Amare la letteratura a Teheran
Leggere Lolita a Teheran (Adelphi) è un libro bellissimo. Non è facile, di questi tempi, permettersi un simile aggettivo. I libri moderni possono essere “belli”, “molto belli”, oppure “bellissimi, però...” Qui non c’è però. E’ di una bellezza unitaria, priva di sbavature; è il libro ideale da leggere dopo tre o quattro fughe nella narrificazione, nei gialli, nei romanzetti storici, per tornare a volare alto e riflettere sulla vita. E per questo, per questa merce rara, dobbiamo essere grati all’autrice.
Azar Nafisi è stata insegnante all’Università di Teheran fino al 1997, quando è definitivamente emigrata in America. Ha vissuto tutte le fasi della rivoluzione islamica, fino alla lunga guerra con l’Iraq. Il romanzo, se così possiamo definirlo, perché è evidente la sua valenza di testo verista, autobiografico, segue lo scorrere del tempo, e il consolidamento del regime, attraverso vari racconti, ritratti di personaggi, salti temporali, con una tecnica di racconto nel racconto che, per la particolarità stilistica, per la struttura, ricorda Le Mille e Una Notte. Strabiliante è la fantasia narrativa del grande classico, strabiliante è la follia che pervade Leggere Lolita a Teheran. In quella città, in quella parte di mondo infatti, è accaduta una cosa che forse solo la letteratura può svelare: la follia più assoluta ha preso il potere e si è impadronita del tempo, della vita, dei desideri, dei sogni. Proprio i sogni, quelli di un vecchio uomo che guarda il mondo con sguardo arcigno, o quelli del “censore cieco” (il censore del cinema e del teatro nel regime di Kohmeini era un cieco), i loro sogni malati, perversi, hanno rubato il passato, il presente, il futuro, i colori della vita e hanno creato un mondo in bianco e nero. Non esiste più nulla, nella Repubblica islamica, al di fuori di questi sogni-vampiro che hanno ridotto il mondo una terra desolata. La narratrice, la “professoressa Nafisi” viaggia in questo mondo impazzito avendo come unica arma di difesa, come unica via d’uscita, il suo amore sincero, totale, per la letteratura. Solo la letteratura può garantire la sopravvivenza, perché permette di raggiungere una realtà parallela, e di nascondersi, quando l’irrealtà, che è al potere, fa sprofondare il mondo nell’oscurità e nella distruzione.
Diviso in 4 parti, ognuna dedicata a uno dei suoi scrittori preferiti, tutti “decadenti”, tutti “peccaminosi” secondo la rigida retorica del regime (un capitolo è dedicato a un incredibile processo al Grande Gatsby, intentato da uno dei temibili studenti fanatici islamici – che avevano il potere di fare licenziare, arrestare i professori giudicati filo-occidentali – e difeso da una studentessa e dalla stessa autrice): Lolita (Nabokov), Gatsby, James, Austen, ci aiuta a capire che i fantasmi dell’uomo, i sogni, le speranze, i demoni, sono già nei grandi libri. Humbert è il carceriere-mostro che ruba e divora l’adolescenza di Lolita; Gatsby è legato indissolubilmente ai propri sogni, e la sua fine coincide con la fine del sogno, con la morte dell’ideale; Henry James è l’ambiguità, la non certezza, è Daisy Miller, la donna coraggiosa e anticonformista; Jane Austen è il canto corale, la scrittura polifonica, la democrazia, ma anche la piccola crudeltà quotidiana, il peso delle convenzioni sociali.
Sempre, quando la luce si spegne, i colori svaniscono, e tutto si sgretola, interviene la letteratura a tenere insieme i pezzi. Leggere Lolita a Teheran è un grande racconto d’amore, ma è anche un avvertimento: rinunciare alla letteratura, alla creatività, alla fantasia, alla propria coscienza, significa abbandonarsi al ruolo di vittima, e subire la lapidazione dei sicari del censore cieco.
Leggere Lolita a Teheran (Adelphi) è un libro bellissimo. Non è facile, di questi tempi, permettersi un simile aggettivo. I libri moderni possono essere “belli”, “molto belli”, oppure “bellissimi, però...” Qui non c’è però. E’ di una bellezza unitaria, priva di sbavature; è il libro ideale da leggere dopo tre o quattro fughe nella narrificazione, nei gialli, nei romanzetti storici, per tornare a volare alto e riflettere sulla vita. E per questo, per questa merce rara, dobbiamo essere grati all’autrice.
