Questo racconto, Alcol, pubblicato quasi cinque anni fa su Nazione Indiana, è forse il migliore che abbia mai scritto, quanto meno uno dei migliori. Accade quando una energia particolare si forma, si plasma e d’un tratto la sentiamo pronta. E’ nata, deve solo uscire, vedere la luce. Poi entra in campo la tecnica, la disciplina, e la pulizia delle scorie. Così il racconto è maturo, proprio come un frutto sull’albero.
Pochi giorni dopo la pubblicazione ricevetti una mail dall’editor di una importante casa editrice – che ora è passato a una casa editrice molto importante – che mi chiedeva se avevo un romanzo da sottoporgli, perché sperava di trovare la stessa qualità del racconto.
Queste erano cose che accadevano circa cinque anni fa, e non so se possano accadere ancora oggi. Cose che, tra l’altro, contraddicono chi teorizzava la scarsa importanza del web per l’editoria.
Io a quei tempi non avevo un romanzo pronto, né una raccolta di racconti organica. Così tutto passò, perché tutto scorre, come dice l’I Ching, tutto ha una scadenza, e una fine. L’editor emigrò altrove, e io scrissi altro.
Ma io so che Alcol aveva potenza anche perché dietro c’era una storia vera. Questo è un argomento delicato. Un racconto o un romanzo non deve avere necessariamente un retroterra real, ma spesso ce l’ha, e sta nell’autore superare la dipendenza – o la paura? – dai fatti materiali. Non è per forza obbligato a mescolare le carte, mentire o falsificare. Oppure può farlo – in certi casi deve –, può essere reticente, baro, bugiardo. Ma non ci sono regole assolute.
Io con Alcol sono stato abbastanza realista. Ho veramente passato un periodo al seguito di un alcolista, cercando di tenerlo lontano dalla sua droga. E tutto si è sfaldato perché mi ha fregato, e il motivo principale della fregatura è stata davvero la malattia del mio cane. E il personaggio del pittore era autentico, con un referente in carne e ossa che camminava per le strade della mia città facendo tappa nei bar, bevendo gli aperitivi, dalla mattina presto fino a sera, quando rientrava barcollante in una casa troppo grande e troppo fredda. E mentre tutto precipitava io l’ho veramente seguito nei bar, intimando ai baristi di non servirgli da bere. E ci siamo davvero fronteggiati, sul punto di scontrarci fisicamente, lui con karate e io col pugilato.
Quel personaggio, quel pittore, dopo la mia uscita di scena ha continuato a vagare per la città. Lo incrociavo ogni tanto, ci salutavamo, e tra noi serpeggiava una sorta di malinconia, come una frase non pronunciata: ci abbiamo provato, forse poteva andare bene ma è andata male. Come sarebbe stato bello se fosse andata bene. Ma evidentemente non era possibile.
Ho continuato a vederlo, solo, sempre più magro e malfermo sulle gambe, che avanzava come spinto da una forza che si ostinava a rigenerarsi ogni giorno, ogni mattina.
Finché tutto si è svuotato, esaurito, sfinito, disarticolato, spezzato. Alla fine dell’estate ho saputo che era morto. La notizia non mi ha stupito. Ultimamente si trascinava, era allo stremo, l’ombra di se stesso.
Mi è rimasta la tristezza, anche se si è trattato di una fine annunciata, e la mente razionale dice che in fondo è stata una sua scelta, e come tale, forse, va rispettata.
Eppure quando entro in un certo studio, che è arredato coi suoi acquerelli belle-epoque, mi soffermo sempre, talvolta a lungo, davanti ai quadri. Lo ricordo quando rideva, quando era disperato, affranto, quando faceva progetti e poi quando diceva che non c’era futuro, perché nulla aveva senso.
E lo saluto.
Nessun commento:
Posta un commento