiscuo è stato riformato e lui è nuovamente entrato in crisi: gli è venuta la diarrea ed è tornato subito a casa, accolto a braccia aperte dalla sua Carmen che ha superato la delusione di vedere il suo uomo così debole, così poco macho.
Proprio questo è il punto: l’Enzo Paolo ha dato un’immagine così poco "gallesca", così poco da duro, che, in un paese come il nostro, dove le icone sono i vari Costantino, Daniele Interrante (pure presente nel programma), mi ha ricordato Il bell’Antonio. Nel paese del "ce l’ho sempre duro" il poverone Enzo Paolo, il maschio che cede, si spezza, che non regge la competizione, si espone abbastanza pesantemente, come ha dimostrato il disagio – forse la vergogna - della Carmen di fronte al suo pianto dirotto. Infatti la Ventura continuava a strillare "ma come sei sensibile" e "quanta tenerezza". E lui a scuotere i capelli ossigenati, a cercare di ridere quando la Ventura ha chiesto alla coppia ossigenata riunita: "ma in casa vostra chi porta i pantaloni?".
Ho un rapporto affettivo con L’Isola dei famosi. Quando è uscita la prima edizione ero in ospedale per un ricovero pesante; col mio compagno di stanza, un signore di Salerno che stava molto male, malissimo – poi ho saputo che non ce l’ha fatta – alle 19 in punto aprivamo la tele perché scoccava "l’ora delle cazzate di Pappalardo". Quel programma era una compagnia, un piccolo appuntamento luminoso nel ritmo piatto, nella sequenza di riti del reparto ospedaliero, nel malessere e nella febbre. Il cicaleccio di quei personaggi "famosi", anche se di una fama media, piccola, quel loro desiderio ossessivo di mostrarsi, di essere in TV, mi ricordava, non so perché, la voce collettiva triste, un po’ folle, dell’Antologia di Spoon River. Poi, una volta dimesso, non l’ho quasi più guardato, anche se un’occhiata ogni tanto si allunga sul video, una breve incursione è talvolta piacevole. E’ quanto è accaduto l’altra sera, quando ho assistito allo sfogo psicologico di un ex ballerino coi capelli ossigenati di nome Enzo Paolo Tuchi, marito di un’ex ballerina, pure lei coi capelli ossigenati, che era nell’edizione di un anno fa, di nome Carmen Russo. L’Enzo Paolo, parlando con la moglie in studio, è scoppiato in lacrime e ha detto "ti prego, se mi vuoi bene fammi tornare!" Fammi tornare: e l’ha ripetuto più volte, con la voce rotta dai singhiozzi: la supplicava di riprenderlo tra le sue braccia, come un bambino supplica la mamma di accoglierlo, dopo averlo perdonato. Il fatto è che l’Enzo Paolo non reggeva le angherie di Al Bano, che è un tipo legnoso, polemico, prepotente, graffiante, e, a quanto pare, freddo, insensibile. Allora la produzione, per tentare di arginare la crisi (e la fuga), l’ha mandato tra le donne, perché donne e uomini erano, appunto, divisi; l’Enzo Paolo lontano dagli uomini cattivi è subito rinato, è rifiorito; ma ecco che il gruppo promiscuo è stato riformato e lui è nuovamente entrato in crisi: gli è venuta la diarrea ed è tornato subito a casa, accolto a braccia aperte dalla sua Carmen che ha superato la delusione di vedere il suo uomo così debole, così poco macho.
Proprio questo è il punto: l’Enzo Paolo ha dato un’immagine così poco "gallesca", così poco da duro, che, in un paese come il nostro, dove le icone sono i vari Costantino, Daniele Interrante (pure presente nel programma), mi ha ricordato Il bell’Antonio. Nel paese del "ce l’ho sempre duro" il poverone Enzo Paolo, il maschio che cede, si spezza, che non regge la competizione, si espone abbastanza pesantemente, come ha dimostrato il disagio – forse la vergogna - della Carmen di fronte al suo pianto dirotto. Infatti la Ventura continuava a strillare "ma come sei sensibile" e "quanta tenerezza". E lui a scuotere i capelli ossigenati, a cercare di ridere quando la Ventura ha chiesto alla coppia ossigenata riunita: "ma in casa vostra chi porta i pantaloni?".
