Una ventina di giorni fa sono andato a Milano in treno. Da anni, credo una decina, non superavo i 50 km con questo mezzo di trasporto. Sono rimasto stupito nel constatare che non è cambiato quasi nulla, a parte i nomi: adesso i treni si chiamano Eurostar, sono molto costosi, vengono dal Sud e non sono quasi mai in orario. Io, come facevo sempre, ho preso il mio bel interregionale, che impiega 30 minuti più dell’Eurostar e costa un terzo. Poi però si è fermato in mezzo alla campagna modenese ed è stato fermo una intera ora. Tutto normale quindi, tutto perfettamente italiano.
A Milano dovevo andare in piazza Aspromonte e poi in Via Solferino. Qui, prima di entrare al Magazine, ho pensato: non ci starebbe male un caffè. Già, il problema è trovarlo, un caffè. Infatti non ci sono bar per interi isolati. E siamo in pieno centro. Io, abituato ai bar bolognesi, uno ogni dieci metri, non ci potevo credere. Ho rinunciato al caffè, sono andato al mio appuntamento e all’uscita ho incontrato il mio vecchio amico fotografo Michele. Saluti, abbracci, e la proposta di una birretta. Già, ma dove? "Sono spariti i bar!" ho esclamato. Michele ha riso, poi ha allargato le braccia. E’ così. Hanno chiuso tutti i bar, e anche i negozi. Un negozio apre, rimane in vita cinque, sei mesi, e poi chiude. Sono gli affitti troppo alti, ha detto, nessuno ce la fa. Alla fine siamo riusciti a trovare un piccolo bar, l’ultimo ancora aperto in quel deserto. "Sì, è così" ha detto il barista, "sono un sopravvissuto". L’arredo era singolare: mobili anni ’70, materiali economici, manutenzione scadente. Io, abituato ai sontuosi bar bolognesi, tutti ultimissimo modello, ero sbalordito.
Dopo pochi minuti ho ritrovato i vecchi, cari elementi di pazzia milanese che talvolta mi fanno rimpiangere questa città: eravamo seduti a un tavolino, io e Michele, quando è entrato un tipo elegante con un cagnolino a guinzaglio. Ha ordinato un bianchetto e ha iniziato una fitta conversazione col barista. Il cagnolino, intanto, continuava a saltarmi sulle ginocchia. Era simpatico, però fuori pioveva, e coi piedini mi sporcava i pantaloni. Così, mentre Michele si sconquassava dalle risate, ho chiesto al padrone se poteva tenere l’estroverso animaletto. L’uomo ha riso, l’ha accarezzato sulla testa a si è lanciato in un complicato racconto sul suo fratellino peloso. Ha detto che gli salta sul letto, sulla tavola, è incontenibile. "Come si fa a dirgli di no?" ha detto, mentre quello mi saltava indisturbato sulle ginocchia. "Io gli dico di no!" ho detto, cercando, invano, di allontanarlo. Niente da fare. Il tipo non batteva ciglio, raccontava tutta la biografia dell’espansivo cagnetto, ed io contemplavo i miei poveri pantaloni, ormai andati; per fortuna il barista gli ha detto qualcosa, il tipo si è esaltato e si è avvicinato al banco, trascinandosi dietro l’amico. Michele intanto aveva le mascelle slogate a forza di ridere.
Ma non è di questo che volevo parlare. Sono partito con l’obiettivo di rimanere a bordo del treno, poi la furia narrativa mi ha preso la mano. Facciamo quindi un passo indietro. Anzi, due: alla data di oggi togliamo una ventina d’anni. Sul manifesto uscì un articolo di Valentino Parlato in cui quel grande, raffinato signore si indignava perché un suo compagno di viaggio aveva tirato fuori un telefono portatile e si era lanciato in una lunga conversazione ad alta voce. Ma come, scriveva Valentino, il viaggio in treno è una preziosa occasione per rilassarsi, per stare da soli con se stessi, per leggere, perché dobbiamo essere vittime di questa maleducazione aggressiva, perché dobbiamo per forza partecipare alla conversazione privata di un estraneo? A quell’epoca facevano capolino i primi telefoni portatili e mi colpì quell’articolo.
Chissà se Valentino Parlato ha continuato a viaggiare in treno, immagino di sì; avrà dunque constatato che i telefonini hanno rotto tutti gli argini, sono dilagati tra noi e in treno, in autobus, è tutto un trillare e un rispondere "sono in treno, in autobus, arrivo tra mezz’ora". Un giorno ero in autobus e leggevo tranquillo un romanzetto giallo. Una ragazza continuava a parlare al telefonino a non più di venti centimetri dal mio orecchio. Saranno passati venti minuti (ma quanto spendono? È incredibile), alla fine, stremato, le ho detto "senta, signorina, o si allontana dal mio orecchio o le cedo il posto". Lei mi ha guardato con occhi barrati, è ammutolita, si è girata di spalle e ha ripreso, balbettando, la conversazione. Quando sono sceso stava ancora parlando.
In treno, durante il mio viaggio a Milano, saranno squillati cinquanta telefonini. La ragazza che sedeva accanto a me, una milanese simpatica, con la quale ho intavolato una interessante conversazione sulla sua città, aveva un cellulare che non solo suonava, gridava. Dopo un trillo mozzafiato veniva fuori una voce cavernosa che diceva: "attenzione!" e una parola incomprensibile che sembrava "pollo", o "collo". Ogni volta trasalivo.
Il bello è che ha squillato anche il mio, due volte, E anch’io ho parlato dei fatti miei, come tutti. E’ questo il segno dei tempi. Il mondo si imbarbarisce, e noi siamo cittadini di questo mondo. Siamo tutti coinvolti in questo processo. Poi c’è chi ne è cosciente, chi no e ad alcuni non importa un accidente. E si va avanti.