martedì, ottobre 09, 2007


René Char, un secolo di poesia
a cura di Loris Pattuelli

L’anno che tra un paio di mesi ci lasceremo alle spalle avrebbe dovuto celebrare anche il primo centenario di René Char..
Qui da noi se ne sono accorti in pochi, in Francia si sono sforzati un po’ di più, ma neanche poi tanto a giudicare da quello che si è visto in giro.
Per quanto riguarda il nostro paese, bisogna invece dire che questo anniversario a qualcosa è servito: Einaudi ha finalmente ristampato Fogli d’Ipnos, mentre per Ritorno Sopramonte pare che Mondadori stia per fare altrettanto.
Fogli d’Ipnos è il più originale e prezioso diario poetico della Resistenza che sia mai stato scritto, Ritorno Sopramonte è una straordinaria raccolta di testi degli anni sessanta e settanta.

Ecco alcuni frammenti da Fogli d’Ipnos e poi Annullarsi del pioppo da Ritorno Sopramonte, con un commento di Jean Starobinski.

da Fogli d’Ipnos
42
Tra i due spari che decisero la sua sorte, ebbe il tempo di chiamare una mosca: “signora”.

62
La nostra eredità non è preceduta da alcun testamento.

63
Ci si batte bene solo per le cause modellate con le proprie mani e in cui identificandosi si brucia.

73
A dar retta al sottosuolo dell’erba dove una coppia di grilli cantava stanotte, la vita prenatale doveva essere ben dolce.

81
L’assenso illumina il volto. Il rifiuto gli dona bellezza.

86
I raccolti più puri sono seminati in un suolo che non esiste. Eliminano la gratitudine e sono in debito solo con la primavera.

120
Voi accostate alla lampada un fiammifero e quel che s’accende non rischiara. Lontano, molto lontano da voi, il cerchio illumina.

129
Siamo come quei rospi che nell’austera notte delle paludi si chiamano e non si vedono, piegando al loro grido d’amore tutta la fatalità dell’universo.

131
A tutti i pasti consumati assieme, invitiamo la libertà. Il posto rimane vuoto ma il piatto resta in tavola.

156
Accumula, poi distribuisci. Sii la parte più densa dello specchio dell’universo, la più utile e la meno appariscente.

161
Mantieni di fronte agli altri quel che hai promesso a te solo. Questo il tuo contratto.

165
Il frutto è cieco. Chi vede è l’albero.

169
La lucidità è la ferita più prossima al sole.

187
L’azione che ha un senso per i vivi ha valore solo per i morti e compimento solo nelle coscienze che ne sono eredi e l’interrogano.

197
Partecipa allo slancio. Non al festino, suo epilogo.

201
La strada del segreto danza nella calura.

203
Ho vissuto oggi l’attimo della potenza e invulnerabilità assoluta. Ero un alveare migrante verso le fonti dell’alto con tutto il suo miele e le sue api.

211
I giustizieri dileguano. Ecco i cupidi volgere le spalle alle brughiere ariose.

227
L’uomo è in grado di fare ciò che non è in grado di immaginare. Il suo capo solca la galassia dell’assurdo.

237
Nelle nostre tenebre non c’è un posto per la bellezza. Tutto il posto è per la bellezza.

da Ritorno Sopramonte

Così, in un testo recente, l’annullarsi del pioppo dirà l’annullarsi stesso del poeta: mirabile modo di ripetere che “ in poesia si abita solo nel luogo che si lascia, si crea solo l’opera da cui ci si stacca, si attinge alla durata solo con la distribuzione del tempo”. Rileggiamo Effacement du peuplier, questo testo così laconico e così spazioso, in cui oltre ai quattro elementi, compaiono la verità e l’inganno, la violenza e la tenerezza, la natura e l’uomo uniti:

Spoglia i boschi l’uragano.
Io sopisco la folgore dagli occhi teneri.
Lasciate il gran vento in cui tremo
unirsi alla terra in cui cresco.

Affila la mia guardia il suo respiro.
Il cavo dell’inganno com’è torbido
della sorgente dai fondi imbrattati.

Una chiave sarà mia dimora,
finta di un fuoco che il cuore accerta;
e l’aria che la tenne nella sua morsa.