martedì, ottobre 11, 2005
Poveroni
Quel bollettino governativo diretto da un giannizzero di AN che si autodefinisce "TG2 RAI", nell’edizione delle 13, in coda alla lista di stragi, morti in incidenti stradali (scovati anche all’estero, in capo al mondo, purché vi sia sangue), dichiarazioni rassicuranti dei politici della maggioranza, e altre amenità, produce la rubrica Costume e società, che dovrebbe essere un rotocalco di argomenti leggeri, gossip soprattutto; in realtà è una rubrica malconfezionata, zeppa di banalità; è più sgargiante Verissimo di Canale 5, almeno è gossip vero, cavolate degne di questo nome; comunque ieri, col solito tono pimpante, hanno realizzato un servizio "clamoroso" su un comico "che dice le cose senza guardare in faccia nessuno". Questo comico era Gene Gnocchi, un personaggio sicuramente interessante, con delle boutades divertenti, spesso caustiche, anche se, poverone, deve per forza mediare: o se lavora o nun se lavora, e quindi bisogna contenersi, o si finisce nella lista nera. Lo speaker, col consueto stile enfatico, ha detto che i comici come lui, cioè che "non guardano in faccia nessuno", sono "rimasti in pochi". Mi ha colpito questa affermazione. Se sono rimasti in pochi è proprio colpa loro, dei meschini, idioti censori, dei leccapiedi del potere che compilano le liste nere, e cacciano via i comici scomodi. E comunque è un’affermazione falsa, i comici che non guardano in faccia nessuno esistono, semplicemente non passano per i loro video ruffiani. C’è una bella differenza tra una realtà reale e una realtà inventata.
E il povero Lapo Elkan, che si è strafatto di droga fino a entrare in coma: oggi i vari tirapiedi del potere si sperticano in lodi, auguri, tiritere strappalacrime: "forza Lapo" "tieni duro Lapo"; loro, i proibizionisti feroci, che vogliono mandare in comunità un ragazzo beccato con un grammo di fumo, si commuovono per i vip, per Lapo, per l’attore famoso; i quali la galera neanche la vedono, entrano subito in clinica, perché i vip non stanno mai bene, devono sempre curarsi, vedi il povero Callisto Tanzi poverone, che appena varca il cancello della galera si sente male, e lo trasferiscono in infermeria.
Comunque è singolare assistere allo spettacolo di queste dinastie malate, o maledette, che hanno ispirato tanti film, tanti libri: qui il capostipite, il mito assoluta per l’Italia, era l’avvocato, che Paolo Volponi in un famoso romanzo chiamava "Donna Fulgenzia": ce lo descrive come una persona assolutamente cinica, gelida, capricciosa, che usava le persone come oggetti, che ci giocava; un falco, un predatore feroce e raffinato che ha avuto un figlio suicida, schiacciato psicologicamente dalla figura paterna, dalla sua insaziabile sete di potenza; che da vecchio, quasi in punto di morte, ha ammesso che come padre ha fallito totalmente; e intanto la maledizione continua, e sfiora anche gli ultimi discendenti con la sua ala nera.
Quel bollettino governativo diretto da un giannizzero di AN che si autodefinisce "TG2 RAI", nell’edizione delle 13, in coda alla lista di stragi, morti in incidenti stradali (scovati anche all’estero, in capo al mondo, purché vi sia sangue), dichiarazioni rassicuranti dei politici della maggioranza, e altre amenità, produce la rubrica Costume e società, che dovrebbe essere un rotocalco di argomenti leggeri, gossip soprattutto; in realtà è una rubrica malconfezionata, zeppa di banalità; è più sgargiante Verissimo di Canale 5, almeno è gossip vero, cavolate degne di questo nome; comunque ieri, col solito tono pimpante, hanno realizzato un servizio "clamoroso" su un comico "che dice le cose senza guardare in faccia nessuno". Questo comico era Gene Gnocchi, un personaggio sicuramente interessante, con delle boutades divertenti, spesso caustiche, anche se, poverone, deve per forza mediare: o se lavora o nun se lavora, e quindi bisogna contenersi, o si finisce nella lista nera. Lo speaker, col consueto stile enfatico, ha detto che i comici come lui, cioè che "non guardano in faccia nessuno", sono "rimasti in pochi". Mi ha colpito questa affermazione. Se sono rimasti in pochi è proprio colpa loro, dei meschini, idioti censori, dei leccapiedi del potere che compilano le liste nere, e cacciano via i comici scomodi. E comunque è un’affermazione falsa, i comici che non guardano in faccia nessuno esistono, semplicemente non passano per i loro video ruffiani. C’è una bella differenza tra una realtà reale e una realtà inventata.
