mercoledì, maggio 18, 2005

La sindrome di Stoccolma dell’intellettuale-Lolita italiano

Il processo è iniziato una trentina di anni fa, a Ravenna. In quella città esisteva una cellula molto attiva dell’ARCI, sempre in fermento e alla ricerca di idee, di segnali, soprattutto nel mondo giovanile e della comunicazione. Questo gruppo di amici, di intellettuali, composto tra l’altro da Stefano Giunchi, poi emigrato all’ARCI di Roma, e da Guido Pasi, oggi un irreprensibile assessore della Regione Emilia Romagna, decise di creare una sottocellula che chiamarono Cellula Hollywoodiana dell’ARCI. Nel nome era contenuto tutto il programma della struttura, molto più che in qualsiasi documento o statuto: tutto ciò che era hollywoodiano, da baraccone, di cartapesta, tutto ciò che era trash (questa parola comunque ancora non si usava) era benedetto dal Cielo. Giocavano, quei ragazzi, si beavano a esaltare i filmacci con Ronald Reagan, i baci d’amore sullo sfondo di tramonti al calor bianco, con contorno di musiche che avrebbero strappato un brivido a Ennio Morricone. Si divertivano, cazzeggiavano, e non sapevano di avere inaugurato un genere, un atteggiamento che sarebbe dilagato inarrestabile tra gli intellettuali italiani come un’epidemia.
Passarono gli anni, e arrivarono gli Ottanta, col loro carico di leggerezza e disperazione, con la voglia di trasgredire ma anche di arrivare, di avere successo. Un nuovo programma televisivo, che andava in onda su una delle emittenti dell’astro nascente Silvio Berlusconi, irruppe come una meteora sulla scena mediatica italiana: Non è la Rai, una sfilata di adolescenti con minigonne mozzafiato che ballavano e cantavano. Non era importante il talento, ma la malizia con la quale il grande voyeur Gianni Boncompagni insinuava la telecamera sotto le gonne, le spiava, le frugava (poi, dopo le prime puntate, le inquadrature si fecero leggermente più caste, forse per evitare polemiche e accuse di oscenità).
Era presentato da una ragazzina coi capelli scuri, un po’ rotondetta, Ambra Angiolini, che “bucava” il video, e immediatamente divenne un’icona con la quale le spettatrici adolescenti si identificavano. Sui muri delle città italiane non era raro vedere scritte del tipo: Ambra, 6 un mito. Ambra aveva un’ottima parlantina, era ammiccante, ballicchiava, canticchiava; era bravina, non era una di quelle stuatuarie vallette seminude che vanno di moda oggi. Il pigmalione e tenutario dell’harem Boncompagni la manovrava attraverso un auricolare. Qualche volta le faceva persino dire delle battute politiche, ovviamente favorevoli al suo padrone e al CAF, che a quei tempi spadroneggiava e lo proteggeva. Quel programma era puro nulla, ma tutti, in un modo o nell’altro, lo guardavamo: noi maschi per sfogare l’occhio, le ragazze per confrontarsi con le “macchine di desiderio” create dal mezzo televisivo.
In quegli anni Alberto Piccinini era uno degli intellettuali di punta della sinistra. Firmava sul manifesto articoli di letteratura, ed era molto ambita una sua recensione. Ha fatto parte della redazione di Blob e oggi lavora a MTV. Cosa fece Alberto Piccinini? Che idea ebbe? Quale luce illuminò la penombra della sua vita di intellettuale impegnato? Scrisse un libro su Ambra. Un intero libro. Non ci potevamo credere. Quelli erano tempi in cui gli intellettuali ragionavano ancora su concetti quali: che modello di sviluppo alternativo è possibile per superare la spirale perversa produzione-consumi? Tematiche che, a tirarle fuori oggi, si rischia, nel migliore dei casi, il compatimento. Bene, Alberto Piccinini mise da parte queste riflessioni e scrisse un libro su Ambra. Se ne discusse, e in maniera piuttosto rumorosa, a lungo. Tutto ciò che ricordo di quel testo è il tono a metà tra l’ironico e l’ammirato. Un atto d’amore, in definitiva, e di desiderio, verso Ambra.
Desiderio che è puntualmente riemerso in tempi più vicini ai nostri in un altro intellettuale, questa volta altamente specializzato in fenomeni televisivi: Carlo Freccero tesse un elogio entusiasta, addirittura selvaggio, dell’ultima icona prodotta dal video: Costantino Vitagliano. Durante un’intervista l’ex direttore di RAI 2, con quella sua aria sempre un po’ “fatta”, vagamente maledetta, alla Carmelo Bene, definisce colui che è stato descritto come “la più compiuta trasfigurazione del nulla mai esistita”, un grande personaggio, l’unico maschio perfetto che incarna la mascolinità contemporanea. Una nuova dichiarazione d’amore verso una macchina di desiderio televisiva.
