Ho un ricordo molto vivido dei nonni materni. I miei genitori mi mandavano da loro in estate, nella campagna di Voltana di Lugo, perché mio padre era quasi sempre all’estero e mia madre era rinchiusa nel laboratorio di parrucchiera, l’unico nel nostro paese all’inizio degli anni ’60.
Era una vecchia, grande casa colonica coi muri di mattoni rossi, con un’aia che utilizzavano per “battere il grano”, cioè separarlo dalla paglia, dove giravano trattori, carretti, uomini con badili e zappe. I nonni coltivavano ancora il piccolo podere, il nonno lavorava anche come bracciante a giornata nei campi vicini e la nonna curava un enorme orto e un pollaio che producevano ortaggi, frutta e uova, acquistate da certe donne robuste che arrivavano in bicicletta con grandi sporte di paglia.
Come molte case contadine di quell’epoca non aveva l’acqua corrente, né il gas né il riscaldamento. E neanche il bagno, ma un gabinetto costruito nell’orto, una baracca con un sedile sospeso sopra una vasca di pietra che quando era piena veniva svuotata dal “mardaròl”, un uomo vecchio che usava un gigantesco mestolo, e la roba diventava concime per i campi. Io ero terrorizzato da quel gabinetto perché era sempre pieno di ragni. Il nonno lo puliva con una scopa, ma il giorno dopo era di nuovo infestato.
Ogni mattina io e la nonna uscivamo per fare rifornimento di acqua. Usavamo un carrettino carico di secchi e damigiane di vetro, che riempivamo alla fonte in fondo al vialetto, al di là della strada provinciale. Era una antica fontana di metallo massiccio, con una specie di scultura a forma di pigna sulla sommità, azionata da una pompa manuale. Il suo funzionamento era compito mio. Mi buttavo sulla manovella ricurva con tutto il peso del corpo, perché era durissima, inchiodata, cigolante. La nonna ogni tanto diceva “faccio io, dai”, ma io rifiutavo, perché era troppo divertente vincere la resistenza di quell’attrezzo infernale.
Quanto stavamo per arrivare alla fontana la nonna si fermava sempre nello spiazzo, di fronte al lampione. Guardava in alto, dove il palo di ferro arrugginito faceva la curva, si segnava, poi chinava il capo e per circa mezzo minuto bisbigliava con le mani giunte. Io sapevo che pregava, perché era molto devota. Nei campi si raccoglieva sempre in preghiera davanti alla stele di pietra con l’immagine della madonna. Ma perché davanti a un lampione? Non c’era nessun santino, nessuna immagina sacra. Così un giorno glielo chiesi. La nonna era di poche parole, non amava parlare ma agire. Lavorava sempre, puliva la casa, cucinava, uccideva tirando violentemente il collo ai polli, li spennava, li arrostiva allo spiedo nel camino, aiutava il nonno quando c’era da raccogliere la frutta. Talvolta alle mie domande insistenti rispondeva “te lo dico dopo!” ma sapevo che si sarebbe dimenticata, e io non insistevo. Quel giorno però sembrò riflettere, e mi rispose prendendomi le mani tra le sue, che a me sembravano due attrezzi agricoli, tanto erano ruvide e callose.
“Vedi quel punto dove il palo si attacca alla lampadina?” disse, indicando la sommità del lampione. Dopo la curva il palo procedeva per circa un metro e terminava nel blocco della lampada, con un piatto storto che un tempo doveva essere stato bianco e ora sembrava tutto crivellato di cacca di mosche. “Lì era appeso un ragazzo. Lo conoscevo, non aveva ancora diciotto anni. L’avevano impiccato i tedeschi col filo spinato, e gli avevano attaccato al collo un cartello con la scritta ‘partigiano’. Lo lasciarono a penzolare per tre giorni, mentre un fascista armato faceva la guardia perché nessuno lo tirasse giù.”
