Grandi personaggi per un grande libro
In un post che ho passato sul Blog qualche tempo fa ho citato un mitico testo degli anni Settanta, la biografia di Bob Dylan di Anthony Scaduto. Mentre ne scrivevo sono stato assalito da una valanga di ricordi. Non sul testo in sé, che ricordavo per sommi capi, ma ricordi di lettura. E’ stato, posso dirlo, uno dei libri più importanti della mia vita. E non solo della mia. Quel libro entrò nell’esistenza di noi ragazzi che vivevamo in un piccolo paese della pianura romagnola, e sconvolse il nostro fragile equilibrio. O meglio, accentuò lo squilibrio che già complicava le nostre vite irrequiete schiacciate in un territorio piatto e desolato, un mondo immobile e vuoto che ci opprimeva coi suoi ritmi sempre uguali. Così ho ripreso in mano quel volume un po’ ingiallito, pubblicato nel 1972 da Arcana per £ 2.200, e ripubblicato, tra l’altro, nel 2003 dallo stesso editore. E di nuovo, rileggendo qua e là, sono stato travolto da emozioni che credevo sepolte per sempre. Ho rivisto un cortiletto di cemento, una casa bassa, ho udito dei suoni, forse ho sentito degli odori. Ed emozioni tristi, come una malinconia mai risolta che tornava a serpeggiarmi sotto la pelle.
Eravamo in tre ad essere particolarmente coinvolti dalle nuove tendenze, dalle nuove speranze di libertà che, sotto la spinta del decennio precedente, non si erano ancora riconvertite in quella delusione rabbiosa che avrebbe condotto tanti noi verso strade di contestazione violenta, o di strisciante autodistruzione. Adoravamo Bob Dylan, e in questo libro leggevamo del suo paese natale, una cittadina del Minnesota dove tutto era già stabilito, dove i figli si apprestavano a continuare i mestieri dei padri, e “gli altri”, i giovani coi capelli lunghi, i giovani che volevano vivere, erano “i matti”, quelli delle città, i “finocchi”. Era il nostro paese, il nostro cimitero, e quel ragazzo che voleva cantare come Little Richard, che non stava mai fermo, che se ne fregava dell’opinione pubblica, era uno di noi. E quel suo muoversi frenetico, quell’inseguire a testa bassa un obiettivo a tutti i costi, la sua musica, era la rappresentazione del nostro desiderio, del nostro sogno di una vita diversa, fuori dal cimitero. Lui era noi, e faceva quello che noi avremmo voluto fare; che tentavamo di fare, coi nostri poveri mezzi.
Il vekkio Loris era affascinato soprattutto dal talento mimetico di Dylan, da quel suo nascondersi, dal mutare continuamente identità in un gioco di trasformismo che rivelava la volontà di rendersi invisibile in un mondo che ti teneva sempre gli occhi puntati addosso. Ne parlava di continuo, si identificava con quella giovane, guizzante anguilla che cambiava di continuo amici, senza esserlo davvero di nessuno, né dei ragazzi “perbene” né dei “greasers” motociclisti di cui sembrava fare parte. In realtà Dylan era tutti e nessuno, perché lui era la sua musica, la sua voglia di scrivere, di farsi strada, senza curarsi minimamente dei gusti del pubblico che lo fischiava quando si contorceva come un ossesso al pianoforte.
A Riccardo, e a me, piaceva il ritmo, quel suo essere una sorta di Dean Moriatry-grande artista, uno che si buttava nella vita come un guerriero, incurante dei rischi e dei nemici. Uno che abbatteva le barriere, che guardava in faccia l’infinito. Riccardo abitava in una casetta sulla statale n. 16, la route Adriatica, una vera strada americana, una freeway che correva lungo la costa e puntava verso terre lontane. Andavo a casa sua e lo trovavo spesso seduto per terra nel cortiletto di cemento che circondava la sua casetta, un angolo tranquillo e inondato dal sole del pomeriggio. Non era molto alto Riccardo; era uno forte, parlava a voce bassa, aveva modi tranquilli, sembrava un tipo posato. Oggi direi che assomigliava a Baricco, stesso personaggio piacente, accattivante, uno che ti stimola le confidenze, uno che lo cercheresti spesso perché con lui sei a tuo agio sempre, perché non è aggressivo, non ti fa sentire sotto esame, non ti giudica. Commentavamo l’ultimo capitolo del libro, e io dicevo: “la sua vita e la sua forza fanno sembrare così vuota, così inutile la nostra vita”. Lui rideva sotto i baffi, annuiva. Poi usciva sua madre, una donna svelta, sempre attiva, gli diceva delle cose e lui si innervosiva. Una volta gli mostrò una camicia appena comprata e lui digrignò i denti, urlò a freddo, con voce strozzata: “non la voglio!” La madre ci rimase malissimo, soppesò la camicia con mani incerte, rientrò in casa sconsolata. E quando io gli chiesi perché aveva reagito in quel modo, lui strinse i pugni, incassò la testa nelle spalle e di nuovo gridò a freddo, a denti stretti: “non le voglio le sue camicie!”
