Il cattivo sergente (il titolo è un omaggio al mitico film di Abel Ferrara Il cattivo tenente) è nato da una riflessione, o meglio da una lunga osservazione alla quale è impossibile sottrarsi: come si può condurre una vita all’insegna del crimine all’interno di un sistema legale, ricoprendo addirittura una carica amministrativa, o direttiva?
L’osservazione era rivolta alla politica italiana, al degrado causato da conglomerati di potere dove le leggi vengono utilizzate per favorire gli interessi privati, spesso oltre una border-line che separa la concussione dal vero e proprio crimine organizzato. Però non sentivo il bisogno di scrivere un testo di fanta politica, o la rappresentazione oggettiva di un regime distopico, dove i più elementari diritti e doveri vengono calpestati. Volevo l’avventura, l’azione. Volevo il noir. Perché le cose viaggiano veloci sul racconto, in maniera più efficace di molti saggi o disamine socio-politiche. Il racconto ha una forza anarchica, dirompente, ha codici che stimolano energie nascoste, energie dormienti; il racconto può esplorare mondi dove la lingua territoriale non osa avventurarsi. Così è nato Nicholas Deville, il poliziotto marcio, come lo chiama una delle sue vittime, una sorta di cyborg che usa la sua posizione, e i mezzi di una delle polizie più efficienti del mondo, per condurre una vita totalmente criminale. E’ un sergente di Scotland Yard, nucleo specializzato antidroga. In realtà lavora per la nuova mafia di Londra, la criminalità cosiddetta rispettabile, che intreccia lo spaccio con gli investimenti miliardari nella City.
Volevo guardare nella sua vita, raccontare le sue giornate, i suoi intrighi e la sua assoluta amoralità. Ma non ero attratto da un personaggio tormentato, autodistruttivo e dostoevskiano come il tenente di Abel Ferrara. Deville doveva in qualche modo rappresentare i personaggi negativi del nostro tempo, soddisfatti della loro vita violenta, tracotanti, privi di qualunque umana compassione. Un personaggio che, mentre delinque, pensa a quanto è fico. Una sagoma, in fondo, una sagoma macabra. Una sagoma assolutamente moderna.
Così ho lanciato il racconto, ho cercato di entrare nella mente semplice del cattivo sergente, e ho scoperto anche una zona buia, un abisso che lo spaventa e dal quale cerca di fuggire.
E mentre il racconto scorreva, e io ormai mi limitavo ad esserne l’amministratore, Deville mi suggeriva che non poteva fuggire da quella zona buia, perché nella materia mutante della sua anima forse palpitava un residuo di umanità. Un’umanità sinistra che cercavo di non guardare, di non ascoltare, perché mi obbligava a confrontarmi con lei, e a cercare di stabilire, mio malgrado, quanta pesatura del cattivo sergente c’era nella personalità di tutti noi, ma soprattutto del suo autore.
Nessun commento:
Posta un commento