La Nico
L’odore del sangue (BUR, 2004) è un libro malato. Malato o meglio mutilato nella forma (fu pubblicato postumo e, probabilmente, incompleto), malato nei contenuti ma innanzitutto nella genesi: Parise lo scrisse alla fine degli anni Settanta durante la convalescenza che seguì a un gravissimo infarto, poi lo chiuse a chiave in un cassetto e lo riprese in mano solo nell’86, giusto pochi mesi prima di morire. E forse non avrebbe mai deciso di pubblicarlo, non in questa forma così oscenamente sincera e scabrosa, almeno. È appena scampato alla morte e ha capito che non le scamperà ancora a lungo. Butta giù il manoscritto di getto, ma ci mette dentro non tanto la paura di morire, quanto l’incurabile rassegnata nostalgia della vita. E dà a questo forsennato rimpianto, senza speranza né vie d’uscita, la forma torbida di un tradimento che è insieme preambolo e postumo della Fine.
La storia in apparenza è il ritratto di un interno borghese post-sessantottino. Filippo e Silvia sono sposati da vent’anni, sono della Roma bene, si amano di un amore platonico che esclude o quasi il sesso a favore di una totale simbiosi spirituale, e professano, naturalmente, la non esclusività dell’amore. Lui, la voce narrante, il malcelato Parise che ha appena imparato a conoscere la morte o meglio la fine della vita, ha allacciato da tempo una relazione con una ragazza che potrebbe essere sua figlia. La moglie, cinquantenne bella e desiderabile, conosce per caso un giovane "fascista", "ignorantissimo", "prepotentissimo", da cui è immediatamente e perdutamente soggiogata. Filippo, psichiatra, vede il gorgo masochista in cui lucidamente lei sta affondando, e lo invade l’ossessione di conoscere ogni dettaglio dei loro incontri. Non è voyeurismo, o è un voyeurismo troppo sofferto per potere essere definito tale: è piuttosto l’erronea quanto disperata intenzione di vedere ancora la vita, incarnata nel furioso vigore del ragazzo. Perché, capiamo infine, il vero protagonista della storia è il cazzo (non è il caso di darsi a ipocrisie verbali: si perderebbe l’intero senso della narrazione) del giovane che domina la moglie, puro simbolo di una gioventù possente perduta e rimpianta, l’unica cui il sesso e quindi la vita si addicano.
È un libro travolgente, ossessionato, disperato. Dalle pagine puzza e profuma fino alla repulsione l’odore del sangue (o dello sperma, che per Parise sono infine la stessa cosa), l’odore "molto simile a quello dei macelli all’alba, ma molto più dolce e lievemente nauseabondo". L’odore del sangue è il simbolo zampillante della vita perduta e dell’ossessione devastante di riaverla. La lunga metafora di ciò che Parise ha perso per sempre: la salute animalesca, primordiale che è dei giovani. Del sangue il protagonista può oramai percepire solo l’odore perché scorre nelle vene di altri, di corpi giovani e semplici che tenta rabbioso di possedere. Ne sarà invece posseduto, e assisterà impotente e consapevole al disfacimento della carne contro l’odore del sangue vivo, corroborante, fino alla nausea.
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