Passò il tempo, passarono gli anni, e Riccardo partì. Era approdato in America, dicevano. Ogni tanto gli pensavo, laggiù nelle metropoli dylaniane, mentre io, mentre noi al paese cercavamo di sbarcare il lunario fondando una fanzine, poi una radio. Lo rividi alla fine degli anni Settanta, in uno zuccherificio dove lavoravamo l’estate. Era in gran forma, calmo, tranquillo, magnetico. Gli chiesi di raccontarmi un po’ della sua vita, dove abitava? A New York, disse. New York, il Greenwich Village, dove Bob Dylan scopriva il mondo, e lo conquistava! Viveva, disse, in casa della fidanzata, l’ultima di una lunga serie. Era proprio vero, già prima di partire cambiava continuamente ragazza. Allora gli chiesi come mai passava così facilmente da una ragazza all’altra, in Italia come in America. “Non lo so mica” disse, “loro mi invitano fuori, usciamo, poi andiamo a casa e non faccio in tempo a chiudere la porta che già mi slacciano i pantaloni”. Non lo disse per vantarsi, ma con aria pensierosa, come se questo fenomeno lo stupisse, o addirittura lo inquietasse. Io lo guardavo, lo ascoltavo, e vedevo in lui una somiglianza con Bob Dylan, forse non sul piano fisico, perché era più robusto, più rotondetto (come Baricco), ma per quella sorta di disinteresse verso il mondo e le sue convenzioni, quel suo vivere la vita come una ininterrotta avventura di cui, in fondo, non si curava.
Passò altro tempo, altri anni, io lasciai il paese mentre il vekkio Loris vi si stabiliva solidamente, forse perché era già un giovane, ma esperto rishi, un saggio che sapeva che non ha senso cercare, perché non c’è nulla da trovare nel samsara, il mondo dell’apparenza e del divenire, che non sia in noi stessi. Nei primi anni Novanta, quando vivevo part time a Bologna, mi arrivò, inaspettata, una notizia. Nel centro di psicologia olistica dove lavorava, e lavora tutt’ora, mia moglie, era arrivato “uno delle mie parti” per seguire un corso di massaggio rilassante. Oh, dissi, e come si chiamava? “Riccardo” disse mia moglie. Ci rimasi. Riccardo come? Mi disse il cognome, ed ebbi un tuffo al cuore. Era lui! Dissi che volevo vederlo, perché era un mio vecchio, caro amico. Lei disse che quella sera avrebbe finito alle otto, ma che “non era tanto a posto”. In che senso? chiesi, allarmato. “E’ stato piantato dalla ragazza, ed è entrato in una sorta di crisi depressiva. Lo vedrai”.
Alla sera andai al centro, e lo aspettai. Eccolo, usciva un po’ spaesato dal portone su Via Farini, si guardava intorno con aria incerta. Lo salutai. Mi guardò, e capii perché “non era tanto a posto”: il suo aspetto era trascurato, gli abiti sgualciti, e anche sporchi. I capelli erano scarmigliati, e poi era alquanto ingrassato. I suoi modi calmi erano ora dimessi, e quella tensione smasmodica che faceva capolino quando la madre gli comprava le camicie traspariva dalle mani scosse da un lieve ma persistente tremore, e da un tono di voce teso, forse ansioso. Non gli chiesi subito cosa gli era capitato, e cosa provava, perché sapevo che, in quello stato, non mi avrebbe risposto. Era accaduto varie volte con altri amici che avevano “strippato” malamente: non erano in grado di raccontare le loro disavventure, fuggivano, o si chiudevano in un silenzio ostile. Gli restai vicino, mangiammo qualcosa insieme, poi riuscii a fargli dire che aveva lasciato l’America ed era andato a vivere con questa ragazza di Ravenna, conosciuta a New York, che l’aveva abbandonato. Le pensava sempre, disse, in ogni momento della giornata e anche della notte, perché non dormiva mai, neanche un minuto. Poi si perse nel vuoto, non parlò più, non rispose alle domande, si chiuse in quel silenzio cupo che conoscevo bene. Lo accompagnai a una vecchia macchina parcheggiata in Via S. Mamolo e lo vidi partire bruscamente nella notte. Dove andava? A Ravenna? Al paese, nella casetta col cortiletto dove parlavamo di Bob Dylan? Non l’ho mai saputo. Non l’ho più rivisto. Mia moglie disse che il corso di massaggio rilassante era finito e lui non aveva rinnovato l’iscrizione.