E il povero Lapo Elkan, che si è strafatto di droga fino a entrare in coma: oggi i vari tirapiedi del potere si sperticano in lodi, auguri, tiritere strappalacrime: "forza Lapo" "tieni duro Lapo"; loro, i proibizionisti feroci, che vogliono mandare in comunità un ragazzo beccato con un grammo di fumo, si commuovono per i vip, per Lapo, per l’attore famoso; i quali la galera neanche la vedono, entrano subito in clinica, perché i vip non stanno mai bene, devono sempre curarsi, vedi il povero Callisto Tanzi poverone, che appena varca il cancello della galera si sente male, e lo trasferiscono in infermeria.
Comunque è singolare assistere allo spettacolo di queste dinastie malate, o maledette, che hanno ispirato tanti film, tanti libri: qui il capostipite, il mito assoluta per l’Italia, era l’avvocato, che Paolo Volponi in un famoso romanzo chiamava "Donna Fulgenzia": ce lo descrive come una persona assolutamente cinica, gelida, capricciosa, che usava le persone come oggetti, che ci giocava; un falco, un predatore feroce e raffinato che ha avuto un figlio suicida, schiacciato psicologicamente dalla figura paterna, dalla sua insaziabile sete di potenza; che da vecchio, quasi in punto di morte, ha ammesso che come padre ha fallito totalmente; e intanto la maledizione continua, e sfiora anche gli ultimi discendenti con la sua ala nera.
venerdì, ottobre 07, 2005
Tentativo di uscita dall’Infernotto
Dunque. Allora. Ecco.
Ne parlo o non ne parlo? Me lo chiedo da giorni. Le cose che bisogna dire vanno dette, e quelle che è invece meglio tacere bisogna... dirle. A questo serve un Blog. Col Blog ci si mette in piazza, senza reticenze. Non c’è nulla a perdere in un Blog, è un gioco, un’avventura, una provocazione, una traccia di libera informazione, e molto altro ancora.
Quindi, ne parlo.
L’Herpes Zoster, o Fuoco Sacro, è una brutta bestia, è dimostrato. Può essere anche una bestia bruttissima, orribile, e il demonietto può trasformarsi nel diavolaccio osceno raffigurato in una cappella, sempre chiusa, della Basilica di S. Petronio a Bologna. Diciamo che, per fortuna, io non sono uscito dallo stadio intermedio, e non oso pensare alle sofferenze patite da chi si è trovato nello stadio successivo.
Il fatto è che – e lo dicono tutti, ma proprio tutti, tutti – dal Fuoco non si guarisce se non ci si fa segnare. Segnare, proprio così. A Bologna, in Emilia, terre appartenute allo Stato Pontificio, vi è una “fattucchieria”, un ricorso ai riti magici, alle “fatture” che uno studioso, un sociologo, un antropologo, potrebbe studiare per anni. Non credo che in nessun’altra regione d’Italia vi sia un tale ricorso alla magia. Per esempio questa storia di farsi segnare contro il Fuoco è sconosciuta nella levantina Puglia, e anche nel cattolicissimo, austro-ungarico Trentino. Ma qui è la legge. E se uno rifiuta, se fa l’orgoglioso, se fa lo “sburrone”si pone fuori dalla legge. “Se non ti fai segnare dal Fuoco non guarisci” mi ha detto un’amica. Non è una donnetta credulona, è un’insegnate razionalista, di solide idee di sinistra, atea, che non manda la figlia a catechismo; ma non ha dubbi, senza la segnatura non si guarisce dal Fuoco. “E’ così” dice, allargando le braccia. Dice anche che alcuni medici consigliano ai pazienti di andare dalla guaritrice, e forniscono pure l’indirizzo. “Dalla guaritrice? Possibile?” “Lo so” dice, “è paradossale, ma devi essere tranquillo: se non ti fai segnare il Fuoco non va via”.
