Allarme! Emergenza!
Sono le parole, o meglio, i concetti preferiti dall’attuale televisione sovietica italiana. E’ sempre allarme, sempre emergenza: tutto viene drammatizzato, enfatizzato; vi è continuamente un pericolo che incombe, una minaccia per il moderato spettatore televisivo già angustiato dalla crisi economica, dalla mancanza di una prospettiva futura per i figli, condannati al precariato perenne. Poi arriva il Premier, che rassicura: va tutto bene, anzi, benissimo, l’economia tira, i conti pubblici sono in ordine, la maggioranza che lo sostiene è compatta, omogenea, non esistono contrasti. Il moderato telespettatore tira un sospiro di sollievo. Il governo lavora per noi, per la nostra tranquillità. Ed ecco che arriva di nuovo l’Allarme! Emergenza! E si ricomincia.
L’ultimo Allarme! Emergenza! della televisione sovietica italiana è quello delle scarpe cinesi. Concorrenza sleale, dicono, produzione in stato di dumping sociale e ambientale, bisogna fare qualcosa. Già, ma cosa? Per ora le misure protezionistiche sono vietatissime dall’Europa. Parla il patron Diego della Valle: bisogna “riqualificare”, è necessaria “una ricerca, per l’innovazione”. Quale innovazione? Il servizio ha appena svelato che le scarpe italiane sono all’avanguardia nel mondo, esportiamo ben l’ottanta per cento della produzione. Cosa c’è da innovare?
Allora ho fatto un giretto per negozi, tanto per rendermi conto dei prezzi dei nuovi arrivi. Scarpe da uomo, estive, vanno da 80 a 110 euro; dei sandalucci aperti da donna 100 euro (99, va be’). E quelle invernali vanno dai 100 ai 120. Prezzi medi intendiamoci, le “ciocce” superfirmate vanno ben oltre . Ecco quindi il problema, che la televisione sovietica italiana e Della Valle si guardano dal sottolineare: i prezzi. Gli industriali italiani, i “peggiori capitalisti d’Europa”, come li chiama qualcuno, piangono continuamente miseria, si lamentano, chiedono soldi, sempre più soldi, a scapito della cosa pubblica, che va rasa al suolo per pompare capitali a fondo perduto nelle loro casse senza fondo. Hanno profitti enormi, offensivi, mentre invocano abbassamenti del costo del lavoro (leggi: salari più bassi), e maggiore “flessibilità”, in un mercato del lavoro che è già uno dei più flessibili del mondo. Ma i prezzi non li abbassano, questo mai. E allora, che dire? Ma teniamoci le scarpe cinesi.
Sono le parole, o meglio, i concetti preferiti dall’attuale televisione sovietica italiana. E’ sempre allarme, sempre emergenza: tutto viene drammatizzato, enfatizzato; vi è continuamente un pericolo che incombe, una minaccia per il moderato spettatore televisivo già angustiato dalla crisi economica, dalla mancanza di una prospettiva futura per i figli, condannati al precariato perenne. Poi arriva il Premier, che rassicura: va tutto bene, anzi, benissimo, l’economia tira, i conti pubblici sono in ordine, la maggioranza che lo sostiene è compatta, omogenea, non esistono contrasti. Il moderato telespettatore tira un sospiro di sollievo. Il governo lavora per noi, per la nostra tranquillità. Ed ecco che arriva di nuovo l’Allarme! Emergenza! E si ricomincia.
L’ultimo Allarme! Emergenza! della televisione sovietica italiana è quello delle scarpe cinesi. Concorrenza sleale, dicono, produzione in stato di dumping sociale e ambientale, bisogna fare qualcosa. Già, ma cosa? Per ora le misure protezionistiche sono vietatissime dall’Europa. Parla il patron Diego della Valle: bisogna “riqualificare”, è necessaria “una ricerca, per l’innovazione”. Quale innovazione? Il servizio ha appena svelato che le scarpe italiane sono all’avanguardia nel mondo, esportiamo ben l’ottanta per cento della produzione. Cosa c’è da innovare?
Allora ho fatto un giretto per negozi, tanto per rendermi conto dei prezzi dei nuovi arrivi. Scarpe da uomo, estive, vanno da 80 a 110 euro; dei sandalucci aperti da donna 100 euro (99, va be’). E quelle invernali vanno dai 100 ai 120. Prezzi medi intendiamoci, le “ciocce” superfirmate vanno ben oltre . Ecco quindi il problema, che la televisione sovietica italiana e Della Valle si guardano dal sottolineare: i prezzi. Gli industriali italiani, i “peggiori capitalisti d’Europa”, come li chiama qualcuno, piangono continuamente miseria, si lamentano, chiedono soldi, sempre più soldi, a scapito della cosa pubblica, che va rasa al suolo per pompare capitali a fondo perduto nelle loro casse senza fondo. Hanno profitti enormi, offensivi, mentre invocano abbassamenti del costo del lavoro (leggi: salari più bassi), e maggiore “flessibilità”, in un mercato del lavoro che è già uno dei più flessibili del mondo. Ma i prezzi non li abbassano, questo mai. E allora, che dire? Ma teniamoci le scarpe cinesi.
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