Azar Nafisi è stata insegnante all’Università di Teheran fino al 1997, quando è definitivamente emigrata in America. Ha vissuto tutte le fasi della rivoluzione islamica, fino alla lunga guerra con l’Iraq. Il romanzo, se così possiamo definirlo, perché è evidente la sua valenza di testo verista, autobiografico, segue lo scorrere del tempo, e il consolidamento del regime, attraverso vari racconti, ritratti di personaggi, salti temporali, con una tecnica di racconto nel racconto che, per la particolarità stilistica, per la struttura, ricorda Le Mille e Una Notte. Strabiliante è la fantasia narrativa del grande classico, strabiliante è la follia che pervade Leggere Lolita a Teheran. In quella città, in quella parte di mondo infatti, è accaduta una cosa che forse solo la letteratura può svelare: la follia più assoluta ha preso il potere e si è impadronita del tempo, della vita, dei desideri, dei sogni. Proprio i sogni, quelli di un vecchio uomo che guarda il mondo con sguardo arcigno, o quelli del “censore cieco” (il censore del cinema e del teatro nel regime di Kohmeini era un cieco), i loro sogni malati, perversi, hanno rubato il passato, il presente, il futuro, i colori della vita e hanno creato un mondo in bianco e nero. Non esiste più nulla, nella Repubblica islamica, al di fuori di questi sogni-vampiro che hanno ridotto il mondo una terra desolata. La narratrice, la “professoressa Nafisi” viaggia in questo mondo impazzito avendo come unica arma di difesa, come unica via d’uscita, il suo amore sincero, totale, per la letteratura. Solo la letteratura può garantire la sopravvivenza, perché permette di raggiungere una realtà parallela, e di nascondersi, quando l’irrealtà, che è al potere, fa sprofondare il mondo nell’oscurità e nella distruzione.
Diviso in 4 parti, ognuna dedicata a uno dei suoi scrittori preferiti, tutti “decadenti”, tutti “peccaminosi” secondo la rigida retorica del regime (un capitolo è dedicato a un incredibile processo al Grande Gatsby, intentato da uno dei temibili studenti fanatici islamici – che avevano il potere di fare licenziare, arrestare i professori giudicati filo-occidentali – e difeso da una studentessa e dalla stessa autrice): Lolita (Nabokov), Gatsby, James, Austen, ci aiuta a capire che i fantasmi dell’uomo, i sogni, le speranze, i demoni, sono già nei grandi libri. Humbert è il carceriere-mostro che ruba e divora l’adolescenza di Lolita; Gatsby è legato indissolubilmente ai propri sogni, e la sua fine coincide con la fine del sogno, con la morte dell’ideale; Henry James è l’ambiguità, la non certezza, è Daisy Miller, la donna coraggiosa e anticonformista; Jane Austen è il canto corale, la scrittura polifonica, la democrazia, ma anche la piccola crudeltà quotidiana, il peso delle convenzioni sociali.
Sempre, quando la luce si spegne, i colori svaniscono, e tutto si sgretola, interviene la letteratura a tenere insieme i pezzi. Leggere Lolita a Teheran è un grande racconto d’amore, ma è anche un avvertimento: rinunciare alla letteratura, alla creatività, alla fantasia, alla propria coscienza, significa abbandonarsi al ruolo di vittima, e subire la lapidazione dei sicari del censore cieco.
8 commenti:
Questo libro, mi interessa, se ne è parlato molto, e la tua recensione conferma che si tratta di un testo interessante, più che interessante. Però, Baldrus... ho letto Lolita, anche se diversi anni fa, e non sono molto d'accordo sulla definizione di Humbert come mostro. Sì, lo è, però Humbert ama Lolita, è la sua ossessione, e alla fine uccide per lei. Insomma, trovo la definizione un po' riduttiva. In bianco e nero, come dici.
Vero. La Lolita di Nabokov è una ninfa e chi la segue non può essere un mostro bensì un Ulisse liberato dai lacci per seguire la "sua" sirena. Humbert non vuole arrivare a nessuna Itaca, vuole perdersi. Nessun metro morale può rendere giustizia della sua scelta: e questa è la trappola che Nabokov tende.
maline
Sono in parte d'accordo. Però l'autrice tende a identificare Humbert col totalitarismo. Lui di fatto tiene Lolita prigioniera, perché "non ha altro posto dove andare", e vuole rubarle tutto, la vita, la giovinezza. La Nafisi ha ribadito questo concetto anche in una intervista a radio radicale
(http://www.miserabili.com/archives/2004/09/azar_nafisi_su.html), è interessante, anche se bisogna sorbirsi qualche proclama radicale nelle domande. Poi è vero che Nabokov va oltre, è questo che fa di lui un grande scrittore.