Dalla guaritrice. Dalla fattucchiera. “Non sono fattucchiere” chiarisce. “Non chiedono soldi. Neanche un euro. Lo fanno perché hanno, o credono di avere, una missione”.
Passano un paio di giorni, ingoio pilloloni di antivirale, e altri pilloloni di antidolorifico. Cosa rischio a farmi segnare? Cosa perdo? Un bel niente. Se ci credo è tutto a posto, e se non ci credo non porterà nulla di male. E allora... è un tarlo che entra nel cervello, per esserne immuni bisogna avere un certo tipo di mentalità scientifica, essere sereni, granitici. Tutto ciò che io non sono. Io sono il dubbio vivente, l’Insicurezza incarnata sulla Terra. Così chiedo l’indirizzo di una guaritrice alla mia amica, e il numero di telefono.
E’ una donna di 92 anni che ha salvato, dice la mia amica, molte persone aggredite con inaudita violenza dal Fuoco. Telefono il giovedi mattina. La donna parla lenta, ma precisa. Dice che non può “fare il trattamento” prima di una settimana, perché per due giorni ha tutti gli spazi impegnati (è attiva solo fino alle 7.45 del mattino, perché dalle 7.46 è senza poteri) e dopo deve sottoporsi a una terapia. “Ah” faccio. Una settimana? E intanto il Fuoco che fa? Aspetta? Perché adesso questa operazione mi sembra assolutamente indispensabile, vitale per la guarigione. Senza, il Fuoco mi mangerà vivo. Mi vedo steso sul letto, il letto di un ospedale da campo di Madre Teresa di Calcutta, ricoperto di piaghe, gemebondo, delirante. Lei sembra leggermi nel pensiero. “Però intanto lei non può rimanere così. Quindi venga stasera alle 18, che lo fermo per tre giorni. Questo posso farlo”. Ah, almeno lo ferma, anche se solo per tre giorni.
Alle 18.00 suono il campanello di una palazzina sui colli, in un quartiere tranquillo. Mi apre un uomo di circa cinquant’anni coi capelli grigi, dice “venga, venga”. Mi fa entrare in una cucina con la tv accesa. Sul fornello un microscopico pentolino bolle allegro. Dopo pochi secondi arriva lei. Non dimostra tutta la sua età: potrebbe avere ottanta anni, forse meno. Sarà per i capelli tinti, per lo sguardo vigile, per il corpo ancora in tensione, ma non sembra una novantenne. Mi fa accomodare in un salotto, mi chiede di mostrarle la parte malata. Mentre mi tolgo maglia e camicia le dico che con tutta probabilità il Fuoco è esploso dopo una terapia di cortisone che abbassa le difese, ma lei taglia corto: “sì-sì” fa. Non gliene importa nulla, vuole solo vedere. Non le importa come mi chiamo, dove abito, quanti anni ho, per lei sono un organismo che il Fuoco ha scelto di aggredire, un organismo da curare con le sue arti, nulla di più. Si avvicina e, senza occhiali, esamina le piaghe. “Sì” dice. Guarda anche con una pila, a lungo. “Sì” ripete. “E’ maschio e femmina, sta fiorendo, ed è tamugno”. Tamugno in bolognese significa duro, testardo, impegnativo. “Adesso lo fermo per tre giorni” dice, e prende da una credenza una piccola scatolina. La apre e da un batuffolo di cotone estrae una fede nuziale. La infila nel dito indice e fa dei segni. Non vedo quali segni, perché è alle mie spalle, ma percepisco i movimenti. Credo che siano segni a croce. L’operazione non dura più di tre minuti. Posso rivestirmi, mentre lei ripone con cura la fede nella scatolina. Restiamo d’accordo che giovedi prossimo, alle 7.30 in punto, sarò qua. Esco, la saluto, ma non è interessata a dare la mano e cose del genere. L’uomo, che è suo figlio, è seduto davanti alla tv, su una sedia. Sul fuoco il pentolino continua a bollire.
