Nel paese dove passeggiano le mucche
L’edizione Adelphi di Aforismi di Zurau, uno dei testi più misteriosi di Franz Kafka
Kafka scrisse gli Aforismi durante un soggiorno di otto mesi – dal settembre 1917 all’ aprile 1918 – a Zurau, un minuscolo paese della campagna boema. Aveva appena ottenuto una lunga licenza dall’Istituto delle Assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori, per curarsi dalla malattia, la tubercolosi, che si era manifestata un mese prima con uno sbocco di sangue.
Qui, dove “le mucche con estrema naturalezza attraversano la piazza”, e i contadini, “gentiluomini che si sono salvati nell’agricoltura”, sono “i veri cittadini della terra”, nella casa dell’amata sorella Ottla, in una stanza che si affaccia sulla piazzetta del villaggio, attraversa l’unico periodo sereno della sua esistenza. “Non mi sono mai sentito meglio” scrive, in maniera forse un po’ provocatoria, all’amico Oskar Baum.
Certo, non tutto fila perfettamente liscio; qualcosa, o qualcuno, turba la sua tranquillità: a Zurau ci sono i topi. Kafka, ipersensibile ai rumori, li sente strisciare, squittire, ne segue le corse e le danze. “Che popolo spaventevole, proletario, oppresso”, scrive a Felix Weltsch. Lui, creatura notturna, è costretto a condividere la notte con quegli esseri che non scendono a patti. Pensa di liberarsene con un gatto; ma poi, si chiede, chi lo libererà dal gatto?
Però, tutto sommato, a Zurau si sente libero, alleggerito dal peso greve della vita. La malattia, che Kafka accetta quasi con sollievo, e della quale intuisce perfettamente l’origine psicosomatica (“ho l’impressione che il cervello e i polmoni si siano messi d’accordo a mia insaputa” scrive a Max Brod), è una barriera protettiva che finalmente può alzare contro il temuto, sofferto fidanzamento con Felice Bauer, motivo di inesauribili tormenti, di sensi di colpa laceranti, di fughe, di chiusure autodistruttive. Proprio a Zurau, infatti, si consumerà l’ultima, definitiva rottura, dopo che Felice, il 21 settembre, gli farà una visita, portandosi sulle spalle “il colmo dell’infelicità”. Ora può affermare che non solo la sua vocazione di scrittore, il suo essere “pura letteratura”, gli impedisce di essere un buon marito: ora c’è il suo nuovo stato di malato. La malattia dunque lo difende: dalla schiavitù del lavoro alle Assicurazioni, dai legacci della famiglia, dalla figura incombente del padre (col quale i rapporti diventano sempre più tesi), da Praga. La malattia è una certezza, una figura forte. E’ un’estranea, ma anche un’amica che finalmente può decidere per lui e toglierlo dai guai. Così protetto, nascosto, leggero, passeggia nelle campagne e osserva la vita e il lavoro dei contadini. E gli animali: è incuriosito, incantato dagli animali che vagano semiliberi per la campagna e per il villaggio (“le capre assomigliano a ebrei polacchi, allo zio Siegfried, a Ernst Weiss, a Irma”).
Non scrive opere di narrativa (tranne alcune parabole come La verità su Sancio Panza o Confusione di ogni giorno), anche se il Wagenbach, forse il più illustre dei biografi di Kafka, interpretando un accenno dei Diari a un “romanzo progettato”, sembra convinto che proprio in questo periodo risalga la gestazione del Castello (la cui stesura inizierò quattro anni più tardi). E il tormento dei topi, che darà origine a una ricca – e per certi aspetti divertente - corrispondenza, è il preludio di capolavori futuri come La Tana e Il popolo dei topi.
I mesi di Zurau rappresentano una prova, una sperimentazione di scrittura e di vita. Kafka si propone di rompere col mondo, si avventura in una lunga lotta per “la felicità di sollevare il mondo nel puro, nel vero, nell’immutabile”. Riflette sul peccato, sul male, sui demoni, sugli dei, sul paradiso. Tanto che Max Brod descrive il periodo di Zurau come un “sottrarsi al mondo nella purezza”. E pubblica il testo nel 1953 con l’edificante titolo: Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita.
Tuttavia sarebbe riduttivo considerare gli Aforismi unicamente come una sfida della purezza e della fede. Kafka ci ha abituato a navigare nell’intrico dei suoi mimetismi, lungo sentieri disseminati di reticenze e di trappole. In realtà la lotta per la felicità, fallita secondo Wagenbach, vinta secondo i lettori che ne hanno interpretato l’opera in chiave teologica, produce il testo forse più misterioso, enigmatico e ingannevole di tutta la sua opera. Sono aforismi anomali, come avverte Roberto Calasso nella prefazione (e nella postfazione, che altro non è che il capitolo XV di K.). Lapidari, criptici, straordinariamente nitidi come tutti i prodotti della macchina di scrittura kafkiana, si discostano dalla forma classica dell’aforisma alla Kraus per assumere identità letterarie mutevoli: immagini, parabole, riflessioni rapide e taglienti sulla libertà e le catene, la vita e la morte. Mai come negli Aforismi Kafka ci spiazza, ci smarrisce, si rifiuta di compiacere il lettore. Alcuni sono perle preziose di scrittura: “la nostra arte è un essere abbagliati dalla vita: vera è la luce sul volto che arretra con una smorfia, nient’altro” (63), quasi haiku giapponesi. Altri sono immagini violente, di rottura: “una cagna puzzolente, che ha partorito molte volte, qua e là in decomposizione...” (8-9, questo brano tra l’altro fu eliminato da Max Brod, forse perché non tornava nel suo calcolo sulla purezza raggiunta). Oppure verità paradossali, persino provocatorie: “la verità è indivisibile, perciò non può riconoscere se stessa: chi vuole riconoscerla deve essere menzogna” (80).
Questa edizione rispecchia l’impostazione del manoscritto originale. Scritti su due quaderni di scuola a penna e matita, secondo la sua abitudine di sempre, nel 1920 li trasferì su foglietti di carta velina, con un numero in alto a destra. Non sappiamo con certezza se intendeva imprimere davvero un ritmo, organizzare una successione ragionata in vista di una pubblicazione. Comunque quella progressione, e la scelta di isolare ogni brano su un foglio bianco, forse per dare spazio e aria a testi che, pubblicati di seguito, sarebbero “irrespirabili”, per la prima volta sono state rispettate.
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