Ho provato sensazioni molto contrastanti leggendo Non fare la cosa giusta di Alessandro Berselli (Perdisapop 2010). Mi è restato dentro un senso di ambiguità, e una serie di dubbi che non riesco a sciogliere. E’ il testo di un padre che si rivolge alla figlia di 17 anni. Per la verità non ha proprio l’impostazione di lettera, però il narratore le parla in questo modo: “Siamo distanti, Erica. Ci illudiamo di capirvi. Ma non è mica così”. E’ un rapporto dolce, sofferto, un rapporto problematico, come spesso accade tra un padre e una figlia adolescente. Il suo mondo – il mondo del padre – è quello di un informatore medico scientifico, sposato con un’avvocatessa. Sono intriganti i riferimenti al lavoro, ai rapporti sociali, come sempre lo sono questi argomenti che ci toccano da vicino. E’ descritta e vissuta bene Bologna, chi ci vive ne riconosce gli angoli, i locali, spesso appena accennati ma ottimamente miniati. La scrittura è di ottima qualità, essenziale, curata, coraggiosa.
Ma:
è un testo così solcato da sferzate violente di razzismo, intolleranza, ignoranza, che il lettore resta basito. Ho riflettuto molto su questo aspetto, e ho concluso che probabilmente è il frutto di un fallimento letterario. Cerco di spiegarmi, cosa non facile, perché non mi interessa stroncare, ma solo capire.
Ho dedotto (anche leggendo alcune recensioni e interviste in rete) che forse l’autore ha voluto rappresentare un eroe negativo della middle class, con le sue abitudini, i suoi desideri, le sue rabbie. Claudio è indignato dall’invasione dei maledetti extracomunitari (i negri, gli zingari, i punkabestia), e per una sorta di processo di liberazione ultranichilista, passa all’agito, cioè mette in pratica i pensieri violenti. Brucia vivo un barbone, avvelena un cane che lo disturba, e non si ferma qui. Uccide.
E qui non ci sarebbe nulla di particolarmente strano. Molti autori hanno messo in scena personaggi negativi, che provengono dalle classi medie. Simenon, per esempio, con L’uomo che guardava passare i treni, oppure molti autori del noir, che descrivono e fanno muovere e parlare e pensare i peggiori assassini. Ma non è questo il nostro caso. Claudio è una persona capace di emozioni coinvolgenti, di tenerezza, è per così dire un eroe positivo, che ci attira in un rapporto di empatia. Però è incredibilmente razzista, e alterna questo suo odio alla tenerezza verso la figlia, alla malinconia per il suo matrimonio che sembra finito. Ho trovato questo mix inaccettabile, e se esiste un’etica in letteratura – e io credo che esista – Non fare la cosa giusta è eticamente sbagliato. Non si tratta della parte “nera” del medio borghese, non è il sottofondo violento e razzista delle brave persone ciò che emerge da questa pagine: è una violenza calata dall’alto, dal narratore letterario, perché non vi è fusione fra le due componenti di Claudio, fra le due personalità. Sono nettamente distinte. Per questo ho parlato di fallimento. E’ lo scrittore che ci fa subire una violenza, non la rappresentazione di un personaggio violento. Non è trasfigurazione, perché violenza e razzismo vengono inseriti nel testo con la forza, senza tracciare linee di collegamento, senza implicazioni con la personalità del narratore.
Inoltre è inaccettabile, oltre che proibito, inneggiare a Hitler, il “nostro Fuhrer”. Nessuno può fare una cosa simile, a meno che a parlare non sia un nazi, come nelle Benevole di Littel per esempio.
Ho chiuso il libro con un senso di fastidio, di delusione e anche di rabbia. Oggi si può scrivere di tutto, si può scaricare sulla pagina violenza, odio.
Sembra che non esista più un progetto.
E neanche un’idea di letteratura.
So anche che la mia voce è isolata, perché questo libro è stato accolto bene, dai miei amici scrittori. Per cui è possibile che mi sbagli, che qualcosa abbia toccato le mie corde più intime (per esempio la morte della figlia).
Tutto è possibile, eppure non riesco a cambiare opinione.
Nessun commento:
Posta un commento