Dopo due giorni le piaghe vanno via. Di colpo e completamente. Ma il dolore resta. Lancinante, perforante, che mi buca la spalla e il collo, anche perché non posso continuare a imbottirmi di antidolorifici oppiacei. Il punto è: le piaghe sono sparite per il trattamento della signora o per gli antivirali? Non lo saprò mai, temo. Lei l’ha “fermato”, ma fermarlo significa mandare via le piaghe?
Passa la settimana, mi trascino per strade di negri, affamato nudo e isterico col mio dolore affilato che non mi fa dormire la notte.
Il giovedi mattina alle sette e trenta suono il campanello. Mi apre il figlio, dice “venga venga” e mi fa entrare in cucina. La Tv è accesa sulle previsioni del tempo. Dopo qualche secondo si spalanca la porta del soggiorno ed esce una signora elegante e trafelata. Dice “arrivederci” ed esce di getto. La signora-guaritrice mi vede, dice di entrare mentre lei va a lavarsi le mani, perché, apprenderò, dopo ogni trattamento le mani vanno lavate accuratamente, per mandare vie le energie negative delle malattie, così come le parti trattate non vanno lavate per almeno una settimana, per non lavare anche le energie positive. Entro, mi siedo sulla solita sedia, mi tolgo maglia e camicia. Lei mi guarda la spalla, dice “ma che lavoro, sono andate via! Bè, l’abbiamo fermato... però è messo bene, davvero bene!” Poi prende la fede nuziale, si fa il segno della croce e inizia coi gesti misteriosi che non vedo. Tre minuti, forse quattro, non di più. Dice che mi posso rivestire e, intanto che mi abbottono la camicia dice che “quella di prima”, cioè la signora che mi ha preceduto, ha un brutto eczema sulla faccia, e insiste per truccarsi. “Si vuole truccare!” esclama, con una sorta di esasperazione. “Cosa posso farci io? Cosa posso dire? Che si trucchi!”
L’indomani, venerdi, alle sette e trenta, suono il campanello. Mi apre il figlio, che dice “venga venga” e mi fa entrare in cucina. Dopo qualche secondo si spalanca la porta del soggiorno ed esce un’altra signora elegante, che esce di getto come la signora di ieri mattina. Entro, mi metto a torso nudo, la signora arriva, prende le fede nuziale, fa i gesti. Poi, mentre mi rivesto, sparla anche della signora di oggi. Dice che suo marito ha ingoiato un dente d’oro, e allora? Lo farà quando va in bagno, cosa può farci lei? Quindi quella signora, prima di andare al lavoro, forse in banca, o in una compagnia di assicurazioni, è andata dalla guaritrice perché suo marito ha inghiottito un dente. Stamattina è più loquace del solito, dice che il Fuoco va fermato in tempo prima che “vada giù”, perché se si infila lungo il nervo sono guai: se lo mangia, lentamente, e poi aggredisce gli organi interni, “fino alla morte”. Poi mi indica una poltrona e dice che “lì sopra” c’è stato un poveraccio coi piedi in alto, perché il Fuoco “gli aveva preso tutto il sesso”. Deglutisco. Di nuovo lei mi legge nel pensiero: “no, ma non è il suo caso. L’abbiamo fermato in tempo”. Ah, meno male.
L’ultimo giorno, alle sette e trenta, sono davanti alla sua porta. Mi apre il figlio, che dice “venga venga” e mi fa accomodare in cucina. Si spalanca la porta del soggiorno, esce una terza signora elegante, fugge via a testa bassa. Entro, mi spoglio, mi siedo. La guaritrice ripete il rito, la fede, i gesti. Poi come al solito mi informa sulla signora che è uscita: “quella là” dice, indicando la porta, ha il figlio con delle piaghe sotto i piedi. Dico io, ma portatelo dal dottore!” “Perché” chiedo, “non l’hanno portato?” “Macché!” esclama. “Fatelo vedere, le ho detto, cosa volete che faccia io?”. Quindi quella signora non va dal pediatra per le piaghe del figlio, ma dalla guaritrice. Anche questa è Bologna, anche questa è l’Emilia.
