lunedì, gennaio 09, 2006

Scrivere per vendetta

Si può scrivere per vendetta? Può uno scrittore, un giornalista, un critico, usare il suo talento e, quando ne ha la facoltà, il suo potere per stroncare un avversario avendo come unica motivazione quella di fare il male? Henry Miller stigmatizzava questo comportamento perché la scrittura, diceva, non può venire meno alla sua missione, che consiste nella ricerca, nella comunicazione di emozioni. Oggi il giornalismo è ebbro di vendetta, di trappole velenose, e l’etica che invocava Henry Miller è quasi totalmente dimenticata. I critici, se detestano uno scrittore, lo ignorano. Il che è forse peggio delle vecchie, sane stroncature, che comunque imprimevano uno scatto di energia a un testo. E gli scrittori? Vi sono opere in cui l’autore ha creato personaggi sulla base di matrici reali, e talvolta li ha animati sulla scena del proprio teatrino con un sarcasmo che rasenta la crudeltà. Certe figure di Proust sono intrise di un’ironia che ci strappa sorrisi feroci, e noi sappiamo che dietro ci sono due, tre, a volte quattro figure reali da cui ha attinto per creare i suoi attori; Vitaliano Brancati crea dei personaggi così grotteschi, che, nella tragedia di certe sue storie nere, dà l’impressione di sghignazzare amaramente alle loro spalle. Ma è vendetta? Non vi è certezza, non vi sono segnali sicuri. E, in assenza di tracce inequivocabili, noi prendiamo le loro pagine taglienti per quello che sono, cioè rappresentazioni dell’assurdo, del ridicolo. Ma uno scrittore, uno dei grandi dell’Ottocento, si è abbandonato al gusto amaro della vendetta senza alcun dubbio interpretativo; offeso nel suo intimo da un mancato riconoscimento, logorato da una vita grama di sconfitte, ha dato libro sfogo al suo odio producendo un libello terribile, forse l’esempio più aspro di scrittura offensiva: quello scrittore era Charles Baudealire, e il libro La Capitale delle Scimmie. E se in Proust l’ironia non è mai disgiunta da una vena autentica di affetto, e con Brancati entriamo in una paradossale animazione di macchiette, in questo libro Baudelarie si abbandona alla cieca a un odio profondo, furioso, e le parole, usate come corpi contundenti, hanno come unico scopo quello di ferire e di offendere.
L’antefatto: Baudelaire non riesce più a trovare una via d’uscita ai suoi problemi in Francia. I creditori lo perseguitano, gli editori rovinano le sue poesie con tagli e censure, per evitare processi per oscenità. L’ultima boutade, l’autocandidatura all’Accademia di Francia, lui, l’antiborghese, l’antitrombone per eccellenza, è andata buca. Il rapporto con la madre non è mai risolto, e continua a trascinarsi per strade di solitudine, di fallimenti e di non-amore. Si sta avvicinando la fine, lo sente. La malattia si è aggravata, sono arrivati i primi segnali di paralisi. Vuole andare via, vuole partire, forse ha bisogno di un ultimo scatto di vitalità, di abbandonarsi al sogno di cercare fortuna all’estero, in una terra che lui vede come provinciale, primitiva, aperta alla colonizzazione del suo ingegno. Nell’aprile del 1864 parte per il Belgio, e il 24 arriva a Bruxelles, all’Hotel du Grand Miroir. Il primo impatto è positivo, è in una città sconosciuta, da esplorare, dove "tutto è bello ed eccitante". Vuole tenere delle conferenze, che sogna affollatissime e trionfali, vuole contattare l’editore di Victor Hugo, lo scrittore che adora, perché è democratico, è progressista, e che odia, perché ha successo, è desiderato e vezzeggiato. Inizia con le conferenze, ma si rivelano subito un disastro. La colpa è anche sua, perché a quella su Delacroix arriva gente, ma Baudelaire, che è un pessimo oratore, si abbandona a imbarazzanti giochi di parole sulla perdita della sua verginità come oratore e fa scappare il pubblico femminile. A quella su Gautier, scrive Giuseppe Montesano nell’introduzione all’edizione italiana (Oscar classici Mondadori), "con il foglio attaccato al viso e una voce stridula celebra una messa letteraria sulla defunta poesia, ma legge senza rivolgersi a nessuno, sprezzante e lontano". Con le conferenze voleva guadagnare un po’ di franchi ma i 500 preventivati si riducono a 100. Ben presto intorno a lui si fa il vuoto. E, cosa per lui particolarmente insopportabile, un’offesa ignobile per il dandy quando si mette in tiro, e tira fuori i suoi addobbi migliori, nessuno lo nota: "Per quanto avesse un vestito e un soprabito chiari, con degli anelli su dei guanti ametista, passava inosservato". Il dandy sputa tutto il suo disprezzo sui Belgi, che "hanno sempre l’aria malvestita, per quanto si applichino molto a essere benvestiti". Con questo popolo ignobile e tarato non c’è speranza, perché "la natura più brillante qui si spegnerebbe nell’indifferenza universale". Il rancore furioso, ma di una furia gelida, dissanguante, dà origine a una fisiognomica atroce, dove tutto dei Belgi, l’aspetto fisico, le abitudini, il modo di camminare e di ridere, è ripugnante: "Il volto belga o piuttosto brussellese, oscuro, informe, smorto o vinoso, costruzione bizzarra delle mascelle, stupidità minacciosa"; "il modo di camminare dei Belgi, folle e pesante. Camminano guardando all’indietro, e si urtano senza sosta... un Belga non cammina, ruzzola"; "la fisionomia umana è pesante, impastata. Teste di grossi conigli gialli, ciglia gialle. Aria da montoni che sognano". Non risparmia nessuno, neanche i bambini: "bruttezza spaventosa dei bambini. Pidocchiosi, unti, col moccio, ignobili. Bruttezza e sporcizia. Anche puliti, sarebbero ancora orribili"; le donne belghe gli fanno orrore: "nella donna nessuna civetteria, nessuna resistenza, nessun pudore. Tutte bionde, scialbe, con occhi di pecora blu o grigi, a fior di testa"; "in una stradina sei dame belghe che pisciano sbarrano il passaggio, alcune in piedi, altre accovacciate, tutte vestite da gran sera". Il paesaggio è da incubo: "natura del terreno nei dintorni di Bruxelles, fangoso o sabbioso, che impedisce qualsiasi passeggiata... la vita animale poco abbondante. Niente insetti, niente uccelli. Anche l’animale fugge da queste contrade maledette". Arriva a invocare l’invasione, la deportazione: "impadronirci del suolo, degli edifici e delle ricchezze, e deportare tutti gli abitanti. Impossibile adoperarli come schiavi. Sono troppo stupidi". Si spinge oltre, desidera il Colera, la strage: "quanto si fa attendere, l’orribile beneamato, questo Attila imparziale, questo flagello divino che non sceglie le sue vittime! E come finalmente godrò contemplando la smorfia di agonia di questo orribile popolo... io godrò, dico, dei terrori e delle torture della razza dai capelli gialli".
La Capitale delle Scimmie è un libro che gronda odio, pazzia. E’ il suo ultimo testo, una sorta di testamento maligno, rimasto incompiuto. Sono tutti frammenti, bozze e riscritture, interessanti da analizzare come flusso in fieri di scrittura impregnata di sentimenti negativi, e da ascoltare, perché echeggia di sonorità cupe comuni a tutti noi; noi che non riusciamo ad amare, a rispettare il prossimo, ad aiutare, a capire e perdonare. E forse questa scrittura che si avvita su se stessa, e si nutre della propria ansia di vendetta, proprio perché parla ai territori nascosti e protetti del nostro cuore nero, trova la sua forma di riscatto, e, chissà, di immortalità.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