Il tempo passa, ma la natura del processus non cambia. Esplodono le sorelle Lecciso. Due signore inabili al lavoro fanno impazzire per alcuni mesi i vertici televisivi e si scatenano fenomeni di fanatismo mediatico. A questo punto scende in campo un altro commentatore di grido: l’intellettuale parlante Francesco Merlo traccia dalle colonne de La Repubblica una Fenomenologia delle Lecciso che equivale a una vera a propria esaltazione acritica del fenomeno. Questo è il futuro, elzevireggia Merlo, e chi osa criticare, chi si permette di giocare all’intellettuale impegnato sappia che sarà iscritto nella lista nera delle “scimmie di Umberto Eco”. Alè.
E veniamo ai giorni nostri, così aleatori, così fuggevoli. Il vecchio vizio si perpetua. Due scrittori trentenni à la page, Giuseppe Genna e Michele Monina, hanno pensato di ripetere l’impresa di Alberto Piccinini. Scrivono un intero libro sull’icona televisiva suprema dei nostri tempi, uno che quando scende in strada “vale più del Premier, del Presidente della Repubblica, delle elezioni”; uno che, “se Sofocle ed Eschilo fossero nati oggi avrebbero scritto una tragedia su di lui”. Un libro sul “Costa”, il sempiterno Costantino (che ancora “tiene il chiodo”, benché si affaccino sul video nuovi fustacchiotti). E siamo alle solite: tra le righe di uno stile mondano, sarcastico, brillante, sotto lo smalto di una presunta ricerca social-mediatica della periferia milanese, si cela, neanche troppo mimetizzata, l’attrazione verso la macchina di desiderio televisiva, l’oggetto del fanatismo di “interi pullman” di ragazzotte che sperano di vedere da vicino colui-che-non-sa-fare-un-cazzo-però-è-talmente-famoso-che-gli-fanno-fare-pure-un-film.
Ho riflettuto a lungo, è dagli anni Ottanta che rifletto e mi chiedo: perché lo fanno? Perché questi intellettuali perdono la testa per personaggi che sono la negazione stessa dell’intelligenza (come simboli ovviamente)? E non solo, si arrabbiano pure con chi osa criticare i loro eroi? Non ho mai trovato una risposta certa. Ho pensato che un motivo può essere una semplice attrazione sessual-mediatica verso l’eroe, o l’eroina, del momento; oppure un tentativo di assorbire un po’ di luce riflessa dell’astro, sfruttare il suo nome, vendere copie ecc: però nessuna di queste spiegazioni mi convince pienamente. Diciamo che le trovo plausibili al 50%. E l’altro 50%?
Per cercare una risposta mi sono avventurato tra le pagine di un grande classico del Novecento e ho trovato la citazione giusta: Lolita e Humbert, durante il lungo viaggio nella provincia americana, si fermano in un albergo. Hanno un rapporto sessuale: doloroso, umiliante quello di lei, estatico quello del suo carceriere; poi lui la fa soffrire, le svela brutalmente che sua madre è morta ed ora è sola al mondo. Litigano, e prendono due camere separate. Ma “nel mezzo della notte lei venne singhiozzando nella mia e ci riconciliammo con grande dolcezza. Vedete, non c’era altro posto al mondo dove potesse andare”.
Non c’era altro posto al mondo. Forse è qui il restante 50%. Gli eroi mediatici sono l’Antiletteratura allo stato puro, l’Anticultura incarnata sulla terra. Questi sono tempi difficili, come sostiene qualcuno. Edmondo Berselli scrive che “questa è l’epoca postindustriale, c’è la stagnazione, il declino; I Costantino, i Daniele Interrante rispecchiano in modo adeguato un paese senza più capacità di creare valore aggiunto, che si autoconsuma”.
Dove può andare un intellettuale che non crea più valore aggiunto, dove si nasconde in questo tempo fatto di nulla? Non c’è altro posto al mondo. Ecco allora che si rivolge verso il suo stupratore, il suo carceriere. Gli sorride, lo blandisce, cerca di abbracciarlo. E’ condannato, e lo sa, perché il mondo scivola sempre più verso il totalitarismo mediatico degli eroi dell’Anticultura; sa che prima o poi dovrà cadere, e cadrà nel fango. E allora, deve essersi chiesto l’intellettuale-Lolita italiano: perché non farlo almeno ridendo e ballando?

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Analisi lucida, esatta, spietata. Grande Baldrus

Anonimo ha detto...

Brevemente: bravo Baldrus.

Anonimo ha detto...

GRANDE BALDRUS!!!....SE TI E' RIMASTO QUEL LIBRO DI AMBRA........................!!!!
PIERO