Bene, abbiamo terminato. Le porgo la busta bianca dove ho infilato alcune banconote, un’offerta libera, diciamo. Lei la prende, ringrazia e la posa con grande tranquillità e dignità sulla tavola. Ci salutiamo. Mi fa gli auguri, ma è serena, per lei io sono guarito, o sulla via della guarigione.
Sono guarito? E’ passata una settimana dal trattamento, le piaghe sembrano definitivamente scomparse, ma il dolore continua a martoriarmi. E’ normale ha detto il medico, ci vuole tempo; ci vuole tempo ha detto la guaritrice. Forse non saprò mai, non riuscirò mai a decidere se l’Herpes è in via di risoluzione per gli antivirali o per la segnatura. Gli amici non hanno dubbi: è stata la segnatura; senza, avrei ancora la pelle ricoperta di piaghe, che magari si sarebbero estese ad altre parti del corpo.
Così dicono, così forse è. Comunque sia, è andata.
Dunque. Allora. Ecco.
Ne parlo o non ne parlo? Me lo chiedo da giorni. Le cose che bisogna dire vanno dette, e quelle che è invece meglio tacere bisogna... dirle. A questo serve un Blog. Col Blog ci si mette in piazza, senza reticenze. Non c’è nulla a perdere in un Blog, è un gioco, un’avventura, una provocazione, una traccia di libera informazione, e molto altro ancora.
Quindi, ne parlo.
L’Herpes Zoster, o Fuoco Sacro, è una brutta bestia, è dimostrato. Può essere anche una bestia bruttissima, orribile, e il demonietto può trasformarsi nel diavolaccio osceno raffigurato in una cappella, sempre chiusa, della Basilica di S. Petronio a Bologna. Diciamo che, per fortuna, io non sono uscito dallo stadio intermedio, e non oso pensare alle sofferenze patite da chi si è trovato nello stadio successivo.
Il fatto è che – e lo dicono tutti, ma proprio tutti, tutti – dal Fuoco non si guarisce se non ci si fa segnare. Segnare, proprio così. A Bologna, in Emilia, terre appartenute allo Stato Pontificio, vi è una “fattucchieria”, un ricorso ai riti magici, alle “fatture” che uno studioso, un sociologo, un antropologo, potrebbe studiare per anni. Non credo che in nessun’altra regione d’Italia vi sia un tale ricorso alla magia. Per esempio questa storia di farsi segnare contro il Fuoco è sconosciuta nella levantina Puglia, e anche nel cattolicissimo, austro-ungarico Trentino. Ma qui è la legge. E se uno rifiuta, se fa l’orgoglioso, se fa lo “sburrone”si pone fuori dalla legge. “Se non ti fai segnare dal Fuoco non guarisci” mi ha detto un’amica. Non è una donnetta credulona, è un’insegnate razionalista, di solide idee di sinistra, atea, che non manda la figlia a catechismo; ma non ha dubbi, senza la segnatura non si guarisce dal Fuoco. “E’ così” dice, allargando le braccia. Dice anche che alcuni medici consigliano ai pazienti di andare dalla guaritrice, e forniscono pure l’indirizzo. “Dalla guaritrice? Possibile?” “Lo so” dice, “è paradossale, ma devi essere tranquillo: se non ti fai segnare il Fuoco non va via”.
Dalla guaritrice. Dalla fattucchiera. “Non sono fattucchiere” chiarisce. “Non chiedono soldi. Neanche un euro. Lo fanno perché hanno, o credono di avere, una missione”.
Passano un paio di giorni, ingoio pilloloni di antivirale, e altri pilloloni di antidolorifico. Cosa rischio a farmi segnare? Cosa perdo? Un bel niente. Se ci credo è tutto a posto, e se non ci credo non porterà nulla di male. E allora... è un tarlo che entra nel cervello, per esserne immuni bisogna avere un certo tipo di mentalità scientifica, essere sereni, granitici. Tutto ciò che io non sono. Io sono il dubbio vivente, l’Insicurezza incarnata sulla Terra. Così chiedo l’indirizzo di una guaritrice alla mia amica, e il numero di telefono.
