A essere proprio sinceri, a dirla proprio tutta, senza pudore né reticenze, il problema è tirarlo fuori. Sì, esibirlo apertamente, non dico con orgoglio, ma con tranquillità, come se fosse normale. Ovviamente c’è chi lo fa, anche se, per quanto mi riguarda, non ho mai visto nessuno tirarlo fuori così, con nonchalance. Magari lo fa in privato, al sicuro nella propria stanza. Ma io ho poco tempo, devo sfruttare le occasioni, così lo faccio di nascosto, con un gesto rapido. Con un gesto clandestino.
Alla fine ho deciso. Deve essere stato per la mia innata curiosità , il talento del ficcanaso, fatto sta che dopo varie indecisioni e continui rimandi, l’altro giorno ho rotto gli indugi, ho preso Il tempo che vorrei di Fabio Volo e ho iniziato a leggerlo. Provavo una certa inquietudine, anzi, mi spaventava, addirittura: se mi avesse fatto schifo sarebbe stato per un pregiudizio? Per l’orrore del besteseller commerciale, il prodotto dai nemici di noi scrittori di nicchia, quelli che si prendono tutto, che commerciano con le emozioni come fossero dei supermercati viventi? Per un atteggiamento snob? Ma soprattutto: e se mi fosse piaciuto? Come la mettiamo? Però volevo rendermi conto di persona, capire di cosa stiamo parlando quando parliamo di letteratura-marketing, o addirittura di non-letteratura.
Così l’ho iniziato, vada come vada.
Solo che mi vergogno a tirarlo fuori dallo zaino in autobus. Lo apro con un gesto repentino e zac! ripiego subito la copertina, per nasconderla, non senza lanciare occhiate furtive intorno a me. Serpeggia il pensiero che qualcuno mi sgami e dica, tra sé: “ma guarda quello lì, legge Fabio Volo, non è mica a posto.” Invece probabilmente nessuno lo penserebbe. E’ normale leggerlo, come è normale fare un sacco di altre cose, per esempio ascoltare Sting e dire “ha una bella voce”, o andare a un concerto di Ligabue, fare la fila per i biglietti e dopo dire "è stato bellissimo." Sono cose considerate normali.
Per ora ne ho letto 68 pagine. Non so cosa fare, se andare avanti o mollarlo, ma so che andrò ancora avanti. Non c’è molto da dire. L’inizio è intrigante, con alcune considerazioni centrate sul rapporto col padre. Colpiscono, vanno a segno. Ma ho avuto il dubbio che l’autore le abbia scritte con un manuale di psicologia alla mano. Cioè che abbia messo i rudimenti della psicologia, nella sua componente divulgativa, sotto forma di racconto. In ogni caso l'operazione, che per la peculiarità potremmo definire new age (ovvero un mix pop di varie componenti, vari stili e problematiche), è riuscita. Poi ho trovato abbastanza autentiche le pagine sull’infanzia da povero, dove per povertà non intende la miseria, ma la sotto-sopravvivenza, i vestiti e i libri di scuola riciclati, la vita da paria, da “inferiore”, la macchina vecchia, la pizza negata, i centesimi risparmiati. Prosegue con descrizioni del lavoro del padre, che gestiva un bar, l'ossessione delle cambiali, i personaggi del tribunale, tutto restituito con un buon realismo. E’ molto attuale, considerando le manovre del governo dei banchieri che si stanno impossessando non solo delle ricchezze delle fasce di popolazione più deboli, ma delle loro stesse vite, del loro tempo, delle loro speranze. Seguono alcuni luoghi comuni sui rapporti uomo-donna, uomo-uomo, con macchiette e maschere abbastanza sterotipate, ma si sente che qualcosa batte sotto la superficie. Vedremo, tra una cinquantina di pagine.
Però.
C’è un però, pesante come un macigno. Un però molto privato.
Io sono una carta assorbente. Come scrittore intendo. Spero di avere uno stile personale, ma assorbo la scrittura altrui, che influisce sulla mia. Prima di mettermi a scrivere un testo cerco di caricarmi con stili per me stimolanti, per esempio Goliarda Sapienza, Irene Nemirovsky, che mi lanciano gli input giusti. Non necessariamente stili preziosi, o complicati, anzi, amo molto la semplicità, come quella di Fenoglio per esempio; ma cerco la scrittura vera, profonda, e innovativa nella semplicità. Ovviamente non il luogo comune della semplicità, come per esempio l'ultima canzone di Laura Pausini "ho cercato la bellezza e l'ho trovata nella semplicità", con un video fatto di cartoline di una città che sembra Amsterdam. Quella di Fabio Volo è una scrittura che non si può definire semplice, ma povera, talmente “bassa” (e non dico nulla di offensivo, perché lui stesso afferma in televisione che scrive “basso”) che ho la sensazione di farmi dei danni da me medesimo. Sento che mi manca l'aria mentre leggo. Penso che devo fare in fretta, perché è come se bevessi dell’acqua con un residuo fisso elevato, che può danneggiarmi la funzione renale. Una scrittura che tira al basso che può ingolfare la mia, di scrittura. Per esempio, a pag. 63: "io, poi, ritornato con i piedi per terra, non me la sono più sentita." E la pagina dopo, che inzia un nuovo capitolo: "Non me la sono sentita." Esattamente 9 righe dopo. La stessa frase in nove righe mi causa un senso di panico.
Così lo tiro fuori di nascosto, con senso di colpa doppio perché ho paura di confondere il livello di quello che già so fare, per via della sindrome della carta assorbente.
Credo che dietro questo atteggiamento, se così posso chiamarlo, ci sia un groviglio inquietante e misterioso di contraddizioni, di paure, di presunzioni e chissà che altro. Comunque sia mi sono cacciato in un guaio, avrei preferito non avere mai iniziato questo libro, era meglio andare avanti per la mia strada, pensando alle mie cose.
Per cui ancora me lo chiedo: perché l’ho fatto?
Perché non lo pianto lì?
E non trovo una risposta convincente.
2 commenti:
il Volo attore non mi sembra male, sullo scrittore non mi esprimo perchè non l'ho mai letto però se leggerlo deve farti soffrire così smetti!
Nella tua difficoltà a tirare fuori il libro di Volo leggo, spero di non offenderti, la tipica angoscia dell'intellettuale che ha paura di essere visto come uno stupido perchè non legge opere di una certa "profondità"..che dire? se non riesci a superarla e se come dici la lettura di Volo rischia di danneggiare il tuo stile..lascia perdere, la lettura deve essere un piacere, per come la vedo io
per quanto mi riguarda io non ho nessun problema a passare da Tarkovskij agli horror più trucidi, da Saramago a Diabolik, dalle commedie romantiche a quelle demenziali..l'importate è che siano ben realizzate
Posta un commento