L’uragano è libertà scatenata, col flusso inesauribile del vento e il fuoco della folgore. Ma l’albero che sopporta, nella sua crescita ostinata, sopisce la folgore: che è chiamata “la folgore dagli occhi teneri”, la dolcezza si mescola alla violenza. Se ascoltiamo l’ingiunzione dell’albero, la furia mobile dell’uragano s’unirà alla terra immobile. L’albero appartiene nel medesimo tempo all’aria e alla terra. Il conflitto degli elementi gli infligge la passione, ma esso è simultaneamente il conciliatore. Sta ritto, ancorato al suolo stabile, ma trema in balia dell’uragano. Il suo fremito è indizio della duplice appartenenza. Perché tremare è un movimento statico, in cui si esprime insieme l’ubbidienza alla terra e quella al vento. Così il pioppo è partecipe del flusso vagabondo e resta imprigionato nel suo luogo. Nella sua sommossa verticalità, con la cima drizzata al cuore del tumulo aereo, il pioppo rifiuta il destino neghittoso della sorgente: il segno della altitudine ridestata (la “guardia”) si oppone all’immagine di una torbida origine mescolata all’humus. (La figura dell’albero ritto nell’aria tumultuosa s’apparenta a altre figure della libertà in contatto con l’elemento antagonista: quella sopratutto del remo nell’oceano).
“Una chiave sarà mia dimora.” La parola dell’albero diviene qui la parola del poeta. Perché il poeta è l’uomo dell’apertura, colui che rifiuta di stabilirsi. “Una chiave sarà mia dimora”: questa parola può sembrare enigmatica; il laconismo di Char giunge fino all’emblema e al motto; la parola non consente di decifrare subito il suo intento singolare e la sua portata universale. Eppure, per illuminarsi, essa richiede soltanto la pazienza e il sostegno del nostro sguardo; e si scopre che definisce il luogo della poesia e che fa appello, ancora una volta all’unione dei contrari. Char ci dice con forza che la sola dimora del poeta è lo strumento del passaggio, ciò che fa sì che una soglia possa essere varcata. (“Sposala la tua casa e non sposarla” dice altrove.) Il poema è questa chiave, -una chiave che ci libera, noi lettori, - mentre il poeta resta consegnato alla sua veglia. Ora, la chiave è stata forgiata da “un fuoco che il cuore accerta”, e, d’altro canto, essa appartiene anche alla forza sovrana del vento (“che la tenne nella sua morsa”). Come dir meglio, che il poema , cosa finta, oggetto immaginario, ha come garanzia della sua verità il fuoco interno dell’uomo e il regno esterno del vento? Che così, sotto questo duplice auspicio, la parola poetica non può smarrirci, per quanto lontana essa ci conduca dai nostri alloggi consuetudinari? Il poema, esile e forte chiave, ci dona una più vasta dimora sotto il cielo comune; ci fa accedere a quel focolare istantaneo “dove la bellezza, dopo essersi a lungo fatta attendere, sorge dalle cose comuni, attraversa il nostro campo radioso, lega tutto ciò che può essere legato, accende tutto ciò che deve essere illuminato del nostro fascio di tenebre”. (Jean Starobinski)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Io Char lo conosco poco (sono tante che cose che non conosco), ma appena posso questo Einaudi me lo prendo.

Ritorno con più calma sulla lettura della seconda parte. Per ora mi permetto di fare solo un'analogia che al 129 ha colpito i punti nevralgici del mio amore letterario. Si tratta di alcuni versi di Yeats, li riporto tradotti.

Sono felice di rivivere tutto ancora/ E ancora, anche se fosse vita da gettare/ Tra quella progenie di rane del fossato di un cieco,/ Un uomo cieco che si scontra con uomini ciechi; O in quel fossato fecondo più di ogni altro, / La follia che un uomo compie/ O deve sopportare, se corteggia/ Una donna fiera non affine alla sua anima./

La letteratura non aggiunge mai niente di nuovo a se stessa. Ma si trasforma, si schiarisce, in diversi linguaggi.
La poesia di Yeats è Dialogo dell'anima e dell'io (ma Yeats tradotto non rende giustizia...).
Ciao a Mauro e a Loris.

Anonimo ha detto...

"Siamo come quei rospi che nell'austera notte delle paludi si chiamano e non si vedono, piegando al loro grido d'amore tutta la fatalità dell'universo".
Grazie Francesca per avermi ricordato questo frammento di Char, e sopratutto grazie per averlo fatto giocare con i versi di Yeats.
Non so se hai mai sentito "il grido d'amore dei rospi".
Io penso che il canto delle sirene fosse proprio questo, e che proprio questo intendesse dirci anche Mozart quando scrisse l'Ave Verum Corpus.
"La letteratura non aggiunge mai niente di nuovo a se stessa. Ma si trasforma, si schiarisce, in diversi linguaggi".
E' proprio vero, però ogni tanto ci permette anche di saltare come rane, oppure di immaginarcele molto prima della loro nascita in un "fossato fecondo più di ogni altro", se non addirittura tra le pagine scancellate di un vecchio taccuino da quattro soldi.
Io adesso, grazie a Francesca e a Yeats, so perfettamente dove andare a cercare questo posto e, volendo, potrei anche confondermi "tra quella progenie di rane", e magari dargli anche un nuovo nome e indirizzo.
Un tempo (trenta e più anni fa, se non ricordo male) si chiamava Woodstock (o era l'Isola di Wight?) e io e il titolare di questo blog ci andavamo con il sacco a pelo e il block-notes per ascoltare il suono del silenzio.
Ma forse è meglio fermarsi qui.
Le madeleine, come tutti sanno, possono essere anche molto indigeste.