Quello che segue è forse il “periodo lungo” o “periodo lento” più famoso della Recherche. Sulla scrittura proustiana, la cui densità è stata definita, da alcuni critici, “elefantiaca”, o “antioratoria”, fatta di periodi di estrema lunghezza e complessità, sono stati scritti numerosissimi saggi. Il periodo proustiano è stato analizzato, scomposto, smontato; Leo Spitzer l’ha addirittura suddiviso in vari tipi, il periodo “ad esplosione”, quello “a ramificazione”, o “ a stratificazione”; mentre il critico Franco Simone, sulla rivista fiorentina Letteratura nel 1947 ha notato come – proprio nel brano qui di seguito pubblicato - attraverso il ritmo della scrittura Proust evochi immagini (le due camere, quella d’inverno e quella d’estate), atmosfere, sensazioni (caldo-freddo, il nido come rifugio) che ci comunicano le impressioni di un uomo – lo scrittore – enormemente sensibile, durante il risveglio mattutino.
Oggi, nell’era della scrittura veloce, influenzata da sms, messaggi nei social network ecc., lo stile lento è certamente in controtendenza. Ben venga quindi.
Viva le controtendenze.
"Ma avevo riveduto ora l’una ora l’altra le stanze che avevo abitate nella mia vita, e finivo col ricordarle tutte nelle lunghe fantasticherie che seguivano al mio risveglio: camere invernali dove, quando siamo a letto, rannicchiamo il capo in un nido intessuto delle cose più disparate, un angolo del guanciale, il bordo delle coperte, una cocca di scialle, la sponda del letto e un numero dei Débats roses, nido che poi alla fine si cementa secondo la tecnica degli uccelli, standovi appoggiati indefinitamente; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si prova è di sentirsi divisi dal mondo di fuori (come la rondine marina che ha il suo nido al fondo d’un sotterraneo nel calore della terra), e dove, mantenendosi acceso il fuoco nel camino tutta la notte, si dorme in un gran mantello d’aria calda e fumosa, percorsa dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, una specie d’impalpabile alcova, di calda caverna scavata in seno alla camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, aerata da aliti che ci rinfrescano il viso, e vengono dagli angoli, dalle parti più vicine alla finestra o lontane dal focolare e divenute fredde; - camere estive dove piace unirsi alla notte tiepida, dove il chiaro di luna, venuto a posarsi sulle imposte socchiuse, getta fino al piede del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all’aria aperta, come la cinciallegra cullata dalla brezza in cima a un raggio; - a volte camera Luigi XVI, così allegra che neppure la prima sera non mi ci ero sentito molto triste, dove le colonnette che sostenevano leggere la volta con tanta grazia si scostavano a mostrare e serbare il luogo del letto; a volte invece quella, piccola e col soffitto molto elevato, scavata a forma di piramide nell’altezza di due piani e in parte rivestita di mogano, dove fin dal primo momento ero stato moralmente intossicato dall’odore sconosciuto della gramigna indiana, convinto dell’ostilità delle tende viola e dell’indifferenza insolente della pendola che cicalava forte come se io non ci fossi stato; - dove uno strano e spietato specchio quadrangolare, a bilico, sbarrando di sbieco uno degli angoli della stanza, si apriva a forza nella dolce pienezza del mio ordinario campo visuale un posto che non vi era preveduto; - dove il mio pensiero, sforzandosi per ore e ore di estendersi, di innalzarsi per prendere l’esatta forma della stanza e giungere a riempire fino all’alto il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte notti penose, mentre me ne stavo disteso nel letto, con gli occhi alzati, con l’orecchio ansioso, la narice restìa, il cuore che batteva: fino a quando l’abitudine non avesse mutato il colore delle tende, fatto tacere la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non messo in fuga interamente, l'odore della gramigna indiana, e diminuito in modo notevole l’apparente altezza del soffitto”.
(traduzione di Natalia Ginzburg)
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