Dunque l’avventura dylaniana era finita per sempre? Tutto era perduto? Pensai al senso di sconfitta che aleggiava su di noi fin dalla nascita, e ci ha accompagnato per tutta la vita. Noi eravamo una generazione nata all’insegna di una promessa non mantenuta, cresciuta in un tempo ambiguo, indefinito, e siamo vissuti con quel senso di perdita, come sospesi sull’orlo di un precipizio, sognando di agguantare la vita, e di viverla come la viveva Bob Dylan.
Così, come Jack Duluoz pensava di continuo a Cody Pomeray, e lo vedeva come un fantasma-bodysattva energico nella sua vita che rotolava giù per le Strade della Desolazione, io, quando vedo il libro di Anthony Scaduto, e lo vedo ogni sera perché è sul comodino, penso al mio antico amico Riccardo.
1 commento:
E' cosi'...quando si rileggono libri importanti, importanti per noi, per nostra crescita, per il significato che hanno avuto...nella nostra vita, si ricordano le atmosfere, i colori, i profumi e i sapori di quegli anni oltre che di quelle pagine. E si scivola nell'atmosfera del nostro passato e lo rivisita con occhi diversi, con quella tenerezza che leggo fra le tue righe, nei passi in cui ricordi il cortiletto di cemento, il sole, quel paese della pianura romagnola..piatto e desolato. I tuoi amici e la camicia fra le mani della mmma che ancora una volta come tutte la mamme non capisce il perche'di quel rifiuto adolescente.
Io non ho conosciuto quell'immobilita' perche' mi accontentavo; leggevo, ballavo, mi innamoravo, studiavo studiavo tanto e stavo con le mie amiche; adoravo mia madre e le vacanze al mare, sempre quello, gli amici e quegli amori estivi folli e irrequieti.
Forse sara' stato perche' invece di Dylan ascoltavo i Beatles?
Poi la vita e le domande sono arrivate anche per me, nella musica frenetica dei gruppetti di allora, nella minigonna anche a scuola, nelle sigarette dentro l'astuccio, ma sempre lenta, lentissima e sempre poi tornavo al mare e alla spiaggia di sempre, al sorriso di mia madre e ai divieti di mio padre. Che mi rassicuravano.
Il tuo racconto e' stupendo, emozionante e vivo.E' la vita che molti di noi non hanno sentito, forse perche' qui, in un paese ne' grande ne' piccolo, ne' bello ne' brutto, ne' stagnante ma neppure vivace... qui tutto era tutto e il contrario di tutto, o forse perche' noi ragazzi figli di una piccolissima borghesia gentile e colta ci crogiolavamo nelle nostre certezze lontane dal fragile equilibrio di altri.
La storia di Riccardo e' la storia di molti ragazzi di quel tempo; la strisciante sorte di autodistruzione...pure.
Ragazzi che non hanno fatto in tempo ad innamorarsi davvero da ragazzini perche' passavano da una ragazza all'altra senza ...sentirla propria e sentirsi suo... e a lasciarsi per innamorarsi di nuovo e maturare cosi' in quelle ubriacature d'amore, il vero amore ed essere pronti, da grandi, a riconoscerlo e a curarlo, a salvarlo dai pericoli. O ad aspettarlo con pazienza.
Perche' l'rrequietezza da giovane...e' naturale, salutare fa bene e' vitale e credo che sia la cosa che poi si trasforma in maturita' pazienza serenita',lentezza...da grandi.
capisco cosa vuoi dire quando dici " una generazione sull'orlo di un precipizio..nata all'insegna di una promessa non mantenuta..." eppure so che come dire che cio' che la vita ci promette noi dobbiamo inseguirlo con tenacia fermezza spirito di no, non di sacrificio, ma desiderio. E serenita' e convinzione.E allora credo che il senso di vuoto possa allentarsi non solo nel ricordo del viso del nostro amico di allora, ma nel sorriso di un figlio che ci vive accanto e che inevitabilmente e' il nostro passato, le promesse della vita il nostro presente e il nostro futuro e dipende anche da noi fare si' che nostro figlio non viva o no, ma che non soffra per le inevitabile sbavature e contorsioni della vita.
Grazie per le parole, i profumi e il sole di quel paese.
pap
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