Pagine di diario. Diario di viaggio.
Quando salgo in autobus, o in treno, sulla linea dei
pendolari che utilizzo per recarmi al lavoro, prendo dalla borsa il lettore di
e-book e mi immergo, per i preziosi 20 minuti del treno, o i 35-40 dell’autobus,
nel testo che ho in lettura (in questo preciso momento Il cimitero di Praga di Umberto Eco, che vorrei recensire prima o
poi, abbinato a un altro romanzo che dirò in seguito).
Non so, a Bologna la gente legge poco sui mezzi. Sono
osservazioni personali ovviamente, non supportate da ricerche o statistiche, ma
quando abitavo a Milano notavo molte più persone che in metropolitana aprivano
un libro, o quanto meno una rivista. E lo stesso a Roma. Per non parlare di
Londra, o Parigi.
C’è da dire che i cellulari smartphone e i tablet non
erano così diffusi. Questi sistemi hanno cambiato un bel po’ di cose e di abitudini.
Tuttavia Bologna resta, nella mia esperienza, una città dove il pendolarismo
non legge granché.
Invece ci danno dentro coi telefonini e i tablet. Alla grande.
Sono sempre col capo chino sullo schermo a digitare
freneticamente. Oppure sfiorano gli schermi dei tablet, per girare le pagine del web.
E io, che ho un cellulare cosiddetto modello base, mi chiedo: ma possibile che siano tutti dei manager? Che
tutti abbiano una vita sociale così intensa? Che non possano stare neanche un’ora
senza collegarsi, o mandare messaggi? Così mi sento, come dire, un po’ sfigato,
io che mi accontento del collegamento che ho in ufficio e a casa. Non ho tante
risorse, amicizie, “tiraggi”, affari, niente. Faccio una vita banale perdio. Una
vita semplice. Una vita piatta.
L’altro giorno, per esempio, è salita sull’autobus una
signora nerovestita, molto distinta, età circa 50. Aveva un’espressione molto
concentrata, di chi ha certe gatte da pelare, certe faccende aperte, faccende
complesse. Si è sistemata sul sedile e ha subito aperto un tablet ultimo modello. L’ha acceso, è partita. Mi incuriosiva la
sua espressione, la sua serietà. Beh, voglio essere sincero: l’ho invidiata.
Era una signora che sapeva cosa stava facendo, che non la smetteva di curare i
suoi interessi, i suoi affari, e usava uno strumento moderno per occuparsene.
Mi è venuto in mente un tipo con una borsa “Vespa” che
aspetta sempre il treno, e digita senza un solo secondo di pausa sul
telefonino, finché non sale sul treno, e va avanti anche dopo, quando si è
seduto. Che attività, quanti messaggi, quanti corrispondenti! Come si è
sviluppata l’esistenza, come si è complicata..Quella degli altri.
E io, che non ho nessuno? Al massimo mando due o tre
messaggi in un giorno, oppure neanche quelli!
Beh, a ognuno il suo destino, no?
Però poi ho buttato l’occhio sullo schermo del tablet della signora. Non l’ho fatto –
non credo di averlo fatto – per una curiosità morbosa. Forse non l’ho fatto
apposta. Mi sono mosso, mi sono alzato. E ho sbirciato.
Cosa ho visto?
Dei fagiolini. Delle faccette che pulsavano. Dei
topolini che si muovevano. Delle bocche che i aprivano e si chiudevano.
Sono rimasto di sasso. Altro che affari elevati. Altro che
impegni di lavoro. La signora distinta e concentrata stava semplicemente
giocando.
E… ci credete? Il giorno dopo ho guardato apposta nel telefonino del tipo con la
borsa Vespa: e cosa ho visto? Dei fagiolini, delle faccette, delle bocche.
Mi è caduto il mondo addosso, come si suol dire.
Comprano questi sistemi sofisticati per giocare. Sono
giocattoli. E loro ci giocano.
Così ho fatto una considerazione questa volta. Una delle
mie. Una considerazione Baldrus. E l’ho pure illustrata a mia moglie psicologa,
che l’ha definita “interessante”: siamo un popolo di bambini. Un popolo che
cerca i giocattoli per l’eternità, anche quando ha cinquanta, sessant’anni. Sempre
bambini. Bambini eterni. Bambini vecchi.
E i bambini seguono i raccontatori di favole, i venditori di
promesse.
I populisti.
I bambini adorano i populisti.
Gli credono.
Li seguono in capo al mondo.
Li votano.
Ecco perché l’Italia è così.
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