Non sono d'accordo Baldrus.
Io credo sia più Lolita -nel gioco del chi seduce chi) a tenere prigioniero Humbert. Il fatto poi che Lolita sia una ragazzina (minorenne!) è quello che rende possibile (benpepato) lo spezzamento del cerchio. Per tornare ad un paragone con Ulisse, Humbert non ridiventa alla fine re di nulla, non fa fuori qualche dozzina o centinaia di Proci per tornare nelle braccia della ragione, nell'odine delle cose -compie bensì l'atto disperato e totale che lo fa uscire dal gioco.
In qualche modo è l'Ulisse che corre dalle sirene, è la pagina che Omero non ha... voluto scrivere.
;-))
Non possiamo non riconoscere, in Humbert, il ruolo di carceriere vampiro. Lolita è una ragazza rozza, per certi aspetti furba, ma è soprattutto una ragazzina appena uscita, ma non completamente, dall'infanzia: una "ninfetta", l'ossessione di Humbert; ed è sola al mondo, è indifesa, con risorse scarsissime, e di questo Humbert si approfitta. La tiene in pugno, e lo sa. "Non ha nessunn altro posto dove andare", dice in un punto del libro. Lolita vorebbe giocare a tennis con gli altri ragazzi della sua età, vorrebbe essere spensierata, come tutte le altre americane adolescenti. Humbert impazzisce di gelosia, e glielo impedisce. Di fatto ne fa una prigioniera. Alcuni hanno visto in Lolita il demone che avvelena il sangue di Humbert, ma a mio avviso questa è una lettura rassicurante, perché il vampirismo della vita intima, della giovinezza, è duro da reggere. Ci fa sentire a nostra volta indifesi, sotto minaccia. E non dimentichiamo che Humbert era già ossessionato in maniera patologica dalle "ninfette", ancora prima di conoscere Lo. Poi sono d'accordo che il punto sottolineato da Azar Nafisi, cioè Humbert-totalitarismo, è riduttivo se preso in sè; però Humbert è anche questo. Io credo che Lolita sia un grande romanzo nero, un grandissimo testo sul male, e come tale si presta a letture diverse. Ma l'aspetto di vampiro di Humbert, di orco, anche se di orco ossessionato dalla sua vittima, che pure lo seduce, non possa essere messo in discussione.
Credo che la questione sia se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Il tuo punto di vista è più che legittimo, Baldrus -ma tu stesso dici che: "Non possiamo non riconoscere" il ruolo di carceriere di Humbert; usi cioè una doppia negazione. Che condivido se consideriamo il punto di vita sociale e morale. Ma Humbert è anche preda di una "follìa" -di qualche cosa che per i greci era ancora divino, che aveva a che fare con démoni: e da questo punto di vista Lolita è il démone che possiede Humbert: che non esclude il suo essere carceriere. A me non è mai risultato chiaro (sic) nel libro quanto in Lolita sia gioco innocente e quanto invece lei mostri i prodromi, alle soglie della coscienza, dei temporali che accompagnano ogni adolescente alle prese con la sessualità (oltre che con l'amore)che si sviluppa (e questa ambiguità fa la grandezza del libro). Humbert ne resta soggiogato perchè è già uno sconfitto. Lolita gioca, ma rimane nelle regole; Humbert gioca ma dalle regole ne esce aprendosi alla propria dannazione. Forse hai ragione nel designare Lolita quale noir. Perchè Humbert è già dannato nel momento dell'incontro con la ninfa; perchè lui in qualche modo compie il processo inverso a lei: anche lui è alle soglie della coscienza -ma per entrare nell'oscurità. È un uomo che cerca il modo di arrendersi.
***
Mi scuso se non parlo della Lolita di Teheran, ma non l'ho letta.
maline
Mi trovo più d'accordo con maline che con te, baldrus, spero che non ti offendi! Confesso che non ricordo molto bene Lolita, sono passati parecchi anni. Però il ruolo di vittima, o almeno anche di vittima, di Humbert, mi convince più di quello di aguzzino. Secondo c'è uno e l'altro, ma non riesco ad attribuirgli soprattutto il secondo.
Scherziamo ragazzi? I grandi libri toccano corde in profondità nel nostro animo, è normale che vi siano letture diverse. Mi stupirei se così non fosse. Ed io non ho certo la pretesa che la mia sia quella giusta, quella universale.
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