E’ una donna di 92 anni che ha salvato, dice la mia amica, molte persone aggredite con inaudita violenza dal Fuoco. Telefono il giovedi mattina. La donna parla lenta, ma precisa. Dice che non può “fare il trattamento” prima di una settimana, perché per due giorni ha tutti gli spazi impegnati (è attiva solo fino alle 7.45 del mattino, perché dalle 7.46 è senza poteri) e dopo deve sottoporsi a una terapia. “Ah” faccio. Una settimana? E intanto il Fuoco che fa? Aspetta? Perché adesso questa operazione mi sembra assolutamente indispensabile, vitale per la guarigione. Senza, il Fuoco mi mangerà vivo. Mi vedo steso sul letto, il letto di un ospedale da campo di Madre Teresa di Calcutta, ricoperto di piaghe, gemebondo, delirante. Lei sembra leggermi nel pensiero. “Però intanto lei non può rimanere così. Quindi venga stasera alle 18, che lo fermo per tre giorni. Questo posso farlo”. Ah, almeno lo ferma, anche se solo per tre giorni.
Alle 18.00 suono il campanello di una palazzina sui colli, in un quartiere tranquillo. Mi apre un uomo di circa cinquant’anni coi capelli grigi, dice “venga, venga”. Mi fa entrare in una cucina con la tv accesa. Sul fornello un microscopico pentolino bolle allegro. Dopo pochi secondi arriva lei. Non dimostra tutta la sua età: potrebbe avere ottanta anni, forse meno. Sarà per i capelli tinti, per lo sguardo vigile, per il corpo ancora in tensione, ma non sembra una novantenne. Mi fa accomodare in un salotto, mi chiede di mostrarle la parte malata. Mentre mi tolgo maglia e camicia le dico che con tutta probabilità il Fuoco è esploso dopo una terapia di cortisone che abbassa le difese, ma lei taglia corto: “sì-sì” fa. Non gliene importa nulla, vuole solo vedere. Non le importa come mi chiamo, dove abito, quanti anni ho, per lei sono un organismo che il Fuoco ha scelto di aggredire, un organismo da curare con le sue arti, nulla di più. Si avvicina e, senza occhiali, esamina le piaghe. “Sì” dice. Guarda anche con una pila, a lungo. “Sì” ripete. “E’ maschio e femmina, sta fiorendo, ed è tamugno”. Tamugno in bolognese significa duro, testardo, impegnativo. “Adesso lo fermo per tre giorni” dice, e prende da una credenza una piccola scatolina. La apre e da un batuffolo di cotone estrae una fede nuziale. La infila nel dito indice e fa dei segni. Non vedo quali segni, perché è alle mie spalle, ma percepisco i movimenti. Credo che siano segni a croce. L’operazione non dura più di tre minuti. Posso rivestirmi, mentre lei ripone con cura la fede nella scatolina. Restiamo d’accordo che giovedi prossimo, alle 7.30 in punto, sarò qua. Esco, la saluto, ma non è interessata a dare la mano e cose del genere. L’uomo, che è suo figlio, è seduto davanti alla tv, su una sedia. Sul fuoco il pentolino continua a bollire.
Dopo due giorni le piaghe vanno via. Di colpo e completamente. Ma il dolore resta. Lancinante, perforante, che mi buca la spalla e il collo, anche perché non posso continuare a imbottirmi di antidolorifici oppiacei. Il punto è: le piaghe sono sparite per il trattamento della signora o per gli antivirali? Non lo saprò mai, temo. Lei l’ha “fermato”, ma fermarlo significa mandare via le piaghe?
Passa la settimana, mi trascino per strade di negri, affamato nudo e isterico col mio dolore affilato che non mi fa dormire la notte.
