Mi sono chiesto che cosa unisca Vitaliano Brancati a James Ellroy. Qualcuno dirà: suvvia, è una battuta, una provocazione. Forse. In effetti sembrano due scrittori agli antipodi. Ellroy è considerato il maestro del noir americano, Brancati è italiano che più italiano non si può. Ellroy è freddo, cupo, Brancati è meridionale, ironico. Eppure hanno in comune più di quanto si pensi. Le ambientazioni e il tempo per esempio: Ellroy si muove nel buco nero della Los Angeles degli anni ’40, Brancati nella Sicilia profonda, oscura benché inondata da un sole cocente, degli anni ’30. Entrambi hanno il gusto di scavare negli aspetti più nascosti, più torbidi del territorio.
Ma ciò che davvero li unisce è la cappa. Vivono sotto una campana a chiusura stagna che non fa passare aria né luce. Non si respira là sotto. In Ellroy tutto è oscuro, maledetto; i personaggi sono criminali, o quanto meno disonesti; i poliziotti sono marci. Non vi è un filo di speranza, né la prospettiva di un riscatto. Tutto si avvita su se stesso, implode nel fango e nella morte. Brancati ci mostra i siciliani schiavi dei loro pregiudizi, ossessionati dal gallismo fino alla macchietta, alla pazzia. Le convenzioni spinte agli estremi, l’ipocrisia, l’accidia stringono i personaggi in una morsa e li riducono in poltiglia.
Leggendo questi due scrittori provo emozioni simili. Lo stesso senso di soffocamento, e vedo lo stesso paesaggio disturbato, asimmetrico. E respiro gli stessi miasmi di infelicità. In Ellroy l’infelicità di non avere un futuro, un amico. In Brancati, come scrive Sciascia in coda al Bell’Antonio, "l’infelicità di vivere sotto un dispotismo più o meno blando, nella corruzione, nella cortigianeria".
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