La scrittura è un mezzo di purificazione -anche per l'odio: Céline ne sa qualche cosa e noi con lui. Alcuni riescono ad uscire dagli inferni, altri li trovano consoni al proprio modo di sentire. E spesso più a questi che ai primi dobbiamo dire grazie.
Baudelaire l'arrogante, lo snob, l'albatro, il dandy che faceva attenzione al vestire e ai tintinnanti gioielli che risvegliavano i sensi... Baudelaire che per primo canta l'uomo della massa, della città, l'individuo senza identità che non sia in un lampo subito sommerso. Le pagine che scrive sui belgi e che citi sono terribili sì (baudelairianamente terribili), eppure... che volti avevano ad esempio i mangiatori di patate raffigurati da van Gogh? O, per rimanere in ambito letterario, che scriveva Rimabud, anche se in aqltri toni, della provincia (di cui era figlio) e dell'insopportabilità della gente che ci viveva -e della sua voglia di scapparne?
L'odio è forse l'evasione impossibile, l'impotenza, la bestemmia ripetuta -il "crénom" che Baudelaire, colpito dall'afasia, ripeteva e che era la sua ultima principesca rabbia contro l'universo.

maline

Anonimo ha detto...

Vero, maline, ma Van Gogh mostra certamente i mangiatori di patate con stile tragico, però viveva in mezzo a loro nel Borinage, ne condivideva la miseria, e i suoi quadri sono pervasi di compassione. Dico compassione, non moralismo. Rimbaud invece è un ragazzo in rivolta. Invece Baudelaire, a diferenza di loro, si compiace in tutto: nel dolore, nell'odio. Sguazza nel letame, lo mangia e lo beve. Questo non toglie che i Fiori del Male sia un libro (del male) di enorme qualità poetica.