Il giovedi mattina alle sette e trenta suono il campanello. Mi apre il figlio, dice “venga venga” e mi fa entrare in cucina. La Tv è accesa sulle previsioni del tempo. Dopo qualche secondo si spalanca la porta del soggiorno ed esce una signora elegante e trafelata. Dice “arrivederci” ed esce di getto. La signora-guaritrice mi vede, dice di entrare mentre lei va a lavarsi le mani, perché, apprenderò, dopo ogni trattamento le mani vanno lavate accuratamente, per mandare vie le energie negative delle malattie, così come le parti trattate non vanno lavate per almeno una settimana, per non lavare anche le energie positive. Entro, mi siedo sulla solita sedia, mi tolgo maglia e camicia. Lei mi guarda la spalla, dice “ma che lavoro, sono andate via! Bè, l’abbiamo fermato... però è messo bene, davvero bene!” Poi prende la fede nuziale, si fa il segno della croce e inizia coi gesti misteriosi che non vedo. Tre minuti, forse quattro, non di più. Dice che mi posso rivestire e, intanto che mi abbottono la camicia dice che “quella di prima”, cioè la signora che mi ha preceduto, ha un brutto eczema sulla faccia, e insiste per truccarsi. “Si vuole truccare!” esclama, con una sorta di esasperazione. “Cosa posso farci io? Cosa posso dire? Che si trucchi!”
L’indomani, venerdi, alle sette e trenta, suono il campanello. Mi apre il figlio, che dice “venga venga” e mi fa entrare in cucina. Dopo qualche secondo si spalanca la porta del soggiorno ed esce un’altra signora elegante, che esce di getto come la signora di ieri mattina. Entro, mi metto a torso nudo, la signora arriva, prende le fede nuziale, fa i gesti. Poi, mentre mi rivesto, sparla anche della signora di oggi. Dice che suo marito ha ingoiato un dente d’oro, e allora? Lo farà quando va in bagno, cosa può farci lei? Quindi quella signora, prima di andare al lavoro, forse in banca, o in una compagnia di assicurazioni, è andata dalla guaritrice perché suo marito ha inghiottito un dente. Stamattina è più loquace del solito, dice che il Fuoco va fermato in tempo prima che “vada giù”, perché se si infila lungo il nervo sono guai: se lo mangia, lentamente, e poi aggredisce gli organi interni, “fino alla morte”. Poi mi indica una poltrona e dice che “lì sopra” c’è stato un poveraccio coi piedi in alto, perché il Fuoco “gli aveva preso tutto il sesso”. Deglutisco. Di nuovo lei mi legge nel pensiero: “no, ma non è il suo caso. L’abbiamo fermato in tempo”. Ah, meno male.
L’ultimo giorno, alle sette e trenta, sono davanti alla sua porta. Mi apre il figlio, che dice “venga venga” e mi fa accomodare in cucina. Si spalanca la porta del soggiorno, esce una terza signora elegante, fugge via a testa bassa. Entro, mi spoglio, mi siedo. La guaritrice ripete il rito, la fede, i gesti. Poi come al solito mi informa sulla signora che è uscita: “quella là” dice, indicando la porta, ha il figlio con delle piaghe sotto i piedi. Dico io, ma portatelo dal dottore!” “Perché” chiedo, “non l’hanno portato?” “Macché!” esclama. “Fatelo vedere, le ho detto, cosa volete che faccia io?”. Quindi quella signora non va dal pediatra per le piaghe del figlio, ma dalla guaritrice. Anche questa è Bologna, anche questa è l’Emilia.
Bene, abbiamo terminato. Le porgo la busta bianca dove ho infilato alcune banconote, un’offerta libera, diciamo. Lei la prende, ringrazia e la posa con grande tranquillità e dignità sulla tavola. Ci salutiamo. Mi fa gli auguri, ma è serena, per lei io sono guarito, o sulla via della guarigione.
Sono guarito? E’ passata una settimana dal trattamento, le piaghe sembrano definitivamente scomparse, ma il dolore continua a martoriarmi. E’ normale ha detto il medico, ci vuole tempo; ci vuole tempo ha detto la guaritrice. Forse non saprò mai, non riuscirò mai a decidere se l’Herpes è in via di risoluzione per gli antivirali o per la segnatura. Gli amici non hanno dubbi: è stata la segnatura; senza, avrei ancora la pelle ricoperta di piaghe, che magari si sarebbero estese ad altre parti del corpo.
Così dicono, così forse è. Comunque sia, è andata.
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