La nonna restò per un attimo immobile, con lo sguardo fisso sul palo. Io la immaginai quando, durante la guerra, andava a prendere l'acqua sotto al corpo del ragazzo impiccato. Certamente pensava a suo figlio, mio zio, che aveva combattuto nei partigiani e forse era vivo per miracolo. Una volta mi aveva raccontato che con la sua squadra era rimasto intrappolato in una pineta di Ravenna, circondati dai tedeschi, con le armi nuove di zecca appena paracadutate dagli inglesi inceppate perché il grasso si congelava per il gran freddo. Forse anche il nonno era vivo per miracolo. Si era salvato dalla deportazione in Germania, dove avrebbe lavorato come schiavo fino alla morte per fame e per malattia, come molti altri uomini del paese, perché si finse gravemente malato.
“I tedeschi erano molto cattivi” disse la nonna. “Erano degli assassini e i fascisti erano i loro servi.”
Ora i nonni sono morti, dopo avere entrambi superato gli ottant'anni. Quando posso li vado a trovare, nel piccolo cimitero del paese. Ho un dialogo particolare col nonno, ricordo i suoi racconti sulla prima guerra mondiale, i lavori nei campi, le notti che passava alle feste da ballo e il sonno che aveva al mattino quando doveva arare coi buoi; e con la nonna, che pure parlava poco, ma che seguivo nell'orto e nel campo.
Cari nonni, quando vengo a trovarvi vi racconto come vanno le cose, la famiglia, il lavoro, cercando di offrirvi una versione il più possibile positiva e ottimista, perché non vedo l'utilità di crearvi nuove preoccupazioni, dopo una vita passata a combattere i problemi e le avversità. Vi racconto i progressi di mia figlia, i miei e di mia moglie.
Ma c'è una cosa che non vi dico e non vi dirò mai, soprattutto a te, nonna . Ogni volta guardo il tuo ritratto ovale e ci penso, ma tengo il pensiero ben chiuso in una stanza sigillata. Cara nonna, non ti dico che sono tornati. Loro, i fascisti, quelli che hai conosciuto, quelli che servivano i tedeschi assassini, sono di nuovo tra noi. Ci sono sempre stati, ma ora girano a viso scoperto, ridono e parlano in pubblico e sono addirittura al governo. Uno è un importante ministro, un altro è sindaco di una grande città e molti altri, meno visibili, occupano posti di potere. Si espandono, piano piano ma con regolarità. Ora non fingono neanche più di non essere fascisti. Ho visto il ministro in televisione che rideva felice mentre un esponente dell'opposizione gli gridava a gran voce che era un fascista. L'altro lo considerava un insulto, per lui era un complimento. La gente li vota, forse per un inganno, forse per interesse, per mancanza di memoria, per menefreghismo, o per tutte queste cose insieme.
Sono di nuovo tra noi, a testa alta, servi dei potenti, come allora, e i loro complici stanno addirittura tentando di eliminare la disposizione della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista. Così potranno di nuovo gridare al mondo che sono fascisti, fascisti, come se nulla fosse accaduto, come se non avessero scatenato una guerra orribile e assurda per poi fuggire come vigliacchi lasciando l'Italia al suo destino quando tutto era perduto.
Non te l'ho mai detto, nonna, e non te lo dirò. Non ti dirò che i fascisti col loro operato, con la loro stessa esistenza, insultano ogni giorno il sacrificio di quel ragazzo impiccato col filo spinato, che forse era un amico dello zio. Non te lo dirò perché sarebbe come ammettere che lo zio ha combattuto inutilmente, visto che il male non è stato estirpato, ma torna a minacciare tutti noi.
Dove stai tu forse non arrivano le notizie di questo mondo devastato e vile. Dove stai tu si riposa. E io voglio che riposi in pace, almeno tu.
[Nella foto: la località Marmana di Voltana di Lugo; in fondo al vialetta c'era la casa colonica citata nel racconto. Oggi è stata demolita e ricostruita.]
1 commento:
L’ho letto un paio di volte e mi sono commosso. Sia per la storia e per come è narrata ma, forse, anche per una Romagna remota che sta scomparendo. Quanto vorrei rivedere la stessa grinta...
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