Anonimo ha detto...

Infatti Baldrus. Come cantava De André "dal letame nascono i fior".
Non credo però tanto che il nostro si compiaccia del dolore e dell'odio -quanto che voglia evaderne ma ad un livello squisitamente e puramente estetico -al contario di un Rimbaud appunto, che finisce però per commerciare (pare) in armi e schiavi; ma da contraltare fanno poi i suoi rapporti col patrigno, la madre, la sua Jeanne ed un mondo accademico che gli preferisce davvero delle mezze calzette -e ci sono pagine di Proust molto belle su questo. Anche lui è uno di quelli che ci mostra i lati bui della nostra anima -dicendoci non di vergognarcene ma di metterceli di fronte: e lui lo ha fatto con la poesia.
Nell'apertura dei Fleur du mal, nel "Au lecteur" scrive: "L'ignoranza e il peccato, la lesina e l'errore/ ci regnano in cuore, sfibrano i nostri corpi,/e i nostri graziosi rimorsi li sfamiamo/ come un mendicante dà da mangiare ai suoi insetti." E conclude col celebre "Hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère!"

maline

P.s.: molto bella la foto!

Anonimo ha detto...

Su Baudelaire credo che non avrà mai fine la discussione sul binomio uomo/artista. Quanto sono un'unità indissolubile, quanto l'artista assolve le miserie dell'uomo? Sartre ha letteralmente maciullato Baudelaire in un libro feroce. Mette in ridicolo tutte le miserie dell'uomo, le incredibili viltà, le ipocrisie e i compiacimenti di un uomo che impersona fino ai limiti estremi la mostruosità del borghese. Baudelaire, il dandy, è rivoluzionario coi conservatori, conservatore coi rivoluzionari; con gli atei dice che è un gesuita; coi credenti bestemmia. Se va sulle barricate coi rivoluzionari lo fa per "fucilare il generale Aupick", il patrigno che non lo capisce e gli porta via la madre. Ma non va mai fino in fondo: il sedicente antiborghese piagnucola una candidatura all'Accademia. Come uomo non è Rimbaud, che è coerente, anche nella scelta del commercio di armi (quello degli schiavi non è stato mai accertato, io personalmente non ci credo), che corrisponde a un addio definitivo della poesia; Rimbaud è integro, Baudelaire è marcio fino al midollo. Però è stato un poeta eccelso, anche se la sua grandezza sta nell'accettazione del fascino del male, che diventa il compagno dell'uomo non in rivolta, ma l'uomo corrotto. Io, che sono un moralista, mi ribello a questa visione, però non ne nego affatto la grandezza poetica. Il limite imperdonabile del libro distruttivo di Sartre è che nella dissezione inserisce anche l'opera poetica. E qui era meglio se taceva, perché la sua opera - la sua di Sartre - non vale una virgola cancellata di quella di B.

Grazie per la foto. In effetti vorrei sperimentare un po' l'accostamento testo/immagini

Anonimo ha detto...

Comprendo il tuo punto di vista, Baldrus. E posso essere d'accordo con te. Ma l'illuminazione che uso su B. è un'altra -ed altre saranno quindi le ombre.
Più che essere marcio sino al midollo, B. è pervaso di una sensibilità quasi morbosa -è quanto ad es. più colpiva Proust- B. non è il semplice libertino accecato dai sensi, né un junkie ante litteram: è uno che lavora duramente e che scrive in alessandrini, in una forma poetica molto raffinata e cesellata. E che era conscio del suo valore come poeta (Saint-Beuve, cui si dovevavo le sue bocciature all'Accademia, che pure diceva di essergli amico, non ha probabilmente capito mai nulla della sua opera). Può essere antipatico -ha mai voluto altro?; può provocare indignazione, rabbia... o rifiuto. Se guardiamo la bellissima foto che gli fece Nadar ci rendiamo conto che (credo) mai avremmo potuto amare un uomo simile... Ma pur dalle sue "alte sfere", ammantato dei suoi simboli, B. è uno che guarda in basso -e che sa già ben vedere le conseguenze umane del capitalismo: lui, il borghese, è colui che getta lo sguardo più acuto negli anfratti della società borghese che si formava ed escludeva; non chiudeva gli occhi sulle miserie, sopratutto dell'anima, dell'umanità, né le romanzava (alla Hugo -uno stupendo affrescatore). Il suo essere rivoluzionario (artisticamente) e conservatore (politicamente) non sono tanto una contraddizione quanto i versi della stessa medaglia. La sua è una ricerca di purezza artistica perchè una purezza morale non la poteva trovare. Possiamo attaccarlo moralmente -ma con la morale non riusciremo mai a leggerlo.

maline